Martedì 25 giugno 2024.
Come sapete, è da più di un mese che viviamo in una tenda piantata a Deir el-Balah, tra la strada costiera e il mare. Nella nostra “villa con piscina”, abbiamo tutto il necessario, tranne Internet. È per questo che per lavorare, inviare degli estratti video che giro ai canali televisivi, o anche il testo che state leggendo, mi tocca andare al centro di Deir el-Balah, o a Nuseirat, più a nord. Lì, ci sono dei colleghi giornalisti che hanno una buona connessione. Normalmente, è un tragitto che non richiede più di cinque minuti, ma oggi ci vuole tra un’ora e un’ora e mezza, perché bisogna attendere a lungo sul ciglio della strada che passi un mezzo di trasporto e che abbia un posto libero. I taxi sono pochissimi, e il più delle volte bisogna salire su un bus tutto scassato che risale agli anni ‘70 o ‘80, o sul nuovo mezzo di trasporto della Striscia di Gaza: un rimorchio per trasporto bestiame trainato da macchine ormai obsolete.
I pochi proprietari di auto che circolano ancora hanno escogitato questo trucco per monetizzare ogni viaggio. Il gasolio e la benzina scarseggiano, e quindi i prezzi sono carissimi: un litro di gasolio oggi si aggira intorno agli 80 shekel (20 euro), contro i 6 shekel di prima della guerra. E così gli abitanti di Gaza fanno ricorso alla consueta arte di arrangiarsi, usando come carburante surrogato dell’olio vegetale. In genere, è un sistema che viene usato per le vecchie auto, perché i proprietari non hanno paura di distruggere il motore.
“Questi viaggi permettono di vedere la situazione della società di Gaza”
A volte aspetto un quarto d’ora, a volte mezz’ora, a volte anche di più. Qualunque sia il mezzo di trasporto, bus o carro bestiame, si viaggia ammassati l’uno sull’altro. È una cosa che mi addolora molto soprattutto per le donne anziane, ma vale per tutte le donne costrette a viaggiare. È indegno che debbano viaggiare in una simile calca, e quindi preferiscono aspettare molto a lungo che passi una macchina semivuota, o che altri passeggeri si sistemino nella parte posteriore per lasciare loro quella anteriore.
Questi viaggi permettono di capire com’è la situazione sociale a Gaza dopo 8 mesi dall’inizio dell’invasione israeliana. Le facce sono ceree, stanchissime. Si vedono bambini amputati, con protesi, o tanti altri pazienti che vanno in ospedale. E siccome la maggior parte degli ospedali statali sono stati distrutti dall’esercito israeliano, la gente va in ospedali da campo allestititi dalle Ong internazionali, ad esempio quello che viene chiamato l’ospedale americano, gestito dall’Ong International Medical Corps, o l’ospedale del Comitato Internazionale della Croce Rossa, o ancora quelli della Mezzaluna Rossa e di Medici Senza Frontiere. Sono gli stessi israeliani a incoraggiare la creazione di strutture improvvisate sotto le tende, perché sono favorevoli a tutto ciò che può indebolire il potere civile di Hamas. Il loro principale obiettivo è il sistema sanitario, che per il momento però ha retto molto bene: tutti vanno in questi ospedali da campo, dove lavorano medici stranieri ma anche medici, infermieri e personale ospedaliero di Gaza.
“Tutti raccontano i propri guai”
Sui rimorchi per trasporto bestiame, ogni passeggero racconta come è stato ferito, bombardato, quanti parenti ha perso, quante volte ha dovuto spostarsi. La strada intorno a noi sembra essersi ridotta, è diventata una strada stretta, perché a destra e a sinistra le tende degli sfollati hanno invaso i marciapiedi. Le tende che danno sulla strada sono diventate dei piccoli spacci, ci sono anche dei teloni di due o tre metri quadrati dove si trova di tutto, seppur in piccole quantità. “Alimentari” che vendono cibo in scatola, “negozi di ferramenta” che vendono legno e chiodi per realizzare tende di fortuna, “farmacie X o Y”, in realtà un telone con qualche scatola di medicinali. Ci sono anche dei barbieri e delle parrucchiere, dei piccoli negozietti di usato, insomma tutto ciò che si può trovare in questo universo fatto di stenti e miseria.
