Diario da Gaza 103

“Questa volta non c’è un piano B”

Rami Abu Jamous scrive il suo diario per Orient XXI. Giornalista fondatore di GazaPress, un’agenzia di stampa che forniva aiuto e traduzioni ai giornalisti occidentali, Rami ha dovuto lasciare il suo appartamento a Gaza con la moglie e il figlio Walid di due anni e mezzo. Rifugiatisi a Rafah, la famiglia è stata poi costretta a un nuovo esilio prima a Deir al-Balah, poi a Nuseirat, bloccata come tante famiglie in questa enclave miserabile e sovraffollata. Un mese e mezzo dopo l’annuncio del cessate il fuoco, Rami è finalmente tornato a casa con la moglie, Walid e il figlio appena nato, Ramzi. Per il suo Diario da Gaza, Rami ha ricevuto tre importanti riconoscimenti al premio Bayeux per i corrispondenti di guerra. Questo spazio gli è dedicato dal 28 febbraio 2024.

Una strada polverosa tra macerie di edifici distrutti, con una persona in sedia a rotelle.
Gaza City, 14 agosto 2025. Un ragazzo palestinese trascina una sedia a rotelle oltre gli edifici distrutti nel quartiere di Al-Tuffah.
Omar AL-QATTAA / AFP

Sabato 23 agosto 2025.

Il ministro della Difesa israeliano, Israel Katz, ha approvato un piano per occupare la città di Gaza, “l’ultimo bastione di Hamas”. Ogni volta che occupano una città, dicono la stessa cosa: “Questo è l’ultimo bastione”. Lo hanno fatto con Jabaliya, con Beit Lahiya, con Rafah. E ora è il turno di Gaza City.

Il problema è che 2,3 milioni di gazawi vivono nel 20% della superficie della Striscia di Gaza, mentre il restante 80% è occupato dall’esercito israeliano. Dopo l’occupazione di Gaza City, questi 2,3 milioni di persone saranno confinati in appena il 10% della superficie dell’enclave, ovvero 35 chilometri quadrati.

Da quando è stato annunciato il piano, continuo a ricevere telefonate dai miei amici e da molte altre persone che mi chiedono: “Cosa bisogna fare? È una cosa seria? Lo faranno davvero?”. Anche mia moglie Sabah mi fa la stessa domanda. Io cerco di rispondere in maniera ottimistica: “No, non occuperanno la città di Gaza, questa è l’ultima occasione per raggiungere un cessate il fuoco!”. Ma dentro di me so che può succedere di tutto.

Quando Israele si preparava a occupare Rafah, Joe Biden, Emmanuel Macron e altri leader occidentali avevano detto: “Rafah è una linea rossa”. Ma Israele, il figlio viziato dell’Occidente, aveva fatto quello che voleva, e guardate cosa è diventata Rafah: un cumulo di macerie. Con Netanyahu, non c’è alcuna linea rossa. Fino a quando durerà la guerra, durerà anche la sua vita politica. Ma è difficile dirlo senza mezzi termini. Quindi, non riesco a trovare altre risposte per la mia famiglia e i miei amici.

In viaggio con solo una borsa e senza sapere dove andare

Come al solito, tutti mi chiedono anche se ho qualche idea per un “piano B”. Purtroppo, questa volta, non c’è un piano B. Né per me, né per le centinaia di migliaia di persone che non hanno un posto dove andare. All’inizio della guerra, quando siamo stati costretti ad andarcene, c’erano delle soluzioni: andare al centro della Striscia di Gaza, verso Deir al-Balah, o a sud, verso Khan Younis, Rafah, Al-Mawasi... In queste città e nei dintorni, c’era ancora spazio, camere in affitto, terreni dove piantare una tenda. Oggi è quasi impossibile.

