Diario da Gaza 74

“Resistere da soli nel deserto”

Rami Abu Jamous scrive il suo diario per Orient XXI. Giornalista fondatore di GazaPress, un’agenzia di stampa che forniva aiuto e traduzioni ai giornalisti occidentali, Rami ha dovuto lasciare il suo appartamento a Gaza con la moglie e il figlio Walid di due anni e mezzo. Rifugiatisi a Rafah, Rami e la sua famiglia sono stati costretti a un nuovo esilio interno, bloccati come tante famiglie in questa enclave miserabile e sovraffollata. Il 12 ottobre 2024, Rami ha ricevuto, per il suo Diario da Gaza, tre riconoscimenti al premio Bayeux per i corrispondenti di guerra. Questo spazio gli è dedicato dal 28 febbraio 2024.

L'immagine mostra una spiaggia al tramonto, con il cielo che presenta nuvole scure e toni arancioni. Sulla spiaggia si trovano diverse tende e strutture, probabilmente utilizzate come rifugi temporanei. L'acqua del mare appare calma, e ci sono alcune persone in lontananza che camminano lungo la riva. In primo piano, si può vedere una parte di spiaggia con sabbia e un piccolo corso d'acqua che scorre. L'atmosfera sembrerebbe evocare un momento di transizione, sia dal punto di vista naturale che umano.
Deir al-Balah, 22 gennaio 2025. Uno sfollato palestinese giace sulla sabbia vicino a tende usate come rifugi temporanei.
EYAD BABA / AFP

Domenica 2 febbraio 2025.

Il passaggio verso nord è aperto da più di dieci giorni. Chi va a piedi può prendere la strada costiera e chi in va in auto la strada di Salah al-Din, l’arteria principale di Gaza.

A Deir al-Balah non c’è quasi più nessuno. La mia tenda è ora l’unica nell’appezzamento cinto da muretti, dove l’ho piantata. La famiglia del mio amico Hassoun, i suoi zii e le sue zie, sono tutti partiti per Gaza City, dove abitavano prima. Intorno al nostro terreno, il campo informale che si estendeva fino al mare è stato completamente svuotato.

È un po’ strano non sentire più il continuo vociare delle migliaia di persone che erano lì, scandito dalle grida dei bambini, dalle voci delle donne e a volte dagli insulti per qualche discussione. Era come un gigantesco mercato, ventiquattr’ore al giorno. E poi, all’improvviso, la calma. Il silenzio. Sabah e i bambini sono destabilizzati. Si sentono come se fossero in mezzo al deserto. Eppure, c’è vita. Iniziamo a vedere le talpe che tirano la testa fuori dal terreno per godersi per la prima volta un po’ calma dall’inizio della guerra.

“Godersi di nuovo il mare”

La normalità era diventata anormale. La normalità in questo posto è la calma, la vita sulla spiaggia, i tramonti all’orizzonte. L’avevamo dimenticato. Però, non siamo tornati completamente alla normalità. Le decine di migliaia di sfollati hanno lasciato il segno. Piazzole disegnate sulla sabbia, a volte delimitate da sacchi di sabbia. Pezzi di stoffa che volano al vento: vestiti abbandonati, vecchie lenzuola o coperte logore che venivano utilizzate come recinzioni di fortuna per proteggere gli spazi familiari dagli sguardi indiscreti. Ma possono ancora servire: la gente viene a raccoglierli, li useranno per accendere il fuoco nei loro forni di argilla.

La vita quotidiana è diventata più complicata perché il nostro luogo di residenza è tornato ad essere quello di prima: un luogo di svago lontano dalla città, dove si trovavano gli “chalet” per le vacanze. Il nostro terreno era destinato ad ospitarne uno, ma ce n’erano già due nelle vicinanze, uno dei quali era occupato da una Ong francese. Le famiglie affittavano queste villette, spesso con piscina, per trascorrere qualche giorno vicino al mare in tutta tranquillità.

Con la partenza degli sfollati, abbiamo riscoperto il paesaggio. Ho fatto quasi metà del percorso a piedi e questo mi ha permesso di godere di nuovo del mare. Durante la guerra non si vedeva dalla strada costiera, il mare era nascosto dai teloni degli accampamenti di fortuna. Lo si intravedeva un po’ quando si viaggiava in piedi sui carri bestiame. Durante il viaggio, il paesaggio era lo stesso che vedevo dalla mia tenda: chilometri di spazzatura, a perdita d’occhio. La gente ha lasciato tutto alle spalle. Le piazzole per le tende sono segnate sulla sabbia, i parapetti con sacchi di sabbia contro le maree e le inondazioni sono ancora visibili, così come le buche che fungevano da rete fognaria.

