Diario da Gaza 51

“Quest’anno non ci sarà la raccolta delle olive”

Rami Abu Jamous scrive il suo diario per Orient XXI. Giornalista fondatore di GazaPress, un’agenzia di stampa che forniva aiuto e traduzioni ai giornalisti occidentali, Rami ha dovuto lasciare il suo appartamento a Gaza con la moglie e il figlio Walid di due anni e mezzo. Rifugiatisi a Rafah, Rami e la sua famiglia sono stati costretti a un nuovo esilio interno, bloccati come tante famiglie in questa enclave miserabile e sovraffollata. Questo spazio gli è dedicato dal 28 febbraio 2024.

L'immagine mostra una persona che tiene in mano un ramo d'olivo mentre si trova vicino a un incendio. Sullo sfondo, le fiamme e il fumo si alzano, creando un'atmosfera di tensione. Il contrasto tra la natura rappresentata dal ramo e la devastazione del fuoco è molto evidente. L'azione sembra evocare un gesto di difesa o ricerca di speranza in un contesto difficile.
Salem, 14 novembre 2010. Un palestinese usa un ramoscello d’ulivo per spegnere un incendio in un uliveto e nei pascoli circostanti presumibilmente incendiati dai coloni nel villaggio di Salem, nel nord della Cisgiordania.
Jaafar Ashtiyeh / AFP

Mercoledì 18 settembre 2024.

Siamo a fine settembre e ci sono i preparativi delle “nozze”, così viene chiamata la raccolta delle olive: al ’ors al falastini, “lo sposalizio della Palestina”. Si comincia ai primi di ottobre. Durante la raccolta, tutta la famiglia si reca nei campi. Si comincia al mattino, con una colazione tradizionale a base di galayet bandora (un piatto con una salsa a base di pomodori), foul (stufato di fave), hummus (purè di ceci con aglio, limone e olio d’oliva). Anche gli scout e gli studenti vanno a dare una mano durante la raccolta. Si intonano dei canti tradizionali. È davvero una grande festa, è la celebrazione di una nascita, una nascita che testimonia la nostra appartenenza alla terra e che questa terra ci appartiene. Poi si attende l’arrivo della pioggia, perché incrementa il volume delle olive, così daranno un ottimo olio.

Purtroppo quest’anno non ci sarà la tradizionale raccolta delle olive. A Gaza, nella Città Vecchia, c’è un quartiere chiamato Zaytun, di cui forse avete già sentito parlare. Zaytun vuol dire “olivo”, perché un tempo era pieno di alberi di olivo. Ma gli israeliani hanno bombardato e raso al suolo l’intero quartiere, come hanno fatto con gli altri quartieri al confine con Israele. Tutti conoscevano la storia di quegli ulivi, alcuni risalivano al 1905 e al 1920, ma oggi non ci sono più. Tutto è stato distrutto.

L’albero di ulivo è il simbolo dell’identità palestinese

Gli israeliani conoscono bene quanto i palestinesi siano attaccati a questo albero, che non è solo una fonte di reddito in Cisgiordania e Gaza, ma è la pianta simbolo dell’identità palestinese. Ecco il motivo per cui il primo obiettivo dei coloni, quando attaccano i villaggi della Cisgiordania, vicino al muro di separazione o, meglio, il muro dell’apartheid, sono gli ulivi. Durante gli attacchi, i coloni abbattono innanzitutto gli ulivi, la maggior parte dei quali sono stati piantati prima della creazione dello Stato di Israele. Lo sanno tutti che l’ulivo più antico del mondo, che ha più di 4.000 anni, si trova a Betlemme.

Il muro dell’apartheid separa i villaggi dagli uliveti. Le strade che collegano gli insediamenti passano deliberatamente attraverso le distese di ulivi, con l’intenzione di distruggerli perché l’ulivo è la pianta simbolo dei palestinesi, ma è anche il simbolo della nostra resistenza pacifica, della nostra stessa esistenza. Non so se conoscete la famosa foto di Mahfoza Oude, la donna che teneva in braccio uno degli ulivi abbattuti dai coloni durante l’attacco al suo villaggio, vicino Nablus. Per lei era come se avesse perso un figlio.

Un tempo, Gaza era il terzo produttore di olive in Palestina, ex aequo con Nablus, dopo Jenin e Tulkarm. Gaza produceva tra le 15.000 e le 20.000 tonnellate di olive e tra le 3.000 e le 4.000 tonnellate di olio. È davvero una grande perdita, non solo in termini di entrate, ma anche per il legame con la terra. Si sa che gli israeliani vogliono cancellare ogni legame tra i palestinesi e la loro terra. Difatti, hanno distrutto musei, bombardato moschee e chiese, siti archeologici, università, scuole, asili... ma soprattutto hanno distrutto gli ulivi, perché sanno bene quanto siano importanti per i palestinesi. I proprietari degli uliveti, in Cisgiordania o a Gaza, ne parlano come se fossero dei figli o dei nipoti. L’olivo (zeitoun) e l’olio d’oliva (zeit) sono presenti ovunque, nei toponimi come Birzeit, Zeita, Tour Zeita, Jabal al-Zeytun, o nei cognomi come Zaytuna, Zaytunia, Zayyat....

