Diario da Gaza 13

“Mio suocero ha lasciato questa vita per non subire più umiliazioni”

Rami Abu Jamous scrive il suo diario per Orient XXI.. Giornalista fondatore di GazaPress, un’agenzia di stampa che forniva aiuto e traduzioni ai giornalisti occidentali, Rami ha dovuto lasciare il suo appartamento a Gaza con la moglie e il figlio Walid di due anni e mezzo. Ora condivide un appartamento con due camere da letto con un’altra famiglia. Nel suo diario, racconta la sua vita quotidiana e quella degli abitanti di Gaza a Rafah, bloccati in questa enclave miserabile e sovraffollata. Questo spazio è dedicato a lui.

L'immagine rappresenta un anziano vestito con un kefiah, un tradizionale copricapo arabo, che si china pensieroso, appoggiandosi a un bastone. Sullo sfondo si scorge una vista di Gerusalemme, con la cupola dorata della Roccia e un minareto. I colori caldi del cielo, con sfumature arancioni e blu, creano un'atmosfera riflessiva e nostalgica. L'anziano sembra rappresentare saggezza e un profondo legame con la sua terra. L'opera trasmette emozioni di tristezza e speranza, evidenziando la storia e la cultura della regione.
Ritratto dell’artista siriano Raed Qatanani.

Domenica 31 marzo 2024.

Oggi devo darvi una brutta notizia. Il padre di mia moglie, Sabah, è morto. Se n’è andato per riposare in pace perché non ha resistito alle condizioni di vita dopo il suo sfollamento forzato a Rafah. Si chiamava Suleiman, aveva 76 anni. Era nato nel 1948, l’anno della Nakba. Ed è morto nell’anno della seconda Nakba, che è in atto.

La sua vita ha attraversato gli eventi più importanti della storia contemporanea di Gaza. Mio suocero aveva vissuto la dominazione egiziana, quella israeliana, la prima Intifada nel 1987, l’arrivo dell’Autorità Palestinese (AP) e di Yasser Arafat nel 1994 dopo gli accordi di Oslo, la seconda Intifada nel 2000, l’ascesa al potere di Hamas nel 2007, le varie offensive dell’esercito israeliano e infine l’esodo verso il sud della Striscia, in seguito al quale viveva accampato in una tenda.

Già nel 2014...

Nato a Gaza, mio suocero era un brillante imprenditore edile. Era lì prima dell’arrivo dei profughi della Nakba, i cui discendenti costituiscono oggi la maggioranza degli abitanti di Gaza. Aveva 19 figli. Il più anziano ha 49 anni, il più giovane 13 anni. Mi piaceva molto parlare con lui perché era un uomo di grande saggezza.

La famiglia di Suleiman è stata tra le prime a fuggire verso sud perché la loro casa si trovava a Sajaya, un quartiere vicino al confine con Israele, primo obiettivo in caso di attacco israeliano. Ricordavano ancora bene quanto accaduto nell’offensiva del 2014, quando avevano perso la vita il fratello di mio suocero e la moglie, i loro due figli e una nipotina. E inoltre, la loro casa era stata completamente distrutta. Era una palazzina di famiglia, come molte di quelle che ci sono a Gaza. Ognuno dei suoi figli aveva il suo appartamento, dove viveva con la sua famiglia. Suleiman viveva al piano terra con i figli più piccoli e le figlie nubili.

Questa volta, però, sono partiti all’inizio dell’offensiva israeliana. Prima in direzione di Gaza City, in maniera un po’ improvvisata. Alcuni si sono rifugiati nell’ospedale Al-Shifa, altri nelle scuole, altri ancora da parenti o amici. Sono rimasti lì fino al giorno in cui l’esercito israeliano non ha cominciato ad attaccare le scuole, l’ospedale Al-Shifa e l’intero quartiere. Sono stati costretti di nuovo a scappare nel campo profughi di Nuseirat, al centro della Striscia. Poi, di nuovo, quando hanno attaccato anche Nuseirat, sono partiti sotto le bombe in direzione di Rafah. Era gennaio. Mio suocero e la sua famiglia sono arrivati all’una di notte lungo la strada che costeggia la costa, alla rotonda di Al-Alam, all’ingresso ovest di Rafah. Quella notte pioveva a dirotto.