Ora si trova di tutto

Non ci sono più i venditori ambulanti. Ai lati della strada costiera, vendevano di tutto e di più in chioschetti improvvisati. Anche loro erano degli sfollati, ed ora sono andati tutti via. Per comprare qualsiasi cosa, bisogna andare in centro, abbastanza lontano dal nostro piccolo pezzo di deserto. Laggiù, ora, si trovano negozi di alimentari e mini-market con scaffali ben forniti. Per gli israeliani, è tutta merce che proviene dagli aiuti umanitari, ma in realtà una buona metà di quelle merci viene importata dai commercianti che hanno il permesso di entrare nella Striscia di Gaza, o semplicemente prelevata dalle scorte dei commercianti che le conservavano per far salire i prezzi.

Ad ogni modo, si può trovare di tutto ora. Walid ha mangiato cioccolata a sazietà. Gli era mancata così tanto, come ai suoi fratelli, che non riuscivo a impedirgli di mangiarla, ne ho portato persino intere scatole. Si trovano anche dei succhi di frutta, e Walid può finalmente bere il suo succo di mango preferito. I prezzi sono notevolmente calati. Qualche prodotto è addirittura tornato ai prezzi di prima della guerra; altri, come il pollo e la carne, costano ancora da cinque a otto volte il prezzo normale, ma è un enorme passo avanti rispetto al prezzo esorbitante che avevano prima del cessate il fuoco. D’altra parte, il contante continua a scarseggiare. Alcuni commercianti accettano di nuovo le carte di credito, ma gran parte dei beni e dei servizi, come i viaggi sul carro bestiame, bisogna ancora pagarli in contanti. Le filiali delle banche cominciano a riaprire, ma non possono erogare banconote. Secondo l’Autorità monetaria, una sorta di Banca Centrale della Palestina, durante la guerra sono stati rubati più di 180 milioni di dollari in banconote dalla principale banca di Gaza. Di conseguenza, le banche sono caute nel reintrodurre il contante nel paese. Negli ultimi due o tre giorni, non sono riuscito a trovare una sola banconota, nemmeno dai cambiavalute che prendevano dal 30 al 35% di commissione su un bonifico dal mio conto a Ramallah.

Gli spostamenti sono diventati davvero difficili. Ci sono molti meno carri bestiame. Le carrette trainate da asini o vecchie auto, che erano diventate gli omnibus di Gaza, vengono ora utilizzati per riportare gli sfollati al nord. Per arrivare da casa mia alla Press House-Palestine nel centro di Deir al-Balah, a volte mi tocca aspettare un’ora prima di trovare un mezzo di trasporto. E il prezzo è aumentato visto che se ne trovano pochissimi.

“Se dove ti trovi hai l’acqua, resta lì”

Ma quello che ci chiediamo è: dobbiamo partire anche noi? Come sapete, la nostra torre a Gaza City è miracolosamente sfuggita alla distruzione, e i nostri amici ci hanno mandato dei video mentre ripuliscono il nostro appartamento, che è più o meno in buone condizioni. Ma quelli che sono tornati mi dicono tutti la stessa cosa: “Rami, se dove ti trovi hai l’acqua, resta lì”. Loro, invece, hanno perso tutto, le loro case sono state distrutte, non riescono a trovare un posto dove piantare la tenda, ma il problema più grande è la mancanza d’acqua. “Non parliamo solo dell’acqua potabile, ma dell’acqua in generale, per le necessità quotidiane”.

In questa zona devastata del nord, manca anche l’energia elettrica. Un altro dei miei amici mi ha detto:

Per caricare il telefono, devo camminare per tre chilometri. Dove mi trovo, nel campo di Tell al-Zaʿtar, e non più a Jabaliya, non si trovano più queste piccole attività commerciali con pannelli solari per ricaricare i nostri apparecchi. Sono stati tutti distrutti dagli israeliani. E, in ogni caso, è molto difficile captare la rete della compagnia palestinese Jawal, quindi la maggior parte delle persone utilizza le schede e-SIM, per avere un po’ di internet, ma bisogna comunque potersi avvicinare al confine per captare una rete israeliana.

