Diario da Gaza 106

“Riconoscere uno Stato palestinese significa riconoscere qualcuno che sta morendo”

Rami Abu Jamous scrive il suo diario per Orient XXI. Giornalista fondatore di GazaPress, un’agenzia di stampa che forniva aiuto e traduzioni ai giornalisti occidentali, Rami ha dovuto lasciare il suo appartamento a Gaza con la moglie e il figlio Walid di due anni e mezzo. Rifugiatisi a Rafah, la famiglia è stata poi costretta a un nuovo esilio prima a Deir al-Balah, poi a Nuseirat, bloccata come tante famiglie in questa enclave miserabile e sovraffollata. Un mese e mezzo dopo l’annuncio del cessate il fuoco, Rami è finalmente tornato a casa con la moglie, Walid e il figlio appena nato, Ramzi. Per il suo Diario da Gaza, Rami ha ricevuto tre importanti riconoscimenti al premio Bayeux per i corrispondenti di guerra. Questo spazio gli è dedicato dal 28 febbraio 2024.

Una fila di persone in silhouette, una bambina con una luce al centro, in un'atmosfera misteriosa.
Striscia di Gaza, 13 settembre 2025. I palestinesi sfollati che evacuano da Gaza City verso sud si spostano a piedi e su veicoli lungo la strada costiera a Nuseirat, nella parte centrale della Striscia di Gaza.
Eyad Baba / AFP

Molti mi chiedono la mia opinione, e quella dei palestinesi di Gaza, sul riconoscimento dello Stato palestinese da parte del Regno Unito, del Canada e dell’Australia, e in ultimo della Francia. L’opinione dei palestinesi di Gaza? Vivono immersi in una condizione di sofferenza. I gazawi non riescono nemmeno ad alzare la testa da questo mare di sofferenza per capire quello che sta succedendo intorno a loro. Non sanno nemmeno che alcuni Paesi occidentali hanno riconosciuto uno Stato palestinese.

E anche se lo sapessero, probabilmente sarebbe poco importante per loro. In migliaia cercano di fuggire e di trovare riparo, sotto i bombardamenti, in mezzo a massacri senza fine. Intere famiglie vivono la tragedia della povertà. Sono senza soldi. Sono costrette a vendere i gioielli delle loro donne. A vendere tutti i loro beni. Solo per pagare la loro fuga. Per andare dove? Non lo sanno nemmeno loro.

Non si era mai visto nulla di simile: pagare migliaia di dollari per ritrovarsi per strada. Un tuffo nella miseria che costa circa 5.000 dollari (circa 4.240 euro), per il mezzo di trasporto, l’affitto di un pezzo di terra a sud e l’acquisto di una tenda o di un telone. In molti dividono le spese per il noleggio di un camion, fino a sei famiglie per veicolo. Inutile dire che possono portare con sé solo lo stretto necessario.

Chi parte va incontro alla morte

Chadli, il mio vicino dell’undicesimo piano, ha voluto portare via tutto. Quando gli israeliani hanno iniziato a bombardare le torri, è partito per il sud con tutta la sua famiglia e tutti i suoi beni: letti, mobili... Persino le porte, per ricavarne della legna da ardere. Il trasporto in camion gli è costato una fortuna. Chadli ha avuto la fortuna di trovare un appartamento in un residence, negli edifici di Ayn Jalut, vicino a Nuseirat.

Un’ora dopo il loro arrivo, hanno ricevuto telefonicamente l’ordine di evacuare. L’edificio è stato poi bombardato. Per fortuna, Chadli abitava al primo piano e ad essere distrutti sono stati solo i piani superiori. Chadli è rimasto nel suo appartamento, dove comunque ci sono stati molti danni. Ora sta cercando un altro posto dove rifugiarsi. Finora senza successo. Recentemente ho parlato al telefono con sua moglie che mi ha detto: “Non abbiamo scelta, resteremo qui ad aspettare. Non sappiamo cosa fare dopo, né abbiamo un posto dove andare”.