“Trovare una tenda a Rafah è quasi un miracolo”

Sono rimasti per strada, sotto la pioggia, fino al mattino. Noi eravamo già a Rafah, ma non sapevamo nemmeno che avessero lasciato Nuseirat. Le comunicazioni erano interrotte e non potevamo chiamarli. Volevamo sapere se erano rimasti lì, sotto le bombe, se erano ancora vivi... E finalmente, la mattina dopo, li abbiamo trovati. I figli di Suleiman hanno iniziato a comprare e montare dei pezzi di legno e teloni di plastica, perché trovare una tenda a Rafah è quasi un miracolo. Ho provato più volte a trovargli una tenda o due perché erano in tanti – circa una trentina di persone – e avevano bisogno di almeno quattro o cinque tende. Ho provato in ogni modo, ho chiesto ai miei contatti, ai miei amici, alle Ong che conoscevo. Purtroppo, è stato inutile. Sono rimasti sotto i teloni, che, nel corso del tempo, sono diventati sempre di più.

Il posto dove si trovavano è diventato sovraffollato. Tutti i profughi del nord, da Nuseirat o anche da Khan Younis, la città più vicina, sono venuti a stabilirsi lì. Suleiman e la sua famiglia hanno scavato un piccolo pozzo vicino ai teloni per uso igienico, in modo da non dover percorrere centinaia di metri o addirittura chilometri per andare nei bagni delle moschee o delle scuole. Ecco come vivono gli sfollati di Rafah: si arrangiano con ciò che hanno a disposizione. Quella di arrangiarsi è un’arte che noi palestinesi conosciamo alla perfezione. Siamo un popolo che ha la capacità di adattarsi sempre, molto rapidamente. Purtroppo, questo non è un vantaggio. Perché adattarsi sempre, anche nelle situazioni peggiori, è un po’ come accettare il male senza nemmeno rendersene conto. Non ci si ribella, ma ci si adatta subito.

“Ora capisco molto bene l’umiliazione di essere un rifugiato”

Andavo a trovarli un paio di volte alla settimana e parlavo con mio suocero.

La prima cosa che mi ha detto è stata:

Rami, sono nato nel 1948 e sono cresciuto guardando i profughi che arrivavano. Venivano da Haifa, Jaffa, Ashdod. Quando avevo cinque o sei anni, mi chiedevo: perché queste persone hanno lasciato le loro case? Perché non sono rimasti ad affrontare il nemico? Oggi capisco il perché.

Perché a 76 anni, un uomo che non aveva paura della morte, che sapeva che sarebbe morto presto, non aveva paura per sé, ma per i suoi figli e i suoi nipoti. Aveva deciso di andarsene per proteggerli, perché aveva visto in che modo l’esercito israeliano massacrava senza pietà, non facendo distinzioni tra anziani, giovani, neonati, donne. Era solo una cieca vendetta per quanto accaduto il 7 ottobre. Dopo hanno approfittato della vendetta per farci andar via tutti. Si stava ripetendo lo scenario del 1948, ecco ciò che pensava mio suocero.

Mi aveva detto anche:

Ora capisco molto bene l’umiliazione di essere un rifugiato, di vivere in una tenda. Il mio timore è che queste tende si trasformeranno a loro volta in campi profughi, come è successo a Gaza o in altre zone.

Mio suocero mi raccontava che, da piccolo, vedeva la gente con le chiavi di casa in mano. “Ora anch’io giro con le chiavi di casa in mano, ma so che non riuscirò a tornare a casa”. Perché sapeva benissimo che, se fosse tornato a Sajaya, non l’avrebbe più ritrovata. Infatti, due giorni dopo, ha saputo che la sua casa era stata distrutta.