Ho avuto notizie del mio amico Hassoun, il proprietario del terreno su cui è piantata la nostra tenda. Anche lui è riuscito a ritrovare il suo appartamento, più o meno intatto, custodito da una famiglia vicina che si era trasferita e se ne era presa cura. “Ero così felice di ritrovare il mio letto”, mi ha raccontato Hassoun, “che mi sono addormentato subito per risvegliarmi quattro ore dopo. Queste quattro ore di vero sonno hanno compensato i quindici mesi di insonnia del nostro esilio al sud”. Mi ha anche detto che il quartiere è molto cambiato: “C’è tanta gente che non conosciamo, ci sono tensioni, a volte litigi, battibecchi. Sono tutti nervosi. Non riconoscerai Gaza. È completamente distrutta e anche la gente è cambiata”. Ho risposto: “Hassoun, anche noi siamo cambiati. La guerra ci ha cambiato tutti. Lo vediamo negli altri, ma non lo vediamo in noi stessi”.

Eppure, non tutto è sparito: “A volte si può ritrovare l’atmosfera di prima. Ieri, ho passato la notte intorno al fuoco, a bere caffè e tè e a chiacchierare con gli amici. Ero felice”. Mi ha anche consigliato di non tornare subito a casa, per la mancanza d’acqua:

Abito al piano terra, posso installare una cisterna. Ma chi abita ai piani superiori dovrà portare su l’acqua con i recipienti. E man mano che arriverà sempre più gente, ci sarà sempre più consumo. Ma l’acqua corrente non arriva sempre.

“Come adattarsi alla nuova vita”

Per l’energia elettrica, le aziende private stanno iniziando a installare dei grandi generatori, come facevano prima della guerra. Portano i cavi fino alle case, vendendo l’energia elettrica cinque volte il prezzo normale, sperando di avere abbastanza carburante per far funzionare i generatori.

Gaza oggi somiglia a ciò che era il sud all’inizio della guerra: gli sfollati che sono tornati hanno trovato una zona deserta, dove devono escogitare delle soluzioni per l’acqua e l’energia elettrica, creare negozietti ambulanti, ecc. Sono comparse piccole rivendite, punti dove è possibile ricaricare il cellulare... Gli sfollati trasmetteranno i loro espedienti agli abitanti rimasti sul posto. Spiegheranno come adattarsi alla loro nuova vita. Sarà molto dura.

Tutti i membri della famiglia di Sabah sono tornati, ma non hanno più nulla. La casa di suo padre nel distretto di Shujaiya non esiste più. Non possono nemmeno piantare una tenda accanto alle macerie, perché la casa distrutta ora è stata inserita in una nuova “zona cuscinetto” proibita, tra la Striscia di Gaza e il muro israeliano. Anche le case dei cognati di Sabah sono state distrutte. Per il momento, vivono da amici o parenti.

La differenza con il sud è che a Gaza City non c’è abbastanza spazio per ospitare centinaia di migliaia di persone nei campi, con tende in mezzo alle rovine. E gli aiuti umanitari sono ancora insufficienti e, per il momento, si limitano alle derrate alimentari. Inoltre, rappresentano solo un terzo delle importazioni, il resto lo assicura il settore privato, e quindi commerciale. Ma c’è un immenso bisogno di alloggi. Al momento in cui scrivo, gli israeliani vietano ancora l’uso delle cisterne. Non sono riuscito a trovare né un rubinetto per sostituire quello rotto, né dei vetri per le finestre.

È l’inizio della non-vita. La vita normale non riprenderà. Gli israeliani non hanno alcuna intenzione di ricostruire Gaza, forti della dichiarazione di Trump di voler “fare pulizia” all’interno dell’enclave. L’obiettivo di Israele è quello di rendere talmente impossibile la vita agli abitanti di Gaza da indurli ad accettare di andare in esilio per motivi “umanitari”. Soprattutto i giovani, a cui si farà presto capire che non hanno un futuro qui.

Sabah ed io abbiamo deciso di rimanere ancora un po’ a Deir al-Balah. Dobbiamo solo aspettare che gli ingorghi vengano decongestionati sulla strada di Salah al-Din e vedere se il problema dell’acqua nel nostro edificio è risolto. Non posso salire su con due taniche da 20 chili l’una per nove piani, e in ogni caso, non basterebbero per le necessità più essenziali, soprattutto all’inizio quando si dovrà pulire e lavare tutto, lenzuola, coperte, ecc. Vedremo se possiamo resistere da soli nel deserto, o trovare un appartamento, a Deir al-Balah o altrove, in attesa di vedere come evolverà la situazione.

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