Mondo arabo e salute mentale: una questione politica

Le cause dell’insorgenza o dell’aggravamento dei disturbi mentali nella regione non mancano, e sono in gran parte di natura politica. Alcuni paesi (Palestina, Siria, Yemen, Iraq) continuano a vivere nella morsa di conflitti incessanti, che traumatizzano le popolazioni di generazione in generazione. La situazione non è molto diversa in Libano e in Algeria, dove, dopo i periodi di guerra civile, manca tuttora un’adeguata politica di riconciliazione. Anche gli spostamenti massicci di popolazione, come in Sudan, aumentano il rischio di disturbi mentali.

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Fahrelnissa Zeid, My Hell, olio su tela, 1951

Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), una persona su otto è affetta da un disturbo mentale, in particolare di tipo ansioso o depressivo1. La situazione è peggiorata dopo il 2020 e la pandemia di Covid-19. Ma se il mondo in cui viviamo è impazzito, non è forse normale esserlo anche noi? Sebbene esistano patologie psichiatriche la cui origine neurobiologica e neuro-evolutiva è nota, molti problemi di natura psicologica o psichiatrica sono invece causati da fattori familiari, socio-economici e politici. Tali fattori possono inoltre aggravare dei disturbi preesistenti.

Nel mondo arabo, questa proporzione risulta ancora più elevata2, con un tasso medio di depressione del 29%, soprattutto tra gli iracheni, i tunisini e i palestinesi intervistati. Molto meno tra i marocchini e gli algerini (20%). Senza contare che l’esposizione alle immagini della guerra di sterminio in corso nella Striscia di Gaza, condotta dal 7 ottobre 2023 da parte dell’esercito israeliano, ha avuto un ulteriore impatto psicologico, come ha rivelato uno studio svolto in Tunisia3, soprattutto a causa dell’accumulo di sentimenti di rabbia e ingiustizia. Le cause dell’insorgenza o dell’aggravamento dei disturbi mentali nella regione non mancano, e sono in gran parte di natura politica. Alcuni paesi (Palestina, Siria, Yemen, Iraq) continuano a vivere nella morsa di conflitti incessanti, che traumatizzano le popolazioni di generazione in generazione. La situazione non è molto diversa in Libano e in Algeria, dove, dopo i periodi di guerra civile, manca tuttora un’adeguata politica di riconciliazione. Anche gli spostamenti massicci di popolazione, come in Sudan, aumentano il rischio di disturbi mentali.

Di fronte a un autoritarismo crescente dopo le rivolte arabe del 2011, le delusioni politiche, come in Egitto e in Tunisia, si stanno trasformando in apatia e in un senso di impotenza che accentua i disturbi ansioso-depressivi, e che il deterioramento della situazione economica non riesce a gestire come si deve. In Egitto, la “depressione” della lira, passata in quindici anni da 8 a 50 EGP per 1 euro, è altrettanto “folle” e costituisce un ulteriore fattore di stress per la popolazione. Per non parlare della crescita demografica e dell’urbanizzazione galoppante che aumentano la pressione sulle infrastrutture sanitarie esistenti.

Sebbene nella regione l’individualismo sia indubbiamente meno marcato che altrove, grazie al radicamento delle strutture familiari e della solidarietà, l’uso massiccio dei social network in tutti i paesi arabi contribuisce alla virtualizzazione del mondo e dei comportamenti, mettendo automaticamente a rischio la salute mentale. Il posto della donna nella società è un altro fattore di vulnerabilità, soprattutto a causa del sistema patriarcale dominante, come ha spiegato la psichiatra Nawal El Saadawi in un’intervista, quando ha detto che “la donna egiziana media è schiava degli uomini, della società, della religione e del sistema politico e finanziario che ci schiaccia tutti”.

Questo disagio può portare a un aumento dei comportamenti suicidari, come in Iraq, dove il tasso di suicidi è raddoppiato in cinque anni, soprattutto a causa di disturbi psicologici. Il consumo di psicofarmaci è anch’esso in aumento, come in Tunisia, con una difficoltà a controllare la durata e la quantità delle somministrazioni, che può essere di per sé un rischio.

La sorella povera delle politiche sanitarie

L’infrastruttura e l’assistenza sanitaria nella regione restano carenti, nonostante qualche differenza significativa, e la salute mentale resta, come altrove, la sorella povera della medicina. Già uno studio condotto nel 2012, nonostante le difficoltà di accesso ai dati, evidenziava le faglie in termini di legislazione adeguata, di posti letto disponibili e di specialisti4. È quanto emerge anche dal nostro dossier speciale, che rileva in particolare la mancanza di una politica assistenziale globale, le difficoltà di accesso alle terapie e le forti disparità geografiche. E questo nonostante le raccomandazioni dell’OMS secondo cui ogni dollaro investito nella cura dei disturbi psicologici ne restituisce cinque grazie al miglioramento della salute e della produttività.

