Diario da Gaza 100

“La paura doveva essere riservata solo a me”

Rami Abu Jamous scrive il suo diario per Orient XXI. Giornalista fondatore di GazaPress, un’agenzia di stampa che forniva aiuto e traduzioni ai giornalisti occidentali, Rami ha dovuto lasciare il suo appartamento a Gaza con la moglie e il figlio Walid di due anni e mezzo. Rifugiatisi a Rafah, la famiglia è stata poi costretta a un nuovo esilio prima a Deir al-Balah, poi a Nuseirat, bloccata come tante famiglie in questa enclave miserabile e sovraffollata. Un mese e mezzo dopo l’annuncio del cessate il fuoco, Rami è finalmente tornato a casa con la moglie, Walid e il figlio appena nato, Ramzi. Per il suo Diario da Gaza, Rami ha ricevuto tre importanti riconoscimenti al premio Bayeux per i corrispondenti di guerra. Questo spazio gli è dedicato dal 28 febbraio 2024.

Due persone sedute su un divano in un ambiente distrutto, circondate da macerie.
Gaza City, 9 luglio 2025. Una donna palestinese sistema i capelli della figlia.
Omar AL-QATTAA / AFP

Per questa centesima rubrica, Rami Abu Jamous ha ceduto il posto a sua moglie Sabah, affinché potesse raccontare la propria testimonianza.

Mi chiamo Sabah Shamali. Ho 34 anni e cinque figli.

La mia famiglia è originaria di Gaza. Non ho continuato a studiare e mi sono sposata a 16 anni. A Rami dico sempre che, dopo la guerra, riprenderò i miei studi. Imparerò il francese e finalmente potrò capire cosa dice ai bambini. Del resto, ho già imparato qualche parola!

Nel 2014, i miei primi tre figli hanno perso il loro papà, lo zio e il nonno paterno. La nostra casa è stata distrutta. Anche a quella epoca siamo stati sfollati a più riprese. Abbiamo vissuto in una tenda per un anno. Poi mio padre, che Dio l’abbia in gloria, ha costruito una casa a più piani, con un appartamento per ogni piano. È lì che ho vissuto con i miei figli.

Prima di questa guerra, posso dire che vivevamo bene. Una vita discreta, perché Rami è sempre stato una persona molto riservata, che non ama rivelare particolari della sua vita privata. Ad esempio, quando ci siamo conosciuti, ma anche quando ci siamo sposati, non lo sapeva nessuno. Per di più, né lui né io abbiamo un account sui social. Ma con la guerra, Rami ha deciso di sacrificare la sua vita privata affinché la gente potesse rendersi conto delle condizioni in cui viviamo e di cosa significhi vivere sotto un genocidio. L’ho sostenuto in questa scelta. Oggi è strano vedere che tutti conoscono la sua vita, la sua famiglia, quello che fa, vedere così tante persone che lo contattano. Ha anche molte ammiratrici! Mi dice sempre che non devo preoccuparmi. Spero però che arrivi il messaggio!

Hanno fatto finta di niente per non spaventare il loro fratellino

Dall’inizio della guerra, ho perso parecchi membri della mia famiglia: prima mio padre, poi due dei miei nipoti, i miei zii materni e i loro figli. Ho visto la morte con i miei occhi. Per fortuna c’era Rami. Mi è stato di grande sostegno.

All’inizio della guerra, i miei figli vivevano con la famiglia paterna. Quando abbiamo dovuto lasciare la nostra casa, a Gaza City, per rifugiarci a Rafah, loro si trovavano nel campo di Nuseirat, che era piuttosto lontano. Se fossero rimasti lì, non avrei potuto vederli tutti i giorni. Così abbiamo deciso che sarebbero venuti con noi. Ho spiegato loro che Walid non capiva quello che stava accadendo: i carri armati, i raid israeliani... Per lui era solo un gioco, dei “tartifices” [fuochi d’artificio] come dice Rami. Così anche loro hanno accettato di stare al gioco, per non spaventare il loro fratellino.

Ma ora Walid comincia a rendersi conto di quelle che sta succedendo. Ieri, per esempio, ha visto del fumo salire verso il cielo dopo un raid. Mi ha chiamata per farmelo vedere e io non sapevo cosa rispondergli. Sta cominciando a capire... e ad avere paura. Per il momento, non capisce ancora che gli aerei sganciano bombe. Per lui, “l’aereo” serve per viaggiare, è “l’aereo che riporta lo zietto Ramzi”1. Non oso immaginare il giorno in cui capirà la verità.

Normalmente, Walid dovrebbe andare all’asilo alla sua età. I miei tre figli più grandi frequentavano le scuole medie, ma hanno dimenticato tutto. Quando eravamo a Deir al-Balah, abbiamo cercato di mandarli alle lezioni collettive nei campi. Ma gli studenti erano uno sopra l’altro, e le malattie, in particolare quelle dermatologiche, erano molto diffuse. Così abbiamo avuto paura che prendessero qualche malattia o di doverli portare in ospedale, che era diventato un vero e proprio posto dove morire. Visto che avevamo paura del contagio, i miei figli hanno smesso di andare a scuola. Ora spero che possano recuperare tutto il tempo perduto.