“Questa volta non riusciremo a ricostruirla”

Quella casa l’aveva costruita per i suoi figli, dopo aver lavorato tutta la vita come imprenditore. Noi palestinesi abbiamo un senso della famiglia molto forte. Nella nostra tradizione, il sogno di ogni genitore palestinese è quello di dare ai propri figli un tetto sopra la testa e dar loro la possibilità di studiare.

Quella era la seconda casa che mio suocero costruiva per la sua famiglia. La prima era stata distrutta durante l’offensiva israeliana del 2014. L’aveva ricostruita grazie ai cosiddetti “soldi per la ricostruzione” donati da diversi paesi, tra cui il Qatar. Nell’ottobre 2023, quando è iniziato l’attacco israeliano, la nuova casa non era ancora finita perché rimaneva da costruire ancora il quinto piano. Mio suocero mi ha detto: “Ho perso la casa per la seconda volta, ma questa volta non credo che riusciremo a ricostruirla”.

Era l’investimento di tutta una vita. Suleiman aveva iniziato a lavorare in tenera età, all’età di 16 anni, prima in Israele, poi in Libia, Egitto, Sudan, Tunisia e anche a Malta. Dopo aver costruito la casa di famiglia, aveva comprato degli appezzamenti di un terreno agricolo, circa 35 dunum1, quasi 35.000 m², sempre nel quartiere di Sajaya. “È il sogno di tutta la mia vita”, mi aveva detto.

Ma il sogno divenuto realtà non è durato a lungo. Nel 2005, quel terreno è diventato parte della “zona cuscinetto” che Israele ha creato lungo il muro tra la Striscia di Gaza e il territorio israeliano, a est di Sajaya. Da allora, mio suocero non ha più potuto metterci piede. Mi diceva che quei 35 dunum erano pieni di alberi da frutto, che lì c’era “tutto quello che si può desiderare”. Ogni volta che andavo a trovarlo, lo riconoscevo sempre meno. Suleiman era un uomo di grande personalità con un carattere forte, che si faceva forza anche nelle condizioni di vita più difficili. Ma adesso, davanti a me c’era un uomo che stava lentamente cedendo alla miseria e alla disperazione. Suo figlio Mahmoud, 21 anni, si sarebbe dovuto sposare il 3 novembre. Era tutto pronto, la sala delle nozze, l’appartamento dove la coppia sarebbe andata a vivere, tutta la famiglia in festa. Poi è scoppiata la guerra e così è svanita la speranza di mio suocero di vedere suo figlio sposato.

“Non posso più sopportare di vedere i miei figli umiliati”

Vedevo un uomo anziano che stava perdendo la voglia di vivere. Ogni volta che andavo a fargli visita, lo trovavo sempre più pessimista. La sua salute stava peggiorando, ma non voleva andare in ospedale. Mi diceva: “Rami, so molto bene come funzionano le cose negli ospedali. Ci sono 36.000 pazienti. Il nostro sistema sanitario non è granché, ma con la guerra è peggiorato. Se vado in ospedale, andrà a finire male”. L’ultima volta che l’ho visto, è stato quattro giorni fa. Potevo vedere nei suoi occhi la tristezza di dover vivere in quel modo. E per la prima volta, quell’uomo dal carattere forte è crollato:

Rami, non ce la faccio più. Non sopporto più questa miseria, non sopporto più questa vita. Non posso più sopportare di vedere i miei figli umiliati, che dormono per strada, nelle tende, sotto i teloni. Non ne posso più.