Alcuni hanno trovato alloggio lì, da amici, nei depositi, in garage, nel caso in cui bisognerà andarsene. Come noi, hanno già vissuto l’esperienza di essere sfollati. Non vogliono più mettersi in viaggio solo con una borsa, senza sapere dove andare, ed essere costretti a ricominciare da capo, trovare una tenda, un posto dove sistemarsi, dei vestiti e così via. Ma centinaia di migliaia di altre persone non hanno questa possibilità. E soprattutto, non c’è più spazio. Altri amici sono andati a fare un sopralluogo ad Al-Mawasi, la zona vicino al mare a sud, dove centinaia di migliaia di persone sono ammassate, per cercare di accaparrarsi un pezzetto di terra ancora libero dove poter piantare una tenda. È praticamente impossibile. Il terreno privato dove avevamo piantato la nostra tenda con quelle di altre cinque famiglie, a Deir al-Balah, è completamente occupato.

E quindi non ho un piano B. Non so cosa farò. Non mi piace trasmettere ansia e paura intorno a me, tantomeno a mia moglie e ai miei figli. Ma so che Sabah leggerà questo Diario, così come faranno i miei amici. Purtroppo, non abbiamo scelta. Non abbiamo un posto dove andare, né come arrivarci. L’unico modo per raggiungere il sud ora è la strada costiera, dove è proibito l’uso delle auto. In ogni caso, non ci sono auto, né benzina. Quindi dovremmo andare a piedi, o su carri trainati da animali, o sui tuk-tuk ancora in circolazione.

La deportazione sarà l’unica soluzione

Ma per andare dove? È questo che spaventa i gazawi. L’Idf sta bombardando i quartieri di Shajaya, Zeitoun e Sabra. L’esercito sta circondando Gaza City da nord, sud ed est. A ovest, c’è il mare. E poiché la gente sa di non avere scelta, molti di loro preferiscono rifiutare gli ordini di evacuazione e morire a casa.

So benissimo che siamo di fronte a un bivio. O c’è la fine della guerra, oppure dovremo affrontare la deportazione all’estero. Non c’è una terza opzione. Se saremo costretti ad andarcene, sarà a Rafah, luogo che il ministro della Difesa israeliano definisce “città umanitaria”. In altri termini, saremo confinati in un enorme campo costruito sulle rovine di Rafah, sorvegliati dai militari, vivendo in tenda e in condizioni disumane. Quindi, per “ragioni umanitarie”, i Paesi accetteranno di accoglierci. La deportazione sarà l’unica soluzione. Naturalmente non useranno le parole “deportazione” o “pulizia etnica”, ma diranno “offrire una vita migliore ai poveri palestinesi che vivono in condizioni terribili”.

Ecco. È questo, o la fine della guerra, che è ciò che tutto il mondo spera.

Gli israeliani aspettavano solo una scusa per attuare questo piano

Hamas si trova ad affrontare un Netanyahu che pone costantemente nuove condizioni per fermare i massacri. Ma intorno a me, sento sempre più persone dire che Hamas deve smettere di negoziare con un nemico che ha il coltello dalla parte del manico e sta giocando con l’esistenza stessa della popolazione di Gaza. Si chiedono: “Cosa aspetta Hamas per alzare bandiera bianca?”. Hamas, come movimento, non ha nulla da perdere. È la popolazione che sta pagando il conto. Naturalmente, all’interno di questa popolazione c’è anche la base popolare di Hamas. Ma come movimento politico, non ha nulla da perdere. Il problema è che noi mediorientali, o arabi in generale, ci rifiutiamo, per orgoglio, di riconoscere le nostre sconfitte militari, soprattutto di fronte a un occupante. Dopo Hiroshima, l’imperatore giapponese ha alzato bandiera bianca, dicendo che se non l’avesse fatto, non sarebbe rimasto un solo giapponese. E che il Giappone non potrebbe esistere senza i giapponesi. Allo stesso modo, la Palestina non sarebbe nulla senza i palestinesi.