La gente non dà peso a quello che viviamo

Quando eravamo a Rafah, Rami lavorava da casa. Ma quando siamo stati costretti a spostarci a Deir al-Balah, Rami ha cominciato ad andare in ufficio. In quel periodo, vivevo ogni giorno nel terrore. Ogni volta che sentivo che dei giornalisti erano stati colpiti durante i raid, ero terrorizzata. Allo stesso tempo, cercavo di non darlo a vedere ai miei figli. Dicevo loro che Rami non aveva nulla a che fare con gli altri giornalisti, che non correva alcun rischio. Gli facevo vedere i suoi video, i suoi reportage, sul mio telefono, per rassicurarli, per convincerli che andava tutto bene. Volevo che fossero orgogliosi di lui. La paura doveva essere riservata solo a me.

In ogni caso, non avrei mai impedito a Rami di fare il suo lavoro. È la strada che ha scelto per far vedere al mondo intero il genocidio che stiamo subendo. Sapete quanto sia importante far sentire la nostra voce a livello internazionale. Spero che, alla fine, le nostre voci arrivino al resto del mondo. L’impressione è che, a parte le poche persone che ci sostengono, gli altri semplicemente non vogliano vedere ciò che sta accadendo o non diano importanza a ciò che stiamo vivendo. Mi riferisco anche a una parte del mondo arabo. Quanto a voi, che siete solidali con noi, spero che la guerra finisca e così potremo finalmente incontrarci. Il fatto che ogni giorno vi preoccupiate che ci succeda qualcosa è una cosa bellissima!

In questo momento stiamo vivendo un vero e proprio genocidio, nel senso che non c’è davvero più nulla. Prima si trovava della farina e del riso. Non c’era molto altro, ma almeno riuscivamo a trovare qualche verdura. Era tutto carissimo, ma le cose erano ancora disponibili. Oggi o non si trova proprio nulla o i prezzi sono allucinanti. Un chilo di zucchero costa 350 shekel (circa 90 euro). La farina, 150 shekel (circa 40 euro). Ma bisogna trovarla. Prima veniva citata sempre la Svizzera come il Paese in cui la vita aveva il costo più alto. Ora Gaza ha superato la Svizzera!

È molto difficile per me non dare a Walid ciò che chiede da mangiare. Ieri mi ha chiesto delle “mele” e delle “banane”. L’unica soluzione che ho trovato è stata dirgli che la frutta non era ancora matura, e che gliela avrei presa non appena fosse stata raccolta. In questo modo cerco di guadagnare tempo, sperando che presto lascino entrare i camion con gli aiuti umanitari. Tra l’altro, presto sarà il suo compleanno. Spero che lascino entrare un po’ di aiuti in modo da poter festeggiare, nonostante tutto. Per portare un po’ di gioia nei cuori dei bambini.

In genere, cerco di arrangiarmi con mia sorella o mio fratello per procurarmi cose da mangiare. Solo nel caso in cui nessuno riesce a trovare nulla, allora chiamo Rami. Però non voglio dargli un ulteriore carico di lavoro. Ma non sempre ho scelta. In questo momento, posso cucinare solo delle lenticchie con qualche melanzana. È tutto quello che mi è rimasto.

La gente ha perso ogni forma di privacy

Quando ero incinta non avevo paura, anche se le condizioni erano difficili. Ora non c’è giorno in cui non vengono uccisi dei bambini. Avere un altro figlio è stata però una nostra decisione. Un tentativo di sostituire, nel nostro piccolo, tutte queste perdite.

Il ruolo delle donne è cambiato molto a Gaza con il genocidio. Con tutti i padri che sono stati uccisi, i prezzi saliti alle stelle... Immaginate tutto quello che deve fare una madre per sfamare i propri figli. Più di una volta ho visto una donna portare sulle spalle un sacco di farina di parecchi chili, quando ancora se ne trovavano, per dare da mangiare ai suoi bambini piccoli.

Noi siamo fortunati: siamo potuti tornare a casa e, anche quando vivevamo in tenda, nella nostra “villa” come dice Rami, eravamo privilegiati perché ci trovavamo su un terreno privato. Potevamo avere la nostra privacy. Oggi, da casa mia vedo famiglie che vivono in tenda, in mezzo alla strada, perfino sull’asfalto. Le auto passano proprio accanto a loro. Immaginate una donna che fa la doccia mentre un’auto passa proprio accanto alla sua tenda, alla faccia della privacy!

Prima, gli abitanti di ogni quartiere si conoscevano, formavano una comunità. Ma con lo sfollamento forzato della popolazione, le persone si sono mescolate. Le varie comunità hanno perso la loro unicità e le famiglie, gli individui, hanno perso ogni forma di privacy. Quando questa guerra sarà finita, il dopoguerra sarà ancora più difficile di quello che stiamo vivendo ora. Chi restituirà ai nostri bambini la loro innocenza? Chi restituirà alle donne la loro dignità?

Dico sempre a Rami che, dopo la guerra, voglio andare via. Ma è la disperazione a farmi parlare così. Lui mi ripete che il futuro sarà migliore. Vorrei concludere dicendo quanto Rami sia un uomo di straordinaria tenerezza. È più di un marito, è un vero compagno di viaggio. Non avrei mai potuto superare questa guerra senza il suo sostegno. La sua presenza ci rincuora. Basta che torni a casa e mi sento in pace con sé stessa.

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1Ramzi è il fratello maggiore di Rami che vive negli Stati Uniti. [Ndr].