Gli israeliani vogliono cancellare questo legame appropriandosi di tutto ciò che è palestinese. Durante un incontro tra il presidente dell’Autorità palestinese, Maḥmūd ʿAbbās, e il ministro israeliano Benny Gantz, quest’ultimo gli ha offerto... una bottiglia di olio d’oliva. Per comprendere il valore simbolico del gesto, va detto che Maḥmūd ʿAbbās, conosciuto anche con la kunya Abu Mazen, è originario di Safad, città famosa per i suoi ulivi, che oggi però si trova in Israele. È una forma di appropriazione che investe anche molti altri aspetti della vita palestinese. Un esempio è il panino con i falafel, che tutti conoscono come una specialità palestinese e più in generale mediorientale – lo si trova in Libano, Siria, ecc. – e che gli israeliani presentano come un “piatto tradizionale israeliano”. Lo stesso vale per l’hummus, il foul, o l’arte del tatreez, il ricamo sugli indumenti, un’arte molto nota e tramandata di madre in figlia. Ricordo un ministro del Turismo israeliano che indossava un abito con ricami palestinesi, sostenendo però che fossero di fattura israeliana. Gli israeliani non solo vogliono portarci via la nostra terra, ma anche le nostre tradizioni culturali.

La paura trasforma la società

È un modo simbolico per capovolgere la realtà. È come se gli israeliani, venuti da ogni parte del mondo per colonizzarci, volessero far credere di essere qui da molto tempo prima di noi. Benny Gantz mostrava il prodotto simbolo di questa terra a persone che, secondo lui, erano arrivate molto dopo in un paese che si chiamava già Israele in un lontano passato. È un lavaggio del cervello che funziona con gli israeliani e in Occidente, ma sta cominciando a entrare anche nella testa degli stessi palestinesi, che stanno perdendo i loro punti di riferimento.

La paura sta trasformando la società. La gente comincia a temere non solo di essere accomunata, anche lontanamente, ad Hamas o al Jihad islamico, ma anche alle famiglie dei combattenti. Ora hanno persino paura di salutare un membro, un amico, un vicino di casa di Hamas o qualcuno che lavora per il governo di Hamas, anche se non fa parte del movimento. Stiamo perdendo il valore della solidarietà che era la norma. Durante la seconda Intifada, era un onore nascondere i combattenti in casa, quando erano ricercati. Oggi è diventato un pesante fardello. Tutti sanno che si rischia di essere immediatamente puniti, che si mette a rischio la vita, anche per l’intera famiglia.

La resistenza – soprattutto quella armata – che, di norma, è considerata legittima contro le forme di occupazione, viene definita terrorismo quando si tratta dei palestinesi. Per l’Occidente, la resistenza degli ucraini contro la Russia non solo è legittima, ma viene sostenuta con denaro e armi. Ma quando si tratta della Palestina, è terrorismo. Gli israeliani sono riusciti ad inculcare quest’idea nella mente degli occidentali, invertendo i ruoli e cambiando de norme. Purtroppo, la cosa si sta diffondendo anche tra gli stessi palestinesi. Abbiamo dimenticato la nostra storia, dimenticato i nostri diritti. La paura della punizione collettiva e del genocidio sta cambiando anche il nostro modo di comportarci con gli altri e con noi stessi.

Con mia moglie Sabah, siamo andati a vedere un appartamento in affitto, per non passare tutto l’inverno in tenda. Però la casa costava troppo, e inoltre Sabah la trovava anche troppo grande, nonostante fosse meno della metà del nostro appartamento di Gaza City, che abbiamo lasciato per ordine dell’esercito israeliano. Ma il fatto di vivere troppo in tenda ha convinto Sabah che l’appartamento fosse troppo grande. E, invece, è il nostro spazio ad essersi ridotto, sia fisicamente che mentalmente.

Nella Striscia di Gaza, ormai rimangono solo pochi ulivi all’interno delle città e dei giardini. Malgrado ciò, gli alberi di olivo verranno ripiantati e torneremo a far festa per lo “sposalizio della Palestina”. Come ha scritto il grande poeta palestinese Mahmoud Darwish:

“Se gli ulivi conoscessero le mani che li hanno coltivati
il loro olio si trasformerebbe in lacrime”.