Diario da Gaza 95

“Obeida è morto. Aveva 18 anni”

Rami Abu Jamous scrive il suo diario per Orient XXI. Giornalista fondatore di GazaPress, un’agenzia di stampa che forniva aiuto e traduzioni ai giornalisti occidentali, Rami ha dovuto lasciare il suo appartamento a Gaza con la moglie e il figlio Walid di due anni e mezzo. Rifugiatisi a Rafah, la famiglia è stata poi costretta a un nuovo esilio prima a Deir al-Balah, poi a Nuseirat, bloccata come tante famiglie in questa enclave miserabile e sovraffollata. Un mese e mezzo dopo l’annuncio del cessate il fuoco, Rami è finalmente tornato a casa con sua moglie, Walid e Ramzi, il bambino appena nato. Per il suo Diario da Gaza, Rami ha ricevuto tre riconoscimenti al premio Bayeux per i corrispondenti di guerra. Questo spazio gli è dedicato dal 28 febbraio 2024.

Un uomo anziano si piega in avanti su una strada polverosa, circondato da detriti.
Campo profughi palestinese di Bureij, nel centro della Striscia di Gaza, 15 giugno 2025. Un palestinese si controlla per vedere se è ferito mentre il fumo sale dopo un attacco israeliano. L’agenzia di difesa civile di Gaza ha dichiarato che 16 persone sono state uccise durante le operazioni militari israeliane nel territorio palestinese il 5 giugno, la maggior parte delle quali era in attesa di soccorsi.
Eyad BABA / AFP

Si chiamava Obeida. Aveva 18 anni. Era il figlio maggiore della sorella di Sabah, mia moglie. Lei aveva sei figli, tre maschi e tre femmine.

Obeida è morto. È stato ucciso in uno di quegli Hunger Games1 che Israele ci costringe a giocare nella realtà.

A Gaza, il “gioco” consiste nel chiedere ai giovani di andare a cercare aiuti umanitari, con il rischio di essere uccisi se si spingono troppo a destra o a sinistra, in uno spazio di cui solo l’occupante conosce i confini.

Obeida è stato costretto a partecipare a questo gioco perché né lui, né la sua famiglia mangiavano pane da tre giorni. La famiglia di Obeida è originaria di Shujaiya, un quartiere nella zona est di Gaza. Come la maggior parte dei suoi abitanti, anche loro si erano trasferiti più volte, fino a finire in una tenda nel cortile di una scuola di Gaza City. Quasi ogni giorno, Obeida correva dei rischi nel centro di distribuzione allestito da una compagnia americana nel “Corridoio di Netzarim”, quella striscia di terra larga sei o sette chilometri che divide in due la Striscia di Gaza, a sud della città di Gaza. Ogni volta la sua speranza era quella di trovare un sacco di farina o un pacco di cibo per la sua famiglia.

Chiedeva perdono a sua madre per aver sfidato la sorte

Quel giorno, sua sorella maggiore Bara, che si era sposata uno o due mesi prima, era venuta a trovare la sua famiglia nella loro tenda. Lui le aveva detto: “Oggi dicono che nei pacchi ci sono dei ceci. Proverò a prenderne uno per prepararti dei qdama”. È il nome che si dà ai ceci tostati, al forno o sul fuoco. Voleva offrirli a sua sorella che li adorava. Era l’unico regalo che poteva farle per la sua prima visita dopo il matrimonio. Tradizionalmente, questa visita è un’occasione di festa, si invita tanta gente, si preparano grandi pranzi, si offrono alla giovane sposa i suoi piatti preferiti. Naturalmente, oggi a Gaza è una cosa impossibile. Le feste non ci sono quasi più. Bara si era sposata in fretta, nell’aula di una scuola che fungeva da rifugio per centinaia di sfollati.

Ma Obeida teneva molto alle sue qdama, perché erano un simbolo. E a un sacco di farina, per avere del pane per il ritorno della sposa. La sera del 10 giugno è andato al centro di distribuzione della compagnia israelo-americana. Ma non è più tornato. È stato una delle decine di persone uccise in quella zona. Una granata è esplosa proprio accanto a lui, una scheggia lo ha colpito alla testa. Era ancora cosciente quando lo hanno portato in ospedale. Durante tutto il tragitto, ha raccontato un soccorritore, voleva che chiedessimo a sua madre di perdonarlo. Sapeva che stava per morire e chiedeva perdono a sua madre per aver sfidato la sorte. Purtroppo, gli ospedali di Gaza mancano di tutto. Non sono riusciti a salvarlo, come tanti altri giovani.