Ma Hamas continua a tener fede alla sua ideologia di liberare la Palestina attraverso la resistenza armata. Non ha imparato nulla dalle altre fazioni nate molto prima, in particolare da Fatah, che aveva anch’essa sperimentato la resistenza armata, per poi abbandonarla, per arrivare forse un giorno alla creazione di uno Stato palestinese. Hamas crede ancora che la bandiera bianca significherebbe il fallimento della resistenza e che la Palestina non sarà mai liberata. Credono di non poter convincere la loro base a cessare la lotta armata. Quindi preferiscono che la nave affondi con tutti a bordo, così che non si dica che è stata solo Hamas a perdere e ad arrendersi, ma l’intera popolazione. Preferiscono la distruzione totale della Striscia di Gaza e la deportazione di tutta la sua popolazione. Purtroppo, è un approccio che è costato caro alla popolazione palestinese. Si sarebbe potuto evitare tutto quello che stiamo vivendo attualmente. Si sarebbero potuti evitare i massacri. È risaputo fin dal primo giorno, dal 7 ottobre, che il vero obiettivo della guerra è la deportazione di 2,3 milioni di persone. Gli israeliani aspettavano solo una scusa per attuare questo piano. Non era necessario fornirgliela. Soprattutto di fronte a un mondo che resta in silenzio, con la complicità degli Stati Uniti che offrono a Israele ogni supporto possibile: militare, finanziario e politico.

La popolazione di Gaza non ha colpe. Vuole solo resistere all’occupazione e rimanere in Palestina. Ma con la scelta della lotta armata, saranno tutti a perdere. Hamas dirà di aver resistito fino all’ultimo minuto, fino all’ultimo pezzo di terra, che è stata vittima della complicità del mondo intero con Israele. È grave se Hamas la pensa così. Perché è la Palestina a perdere. Non ci sarà più la Palestina. Gaza sarà una città israeliana. E forse una “Riviera” americana. Avranno perso tutti, Hamas incluso, anche se non lo ammetterà. Da quando Hamas è al potere a Gaza, sono sempre stati gli israeliani a decretare l’inizio e la fine delle guerre. La guerra del 2009 ha causato 1.200 morti. La guerra del 2014, oltre 2.000 morti. La guerra del 2019, centinaia di morti. La Striscia di Gaza è sotto assedio da 17 anni. Non entra quasi più nulla. Ma Hamas ha sempre dichiarato vittoria, perché era ancora lì, e anche la popolazione. Forse. Ma questa volta non ci saranno più palestinesi.

Ecco che siamo arrivati a un bivio: o la cancellazione dell’esistenza palestinese a Gaza, o la fine della guerra. Mi rivolgo a coloro che negoziano all’estero per conto di 2,3 milioni di persone. Chiedo loro di considerare che la sconfitta o la vittoria dipendono dall’esistenza dei palestinesi. Dico loro che non è una vergogna smettere di combattere, indipendentemente dalle condizioni, quando ci troviamo di fronte a un esercito superpotente che ci massacra ogni giorno. Stiamo vivendo un genocidio, una pulizia etnica e una carestia sotto gli occhi del mondo intero, nel XXI secolo. Non è una vergogna decidere di tirare un sospiro di sollievo.

Sappiamo benissimo che un giorno la Palestina sarà liberata. Sappiamo benissimo che un giorno la giustizia regnerà, che i palestinesi avranno i loro diritti. La storia lo testimonia, la logica e la natura lo testimoniano: l’ingiustizia non dura per sempre. Ma nel frattempo, dobbiamo preservare ciò che abbiamo. Dobbiamo distinguere tra coraggio e saggezza. La saggezza a volte richiede molto coraggio. La saggezza di fermarsi, pur sapendo che perderemo come movimento di resistenza. Ma vinceremo perché l’essere palestinese rimarrà nella sua terra di Palestina. Potremo ricostruire, come abbiamo già fatto tante volte. Il solo fatto di esistere, di rimanere sul suolo palestinese, sarà una grande vittoria.

In realtà, gli israeliani sanno benissimo che il vero pericolo per l’esistenza di Israele e per la liberazione della Palestina sono i palestinesi. Ed è per questo che stanno cercando con tutti i mezzi di mandarci via, sia a Gaza che in Cisgiordania. Sanno benissimo di essere occupanti di una terra che non appartiene a loro. Questo spargimento di sangue deve essere fermato. È un messaggio per Hamas. E anche se Netanyahu cambierà i parametri all’ultimo minuto, non ha importanza. È il più forte, e impone le sue condizioni. Accettando queste condizioni, vinceremo: non ci saranno più deportazioni, né a Gaza né in Cisgiordania. Non ci saranno più pretesti per Netanyahu per deportare 2,3 milioni di persone né per annettere Gaza a Israele. E i palestinesi saranno ancora lì.

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