Sui carri bestiame, si accusano i commercianti di approfittare della guerra per rincarare i prezzi. All’inizio, quando eravamo a Rafah, sapevamo il perché dei prezzi così alti. La merce doveva passare attraverso il valico israeliano di Kerem Shalom e poi attraverso quello egiziano di Rafah. La società egiziana che assicurava il trasporto prendeva 10.000 dollari a camion. C’erano anche quattro importatori palestinesi autorizzati dagli israeliani. Tutta gente che prendeva tra i 5.000 e i 10.000 dollari a camion.
Ma oggi le merci arrivano direttamente dalla Cisgiordania, o addirittura da Israele. I prodotti sono israeliani. Non c’è alcuna tassazione, né da parte di Hamas, né da parte della Cisgiordania, cioè dell’Autorità Palestinese. Malgrado ciò, i prezzi dei beni essenziali non si sono abbassati. Per fare un esempio, ora il pollo costa 50 o 60 shekelal chilo (tra 12,5 e 15 euro), rispetto al prezzo tra 8 e 10 shekel di prima (tra 2 e 2,5 euro). Le ali di pollo costavano 3 shekel al chilo, oggi costano tra i 40 e i 50 shekel (tra 10 e 12,50 euro).
I commercianti si saranno detti che, se la gente ha ormai preso l’abitudine di pagare tutto in modo così caro, per quale motivo abbassare i prezzi? Sui carri bestiame, alcuni passeggeri dicono: “Stiamo subendo tante guerre: la guerra della carestia, la guerra dei bombardamenti, e, per di più, c’è la guerra dei nostri fratelli palestinesi che stanno facendo un bel po’ di soldi sulle nostre spalle”. Altri hanno proposto un boicottaggio: “Se non compriamo per tre o quattro giorni, saranno costretti ad abbassare i prezzi”. Alla proposta, altri hanno risposto: “C’è un milione e mezzo di persone che ha bisogno di nutrirsi”.
“Ora siamo tutti mendicanti”
Le critiche però sono rivolte a Hamas, e soprattutto al suo capo militare nella Striscia di Gaza, Yahya Sinwar. Alcuni fanno dell’ironia: “Sono dimagrito grazie al metodo Sinwar”.
Ho assistito a una conversazione di recente. Uno dei passeggeri del carro su cui mi trovavo aveva provato a prenderne le difese:
Hamas sta conducendo una guerra a nome di tutto il mondo musulmano. Lo fanno per Gerusalemme. Sono riusciti a portare alla luce questa occupazione criminale, fermando il processo di normalizzazione con i paesi arabi. E guardate, il mondo si sta mobilitando perché Hamas ha rispolverato la questione palestinese, che era finita in qualche cassetto dopo gli accordi di Oslo. Se ora tutti ne parlano, è grazie ad Hamas. Gaza è diventata una questione politica nelle campagne elettorali in Europa e negli Stati Uniti, e i leader hanno paura di perdere consenso a causa della loro posizione su Gaza.
Un altro passeggero gli ha risposto:
Può anche essere vero quello che dici, ma, secondo me, dopo questa guerra non ci saranno più palestinesi. Se ne andranno tutti, perché qui non ci sarà più vita. E, a quel punto, cosa avremo guadagnato? La ricchezza è rappresentata dagli uomini. Se non restano più esseri umani su questa terra, non varrà più nulla. L’abbandoneranno tutti. Abbiamo perduto questa terra, o forse si poteva agire diversamente. È da 70 anni che viviamo sotto occupazione, per cui la questione palestinese non può essere riportata in vita da una pulizia etnica, con 2,2 milioni di persone che saranno trasferite altrove, o quando tutti saranno morti.