Il suo unico crimine era quello di voler sfamare la sua famiglia. Obeida aveva tutta la vita davanti a sé. Aveva delle ambizioni. Avrebbe dovuto sostenere l’esame di maturità quest’anno, se il sistema scolastico non fosse stato distrutto. Avrebbe voluto proseguire gli studi superiori, secondo la tradizione di Gaza, dove l’istruzione è un valore fondamentale. Un carrista israeliano ha deciso diversamente.

“Perché non mi dai del pane?”

Sharif, uno dei miei vicini, è morto due giorni dopo, per gli stessi motivi. La sua storia è tipica di un quartiere caduto in miseria abitato dalla classe media e medio-alta di Gaza. Sharif aveva 35 anni, era sposato e padre di tre figli, due maschi e una femmina, di età compresa tra i tre e i dodici anni. Viveva in una “palazzina familiare”, una casa di cinque piani, adiacente al mio palazzo, dove vivevano, come di norma a Gaza, diverse famiglie della stessa famiglia. L’edificio era stato bombardato all’inizio della guerra, a causa dei numerosi pannelli solari sul tetto, che alimentavano l’edificio e i minimarket della zona. Erano obiettivi prioritari per gli israeliani, che cercavano di distruggere tutte le fonti di energia elettrica.

Gli ultimi due piani dell’edificio erano stati distrutti e i cugini di Sharif che abitavano lì avevano dovuto trasferirsi in tende sotto l’edificio. Sharif e la sua famiglia erano rimasti nella loro casa, poiché il loro appartamento era ancora più o meno abitabile. Molto presto, si era fatto carico delle sue responsabilità di padre di famiglia, dopo la scomparsa del padre una decina di anni fa. Aveva un’impresa di riparazione di condizionatori e frigoriferi. Ma da due anni, a causa della mancanza di elettricità, nessun condizionatore o frigorifero funzionava più, per cui non c’era più lavoro. Sharif aveva speso tutti i suoi risparmi. Una sera, suo figlio di tre anni disse alla mamma che aveva fame. Voleva del pane. E se la prese con sua madre: “Perché non mi dai il pane?”.

È sentendo questa frase che Sharif ha deciso di andare, con un cugino, in quel luogo che sapeva essere una trappola, quel centro di “distribuzione di aiuti umanitari”, quella zona da Hunger Games dove gli israeliani guardano la gente che si precipita a cercare da mangiare mentre li uccidono a sangue freddo. Sharif e suo cugino hanno usato un metodo diffuso a Gaza: sono partiti la sera e si sono sdraiati sulla sabbia per dormire, non lontano dal centro, per essere tra i primi all’apertura delle porte. Nel sonno, sono stati colpiti da un carro armato. Sharif, colpito alla testa, è morto sul colpo. Suo cugino, gravemente ferito, è in ospedale. Lascia la moglie e tre figli. Il suo unico crimine era quello di voler dare da mangiare ai suoi figli.

Tutto il mondo intero è spettatore

Stiamo assistendo a un genocidio, una parola che molti rifiutano di usare perché la ritengono riservata a un solo popolo. Io posso dirvi che stiamo assistendo a un gazacidio, un palestinocidio, un genocidio “speciale palestinesi”, “speciale Gaza”, con metodi di uccisione e massacri mai visti prima: raid 24 ore su 24, giorno e notte. Un arsenale militare senza precedenti che ammazza persone nelle loro case, nelle loro tende, nelle scuole, negli ospedali, per strada. Sfollamenti forzati da un quartiere all’altro, da nord a sud, da ovest a est, da est a ovest, da ovest a sud. Affamare le persone, distruggere il sistema sanitario, lasciare morire lentamente, senza cure, i pazienti affetti da malattie gravi e i feriti.

Come nella serie Hunger Games, tutto il mondo è spettatore. Solo che questa volta non si tratta di una finzione. Stiamo morendo, fisicamente, psicologicamente e moralmente. I bambini soffrono di malnutrizione, per strada, sotto tende o teloni. Beviamo acqua sporca, non abbiamo vestiti, né prodotti per l’igiene. Non abbiamo più nulla da mangiare, né soldi. Chi ha ancora qualcosa sul proprio conto in banca a Ramallah deve passare dagli uffici di cambio per avere dei contanti. Speculatori di guerra che ora prendono una commissione del 50%. Gli israeliani hanno distrutto scuole e università per fare di noi una popolazione povera, umiliata e ignorante, barbari, animali che corrono dietro a un pacco di cibo.