È un esempio che dimostra che non c’è nessun posto sicuro nella Striscia di Gaza. Chi parte va incontro alla morte. Le uniche scelte sono l’ora e il modo di morire. Molti altri fuggono verso sud a piedi, con la paura, nel panico, perché non riescono a trovare né camion, né posti dove sistemarsi. È un lento sprofondare in una morte lenta e silenziosa. Riconoscere uno Stato palestinese significa riconoscere qualcuno che sta morendo. Quello che ti dicono è: “Ecco, ti riconosciamo, ora puoi spegnerti serenamente. Puoi spegnerti con orgoglio, perché alla fine, dopo 70 anni, ti riconosciamo”. È davvero la cosa peggiore che si possa sentire: “Ti chiami Palestina, ti facciamo una bella cerimonia d’addio, puoi scomparire”.

L’occupato sta scomparendo

Finora questi Paesi occidentali hanno riconosciuto l’occupante, ma non l’occupato. È positivo che finalmente riconoscano anche l’occupato, ma l’occupato sta scomparendo e loro non fanno nulla per impedirlo. Sanno che stiamo morendo, che veniamo deportati, perché lo dichiara apertamente anche lo stesso occupante. L’Europa e gli altri Paesi sanno che è in atto un genocidio, ma si accontentano di “riconoscerci”. Ora puoi andartene, perché non faremo nulla per impedire la tua morte.

Dal canto loro, i gazawi pensano solo a sopravvivere un giorno in più. Negli ultimi giorni, la fuga verso sud non si è arrestata. Fiumi di camion stanno sfilando per le strade di Gaza. Il loro carico supera i tre o quattro metri di altezza, il che spiega a volte le interruzioni di Internet: vengono regolarmente strappati i cavi tesi da un lato all’altro della strada. Dopo l’apertura per 48 ore dell’asse principale nord-sud, la strada Salah al-Din, i bombardamenti sono ripresi a est e a sud della città. Gaza si sta lentamente svuotando.

Poco fa, gli israeliani hanno lanciato dei volantini proprio vicino casa mia, nei pressi della rotonda Ansar. È arrivato l’ordine di andare verso sud. In molti vogliono andarsene, ma non ne hanno i mezzi. Altri hanno i mezzi, ma non vogliono partire. Spesso, chi ha intenzione di restare ha già vissuto sulla propria pelle lo sfollamento e la vita in tenda e sa quanto sia terribile. Al contrario, molti di quelli che vogliono partire sono rimasti a Gaza City fin dall’inizio e non possono immaginare cosa li aspetta. A sud non c’è più un posto libero.

Solo ieri non c’erano truppe israeliane sul terreno nella mia zona. Ma ci sono interi quartieri che si stanno svuotando sotto il fuoco dei quadricotteri, quei droni armati che prendono di mira le persone e che spesso precedono bombardamenti massicci. Ci sono anche i blindati telecomandati, veicoli trasformati in bombe su ruote, che esplodono un po’ ovunque. Il primo obiettivo restano sempre i luoghi che ospitano gli sfollati, le scuole o i campi di fortuna.

La bussola del quartiere

Negli ultimi giorni, i massacri sono continuati nei quartieri di Al-Shati nord e Sabra, tra gli altri. Intere famiglie sono rimaste vittime nel bombardamento delle loro case, a Gaza City come nel sud. Io e la mia famiglia siamo ancora a casa nostra, nella nostra torre. Intorno a noi, la gente non sa cosa fare. Così alla fine siamo arrivati a quello che temevo: sono diventato una sorta di bussola del quartiere. Tutti mi chiedono: resti o vai via?

So che se decido di restare, in molti decideranno di restare. Se decido di andare via, saranno in molti ad andare via. È una responsabilità troppo grande. Non voglio che la gente resti a casa solo perché io decido di non muovermi, portando il peso di ciò che potrebbe accadere loro.

Molti di quelli che sono partiti verso sud sono stati uccisi, massacrati. Non esiste una “zona umanitaria” nel sud, contrariamente a quanto sostengono gli israeliani. Rispetto al solito, c’è un maggior uso della forza che mira a sfollarci tutti, a deportarci all’estero. Al momento, non so come si evolverà la situazione, non ne ho idea. Spero solo che presto si possa mettere fine a tutto questo.

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