Il primo ha provato a replicare: “Ma guarda l’Algeria, c’è stato un milione e mezzo di martiri! Noi ne abbiamo solo 40.000”. Gli animi si sono un po’ scaldati, con gli altri passeggeri che intervenivano nella discussione, anche se la maggior parte era contro l’uomo che difendeva Hamas, arrivando quasi ad identificarlo. Ma alcuni hanno risposto:
Parli così perchè tu non hai perso nulla. A quanto pare, stai facendo un mucchio di soldi. Hai approfittato del potere prima della guerra e anche durante la guerra. Ora ricevi degli aiuti perché sei pro Hamas. Hamas non dà aiuti agli altri, alla popolazione. Prima eravamo orgogliosi di essere palestinesi. Ora siamo tutti mendicanti che dipendono dagli aiuti umanitari. E la colpa è vostra, e inoltre è falso dire che avete riportato in vita la questione palestinese.
Un uomo ha quindi aggiunto:
Prima eravamo un popolo produttivo, Yasser Arafat faceva il giro del mondo, abbracciava gente a destra e a manca, eppure lo prendevamo in giro. Ma accettava di essere umiliato affinché il suo popolo potesse mantenere il suo orgoglio, senza diventare un popolo di mendicanti. Voi, invece, avete fatto il contrario. Siete negli hotel del Qatar mentre noi siamo costretti a mendicare.
A quel punto, sono intervenuto io: “Signori, calmatevi. Stiamo vivendo momenti molto difficili. Questa guerra deve finire, solo dopo si tireranno le somme, e si vedrà quello che succederà”. In quel momento, l’uomo che accusava Hamas mi ha detto: “Se rimarranno ancora al potere anche dopo questa guerra, io non resterò qui a Gaza, ma andrò via immediatamente”.
“Come siamo arrivati a scontrarci tra noi in maniera così violenta?”
All’arrivo a Nuseirat, guardando il carro bestiame su cui avevo viaggiato, ho pensato: “Come siamo arrivati a una simile umiliazione in ogni aspetto della nostra vita: trasporti, tende, cibo, code, mancanza d’acqua e tutto il resto? Come siamo arrivati a scontrarci tra noi in maniera così violenta?”
La discussione per poco non è degenerata in una scazzottata. La tensione è altissima, e ognuno esprime la sua rabbia o miseria in modi diversi. Ci sono quelli che sono diventati violenti. I passeggeri hanno parlato anche di scontri avvenuti nei campi di fortuna, con feriti e talvolta anche morti, per una tanica d’acqua o una discussione in fila. I bambini litigano tra loro. E mi sono detto che purtroppo questa guerra ha tirato fuori il peggio delle persone, perché siamo costretti a vivere in una prigione sotto tortura, ma allo stesso tempo dobbiamo sfuggire alla morte che ci segue ad ogni passo, oltre a fuggire davanti alla macchina da guerra.
Rimanere in vita, sopravvivere, cercare di trovare qualcosa da mangiare. È davvero una continua lotta per la sopravvivenza, per cui mi chiedo se questo non significhi vivere secondo la legge della giungla. Noi viviamo in una giungla, dove si aggirano dei leoni che non vedono l’ora di sbranarci. Da parte nostra, cerchiamo di proteggere i nostri figli, i nostri amici, le nostre famiglie da quei leoni che non fanno distinzioni tra un bambino o un anziano. Ma, allo stesso tempo, ci rivolgiamo accuse reciproche, scontrandoci anche tra di noi in questa giungla perché il leone vuole spingerci ad ucciderci l’un l’altro, proprio perché stiamo lottando per sopravvivere. La paura di questo leone si trasforma in una violenza contro i nostri fratelli, i nostri amici e perfino contro le nostre famiglie.
La mia speranza è che questa guerra possa finire al più presto, che non ci siano più leoni, e che questa giungla si trasformi in un grande giardino dove si possa trovare piacere, gioia, ma soprattutto pace e tranquillità.