Questa constatazione generale, aggravata dal continuo esodo di specialisti, lascia intravedere la diffusione di pratiche alternative alla medicina, dalle credenze religiose alle tecniche per lo sviluppo personale. Una tendenza, questa, che allontana ulteriormente i pazienti dal mondo della medicina. Tuttavia, se con Michel Foucault, comprendiamo come si sia evoluta la percezione della malattia mentale nella società e da parte della società, e come il potere istituzionale del medico, attraverso le sue conoscenze, crei il “malato di mente”, oggi comprendiamo come quest’ultimo rimanga un tabù, soprattutto nel mondo arabo, sia nella sfera pubblica che in quella privata. Nel 2020, quasi la metà dei giovani arabi ha affermato che ricorrere alle cure mentali è percepito negativamente nel loro paese5.

Eppure, non è sempre stato così. Dalla fondazione del primo bimaristan a Damasco all’inizio dell’VIII secolo all’interesse per la salute mentale mostrato da Abu al-Husayn ibn Abd-Allah ibn Sina (Avicenna) attraverso la classificazione dei vari sintomi, passando per Abu Bakr Muhammad Ibn Zakariyya al-Razi (Razhes) e la sua opera Medicina spirituale, il malato mentale è da tempo oggetto di considerazione nella regione. La longevità della favola d’amore, presumibilmente antecedente all’Islam, Leyla e Majnun6, è lì a ricordarcelo.

Lo specchio di una situazione politica ed economica

Quella della salute mentale e della sua rappresentazione, ma soprattutto la sua gestione, è una questione prettamente politica. Come illustra Hamza Hamouchène nel suo testo “Fanon o la psicologia dell’oppressione e della liberazione” l’impegno di quest’ultimo a favore della trasformazione sociale andava di pari passo con la liberazione psicologica degli individui. E questa “psicologia della liberazione dà la priorità all’emancipazione degli oppressi tramite attività sociali organizzate, allo scopo di ripristinare le storie individuali e collettive che sono state alterate e ostacolate dall’oppressione e dal colonialismo”. In altre parole, in un contesto politico così movimentato, la gestione dei disturbi psichiatrici deve essere in grado di combinare trattamenti clinici individuali con politiche globali che riconoscano e indaghino i fattori sociali e politici collettivi di queste manifestazioni individuali.

Punto cieco dei media

È proprio perché questa constatazione sembra tuttora valida che la Rete dei media indipendenti sul mondo arabo ha deciso di dedicare un dossier speciale al tema della salute mentale, reso necessario anche dalla difficoltà di accesso ai dati e dalla copertura mediatica, troppo scarsa rispetto alla sua importanza politica e sociale.