Ma noi siamo esseri umani. Obeida e Sharif avevano “scelto” di rischiare la vita perché i loro figli morivano di fame, come centinaia di altre persone di tutti i ceti sociali di Gaza. Tra loro ci sono uomini e donne, imprenditori, medici, architetti, ingegneri. Esseri umani come gli altri, che provano la sensazione peggiore per un padre o una madre di famiglia il giorno in cui sentono i propri figli dire “ho fame” senza poter dar loro nulla da mangiare. Nessuno può capire questo dolore se non lo ha provato. Quando tuo figlio non mangia da tre giorni e ti chiede solo un pezzo di pane che non puoi dargli, e vorresti, come si dice dalle nostre parti, essere inghiottito dalla terra, non esistere più. Allora la gente va in quelle zone lì, dove sa che verrà uccisa dai proiettili dei carri armati, dai droni quadricotteri, dai colpi dei cecchini. Le persone lo sanno, ma ci vanno lo stesso. Perché, in ogni caso, sarebbero morti. Uccisi dall’esercito israeliano o morti per l’impossibilità di sfamare i propri figli. Morti come padri o madri di famiglia.

Non riesco ad esprimere l’impotenza

La popolazione di Gaza sta vivendo la morte. La morte la sentiamo. L’avvertiamo. La tocchiamo. La respiriamo. La morte è ovunque. Cerchiamo comunque di sopravvivere, o meglio, semplicemente di restare in vita perché vogliamo dare la vita ai nostri figli. Allo stesso tempo, cerchiamo la morte perché sappiamo che nelle zone in cui vengono distribuiti gli aiuti umanitari saremo presi di mira, bombardati, uccisi. Ci proviamo comunque. La vita diventa un misto di morte e vita. Di vita perché respiriamo, ma di morte perché è intorno a noi. Stiamo vivendo una “israeliminazione” con tutti i mezzi: militari, mediatici, psicologici.

Sento spesso i giornalisti dire: “Non ci sono parole per descrivere ciò che sta accadendo”. Ma è il loro lavoro descrivere le cose con delle parole. E queste parole esistono. Non bisogna aver paura di usarle. Bisogna dare un nome a questo genocidio. Gli israeliani stanno distruggendo un popolo, le sue abitazioni, i suoi ospedali, le sue università, le sue scuole, la sua agricoltura, la sua storia archeologica, le sue infrastrutture. E i suoi esseri umani. È un gazacidio, un palestinocidio. Il loro obiettivo è chiaro: deportarci e/o sterminarci. Indebolirci a tal punto da farci accettare l’esilio. Ma noi siamo ancora qui.

È anche vero che, a volte, mancano le parole. Non riesco a descrivere la sofferenza nel vedere un bambino affamato, un parente, un vicino affamato e non poterlo aiutare. Non riesco a descrivere l’impotenza, la sensazione di paralisi che mi invade di fronte all’impossibilità di fare qualcosa di fronte a questa punizione collettiva, la non-vita nella morte. In ogni caso, c’è gente che rischia la vita. Sono morti. Abbiamo visto immagini di feriti portati in ospedale mentre stringevano ancora tra le braccia un sacco di farina macchiato del loro sangue, perché quel sacco significa tre o quattro giorni di vita per i loro figli. Il pane è oggi l’alimento principale. Almeno dà la sensazione di essere sazi.

I massacri della farina continuano. I “centri di distribuzione degli aiuti” rimangono aperti. E gli israeliani continuano a sparare su chiunque si avvicini, quando ne hanno voglia. È così che vengono uccise tra le dieci e le venti persone al giorno. Trentotto morti da questa mattina, 16 giugno, davanti a un centro di Rafah. Dodici il 15 giugno. Più di 300 morti e 2.600 feriti davanti ai centri, secondo il ministero della Salute.

In queste circostanze, la guerra di Israele contro l’Iran non fa parte delle preoccupazioni degli abitanti di Gaza. Come la maggior parte di loro, ho saputo la notizia solo il 14 giugno, dopo due giorni di interruzione totale delle telecomunicazioni. Ma l’unica cosa di cui la gente parla 24 ore su 24 sono i centri di distribuzione: “Sono aperti o chiusi oggi? Arriveranno gli aiuti umanitari?”. Non si chiedono nemmeno più se ci sarà una tregua, se la guerra finirà.

Tutto quello che vi sto dicendo, per voi è impossibile da capire. Non avete mai provato l’impossibilità di dare la vita a un bambino. Non potete davvero comprendere le immagini di decine di migliaia di persone che si precipitano a “giocare” in questi Hunger Games, dove nella calca vince il più forte, e dove forse perderanno la partita, ovvero la loro vita.

È il metodo peggiore di uccidere e umiliare. Il peggior metodo di sterminio.

1Hunger Games è una serie di libri di fantascienza scritta dall’autrice Suzanne Collins e adattata per il cinema. Descrive le avventure di Katniss Everdeen, che deve partecipare agli Hunger Games (Giochi della fame), una lotta all’ultimo sangue trasmessa in televisione in cui gli adolescenti sono costretti ad uccidersi a vicenda per intrattenere i leader di un regime totalitario. [Ndr].