C’era qualcosa che brillava nei suoi occhi, ma non erano lacrime, era la prima volta che lo vedevo così. È stato in quel momento che ho capito che era un’aquila che, dopo essere riuscita a volare nei periodi più duri della sua vita, stava cadendo giù in picchiata perché non aveva più forze. Dovevamo andare a trovarlo venerdì, ma i suoi figli ci hanno detto che un’ambulanza lo aveva appena portato in ospedale. Mi sono reso conto che, se l’avevano ricoverato, era perché mio suocero era davvero allo stremo delle forze. Mezz’ora dopo, suo figlio ci ha detto che era andato a riposare in pace.

Il rito per onorare i morti non esiste più

Ecco cosa significa vivere sotto l’umiliazione. L’umiliazione di essere cacciati di casa, l’umiliazione di vivere sotto le bombe, di essere uccisi come in un videogioco da qualcuno che è davanti a uno schermo e preme un pulsante, che non deve affrontare o anche solo guardare chi sta per uccidere. L’umiliazione di mettersi in fila per trovare qualcosa da mangiare. Mio suocero mi diceva: “Per tutta la vita ho fatto affidamento solo su me stesso. E oggi, dopo che abbiamo speso tutti i nostri risparmi, per la prima volta nella nostra vita, dobbiamo chiedere gli aiuti umanitari per sfamarci”.

Quando siamo arrivati in ospedale, ci hanno detto che bisognava seppellirlo subito, perché non c’era più posto nell’obitorio. Mio suocero è morto all’European hospital, all’altro capo di Rafah, a est, mentre lui viveva a ovest, dalla parte del mare. Non c’erano più mezzi di trasporto per riportarlo indietro. Di solito, quando qualcuno muore, c’è tutto un rito funebre per seppellirlo con dignità: il corpo viene lavato, portato a casa, in modo che la famiglia e i vicini possano dare alla persona cara l’ultimo saluto. Poi la salma viene portata al cimitero e seppellita con il nome inciso sulla lapide. Infine, si prega insieme a tutte le persone presenti.

Ma è un rituale che non esiste più.

Allora ho deciso, con Sabah, di andare all’ospedale, in modo che mia moglie potesse vedere suo padre per l’ultima volta. Non c’era nemmeno un’ambulanza. Così abbiamo messo il corpo su un pulmino che ci avevano prestato, per portarlo in un cimitero improvvisato proprio accanto all’European hospital, perché il cimitero principale di Khan Younis è stato profanato dalle truppe israeliane. Al suo funerale, eravamo in sei.

Abbiamo dovuto contare le tombe per poter trovare la sua, perché sulle lapidi non c’era il nome. Mio suocero è stato messo in un sacco di plastica – cosa che, in genere, non si fa – nel caso in cui un giorno ci sia la possibilità di seppellirlo degnamente a Gaza. Sono migliaia le persone che hanno vissuto momenti così orribili.

L’umiliazione ci perseguita fin nella tomba. Non possiamo nemmeno ricevere degnamente le condoglianze. Di solito, in segno di lutto si mettono centinaia di sedie sotto una tenda per chi arriva per il funerale. Lì abbiamo messo due o tre sedie, la gente veniva a salutarci e andava via subito. Suleiman era solo un nome tra il milione e mezzo di sfollati stipati a Rafah. Un altro uomo che ha lasciato questa vita per non subire più umiliazioni.

Quando mi aveva detto “non ce la faccio più”, aveva poi aggiunto: “Non c’è più giustizia in questa vita, bisogna andare alla ricerca della giustizia”. Quella volta non avevo capito. Solo ora capisco che mio suocero voleva cercare la giustizia nell’aldilà. Spero che ora possa riposare in pace insieme alle oltre 30.000 vittime di questa guerra.

Suleiman non è stato ucciso dalle bombe, ma è morto a causa delle bombe. Aveva perduto ogni speranza e chiedeva giustizia.

1Il dunum (in arabo ﺩﻭﻧﻢ‎), è una unità di misura terriera adottata a partire dall’età ottomana fino ai nostri giorni. Equivaleva a 919,3 m² (per poi essere portato a 1000 m²) [NdT].