  • Nel suo articolo per Assafir Al-Arabi, “La salute mentale in Iraq continua a deteriorarsi”, Mizar Kemal sottolinea che la spesa per la salute mentale in Iraq non supera il 2% del bilancio sanitario e che ci sono solo tre ospedali psichiatrici per 43 milioni di abitanti. In un paese colpito da quattro grandi guerre negli ultimi quarant’anni, nonché da un embargo e guerre civili (tra cui la guerra settaria tra il 2006 e il 2007), le conseguenze psicologiche sono disastrose. Ciò ha portato a un aumento del numero di suicidi e del consumo di sostanze psicotrope (metanfetamine e captagon). “La stigmatizzazione e la deliberata trascuratezza della salute mentale, sia da parte dello Stato che della società, hanno ampiamente contribuito alla persistente carenza di personale medico specializzato nella salute mentale”, andando così a rafforzare la diffusione di pratiche alternative eseguite dagli sheikh.
  • Nel loro articolo per Babelmed, “La gestione della salute mentale in Algeria”, Ghada Hamrouche e Ghania Khelifi riflettono, nonostante la scarsità di dati disponibili, sul deterioramento della salute mentale in Algeria. Si tratta di una popolazione “stretta nella morsa di due grandi eventi traumatici, la guerra di liberazione da un lato e la guerra civile dall’altro”. Nonostante un numero “accettabile” di specialisti e di strutture, vengono evidenziate delle lacune in termini di assistenza, accesso alle cure e disparità regionali. Attraverso un approccio multidisciplinare, “è imperativo promuovere percorsi di psicoterapia e creare strutture che facilitino la transizione post-cura dei pazienti, rimanendo il più vicino possibile al loro ambiente quotidiano”. Tanto più che la malattia mentale è ancora trattata con amuleti e incantesimi e facendo ricorso alla roqya7 , un vero e proprio sistema lucrativo.
  • Nel suo articolo per Nawaat, “Disturbi d’ansia e depressione: tunisini allo stremo”, Rihab Boukhayatia afferma che questi disturbi sono aumentati in modo significativo. In termini di malessere, la Tunisia si colloca al 115° posto su 143, secondo una classifica che tiene conto di diversi indicatori, tra cui la sensazione di libertà, l’assenza di corruzione, il livello di reddito e il sostegno sociale. L’autrice sottolinea tra l’altro l’influenza nociva dei social e lo sviluppo dell’industria della felicità. Parla anche dell’aumento del consumo di droghe, a partire dal 2013, “come forma di automedicazione”, e dell’uso di ansiolitici, in particolare tra le adolescenti. “Prima i pazienti si concentravano soprattutto sulle preoccupazioni legate alla loro vita intima. Ora parlano molto dell’ambiente ansiogeno in cui vivono: instabilità, insicurezza e mancanza di visibilità sulle prospettive future”. Anche se le visite specialistiche per i disturbi dell’umore sono in aumento, lo stigma e i non-detti permangono.
  • Nel suo articolo per Mashallah News, “La lotta per la salute mentale in un contesto di crisi multiple in Libano”, Layla Yammine si propone di mostrare l’impatto della povertà, che secondo la Banca Mondiale è più che triplicata in dieci anni, sui disturbi mentali e sul loro trattamento. Il costo delle cure in un sistema sanitario prevalentemente privatizzato non permette a tutti di accedervi. Nonostante l’introduzione di strategie nazionali per modernizzare il settore, queste risentono dei tagli di bilancio: “nel 2020, solo il 5% della spesa totale del governo per la sanità era destinato alla salute mentale”. L’esodo degli specialisti, l’automedicazione, la stigmatizzazione e i tabù si sommano agli eventi traumatici. Dopo l’esplosione nel porto di Beirut del 4 agosto 2020, ora è la guerra israeliana a Gaza, e le sue ripercussioni nel sud del Libano, ad accentuare il senso di paura, ansia e angoscia tra la popolazione.
  • Nel suo articolo per Orient XXI, “Marocco. I pazienti psichiatrici, facile preda dei ciarlatani”, Mohammed Al-Nejjari sottolinea che quasi la metà dei marocchini soffre di disturbi psicologici. La mancanza di politiche pubbliche, di capacità di accoglienza e di un’assistenza adeguata non permette di far fronte alla situazione, tanto più che “c’è meno di uno specialista ogni 100.000 abitanti”. La carenza di servizi sanitari genera corruzione e nepotismo, e molti pazienti si rivolgono a pratiche alternative assai lucrose. Tra queste, le visite ai santuari, come il mausoleo di Bouya Omar, “soprannominato Guantanamo”, chiuso nel 2015, e la roqya. E c’è addirittura chi finisce in carcere. In assenza di campagne di sensibilizzazione, molte persone sono vittime di abusi o di ricatti, soprattutto sessuali, il che aumenta la loro sofferenza mentale e il rischio di comportamenti suicidari.
  • Nel suo articolo per Mada Masr, Mahmoud Bashir evidenzia i problemi di salute mentale nella Striscia di Gaza, notevolmente aggravati dalla guerra in corso e dalla conseguente mancanza di beni di prima necessità (acqua, cibo, alloggio, medicine). Esamina inoltre la massiccia distruzione delle infrastrutture sanitarie, anche se già prima del 7 ottobre la scarsa assistenza e l’assenza di un ambiente favorevole al trattamento psicologico limitavano le cure.
  • Nel suo articolo per 7iber, “La soluzione più semplice: perché i farmaci predominano nelle cure mentali?”, Abeer Juan sottolinea il ruolo predominante dei farmaci nel trattamento psichiatrico, a scapito di altri approcci terapeutici. Questo per “diverse cause strutturali, legate alla carenza di personale medico specializzato, all’assenza di finanziamenti pubblici, al peso delle pratiche amministrative e alla generale mancanza di considerazione per la salute mentale”. I fattori politici, economici e sociali non vengono presi in conto. Nonostante una percentuale di giordani affetti da ansia e depressione stimata al 20%, gli altri approcci terapeutici non sempre sono disponibili nel settore pubblico e si rivelano costosi nel privato.