Diario da Gaza 41

“Sei costretto a radere la testa di tuo figlio, come se dovesse partire per l’esercito”

Rami Abu Jamous scrive il suo diario per Orient XXI. Giornalista fondatore di GazaPress, un’agenzia di stampa che forniva aiuto e traduzioni ai giornalisti occidentali, Rami ha dovuto lasciare il suo appartamento a Gaza con la moglie e il figlio Walid di due anni e mezzo. Rifugiatisi a Rafah, Rami e la sua famiglia sono stati costretti a un nuovo esilio interno, bloccati come tante famiglie in questa enclave miserabile e sovraffollata. Questo spazio gli è dedicato dal 28 febbraio 2024.

L'immagine mostra un gruppo di bambini e una ragazza seduti all'aperto, in un ambiente semplice. Una donna, vestita con un abito scuro, è intento a pettinare i capelli di un'altra ragazza, che sembra concentrata. Altri bambini sono presenti, alcuni giocano con un palloncino e altri osservano con interesse. Sullo sfondo, si possono vedere vestiti appesi e un ambiente rustico con pietre e teli. L'atmosfera sembra informale e familiare.
Rafah, 31 maggio 2024. Una donna controlla i pidocchi nei capelli di sua figlia in un campo temporaneo per sfollati palestinesi.
EYAD BABA / AFP

Martedì 16 luglio 2024.

Ieri sono stato al mercato di Deir el-Balah. Come sapete, abito lungo la strada costiera. Per fare la spesa devo andare al grande mercato del centro, dove si possono trovare frutta e verdura importate da imprenditori privati. Noi che veniamo dal sud della Striscia possiamo considerarci dei privilegiati perché gli israeliani concedono l’autorizzazione ai commercianti di Gaza di importare merci dalla Cisgiordania o da Israele. Cosa che non avviene nel nord della Striscia, che è stata divisa in due dall’esercito. A Gaza City c’è una grave carestia, sono circa 3 mesi che la gente non vede né frutta, né verdura.

Ma c’è un’altra carenza, di cui si parla poco. Al mercato ho incontrato un amico, e mi ha sorpreso vederlo con la testa completamente rasata, mentre solitamente ha l’abitudine di portare i capelli lunghi. Gli ho chiesto: “Ma perché l’hai fatto?”. E lui mi ha risposto: “Perché non si trova più lo shampoo”. E lì, mi sono ricordato che dal primo giorno di guerra gli israeliani hanno vietato l’ingresso di qualsiasi prodotto per l’igiene personale.

C’è una sola risposta: l’umiliazione

Praticamente, è da 9 mesi che nessuno di questi prodotti può entrare nella Striscia di Gaza, salvo una piccolissima quantità entrata grazie a qualche camion di aiuti umanitari, quando il valico di Rafah era ancora aperto. E quando parlo di prodotti per l’igiene, intendo un’intera gamma: sapone, shampoo, bagnoschiuma, dentifricio, pannolini, carta igienica... ma anche prodotti per la casa, detergenti, detersivi per i piatti, per il bucato, ecc. A volte è possibile trovare una piccola saponetta, o un flacone di shampoo, ma a prezzi esorbitanti. Lo shampoo, ad esempio, è passato da 10 a 100, a volte 120 shekel (30 euro). In ogni caso, sono pochissime le persone che possono permettersi di acquistarlo a quelle cifre.

Mi chiedo: per quale motivo gli israeliani vietano questi prodotti? Prima della guerra, durante l’embargo, impedivano l’ingresso di materiale “a duplice uso”, come la ferraglia che può essere utilizzata per la fabbricazione di razzi. Ma in questo caso, non riesco a trovare una risposta razionale. La motivazione può essere una sola: l’umiliazione. All’umiliazione di morire sotto le macerie, di morire dentro e fuori casa, di vivere sotto tendoni in accampamenti di fortuna, si aggiunge anche quella di non potersi lavare, né la testa né il corpo, né i propri vestiti. Gli israeliani vogliono umiliarci come popolo, e non c’è umiliazione peggiore del negare la pulizia e l’igiene personale. Cosa c’è di più peggio per le donne dell’assenza di assorbenti igienici?

Quindi, come al solito, abbiamo usato la nostra proverbiale arte di arrangiarci. Le donne usano pezzi di stoffa, vecchie magliette o qualsiasi altra cosa, che tagliano a quadratini. Per avere shampoo e sapone, mescoliamo un prodotto ancora in commercio, chiamato “hita”, con dell’amido di mais e un po’ di sale, e otteniamo così una specie di sapone che non ha alcun odore, ma non lava però come un vero sapone. Non si trovano più lamette, schiuma da barba, deodoranti o profumi, è tutto vietato. Per una confezione da 30 pannolini ci vogliono 400 shekel (100 dollari), rispetto ai 25 shekel (6,25 dollari) di prima della guerra. Molti si arrangiano utilizzando ritagli di stoffa e pezzi di vecchi vestiti.

Anche gli utensili da cucina

Questa situazione ci porta a uno stato tale che trovare del sapone o fare una doccia, lavarci i denti, lavare i vestiti, passa in secondo piano perché la priorità è sopravvivere. Dobbiamo pensare a come trovare qualche soldo per comprare un po’ di pane, un po’ di latte e del cibo per i bambini. La guerra non è solo bombardamenti, massacri e spargimenti di sangue. Vivere nell’umiliazione è ancora peggio, ed è proprio quello a cui ci stanno costringendo gli israeliani. Tutto ciò che serve alla pulizia e all’igiene non esiste più. Lo fanno apposta. Ecco perché ora si vede in giro molta più gente con la barba, perché nessuno riesce a trovare lamette per radersi e andare dal barbiere. Molti amici hanno rasato i capelli dei loro figli per paura dei pidocchi e delle malattie dermatologiche. Anche questa è un’umiliazione. Prima eri orgoglioso dei bei capelli di tuo figlio e ora sei costretto a radergli la testa, come dovesse partire per l’esercito.

Stesso discorso per la carta igienica, a Gaza non se ne trova quasi più e il 90% della popolazione non può permettersi di comprarla. Prima, una confezione da circa 30 rotoli costava 20 shekel (5 dollari ), ora è il prezzo di un singolo rotolo. Anche qui si ricorre all’arte di arrangiarsi, usando fogli di carta, ritagli di stoffa, pezzi di magliette, vecchi vestiti inutilizzabili che vengono tagliati a quadrati.

Oltre ai prodotti per l’igiene, gli israeliani vietano anche di importare qualsiasi utensile da cucina. Non si riesce nemmeno a trovare un cucchiaio, una forchetta o un piatto al mercato. Tutto quello che c’era è stato comprato dagli sfollati. Per vivere in una tenda, c’è bisogno di piatti. Molte persone mangiano con le mani, direttamente dalla padella. Gli israeliani lo fanno per far sentire la miseria in ogni momento. Prima, anche sotto assedio, vivevamo in un mondo moderno. In ogni casa c’era una lavatrice, un frigorifero, ecc. Oggi siamo tornati alla vita del Medioevo dove si mangia con le mani, ci si accontenta di un po’ d’acqua per lavarsi e pulirsi; dove si usano ritagli di stoffa anche per cambiare i bambini. Ci strofiniamo con le pietre, come si faceva un tempo. Si cucina con il fuoco a legna, si pulisce con dell’acqua. Prima, a Gaza, l’igiene era la prima cosa. Oggi è l’ultimo pensiero.

I massacri sono quasi visti come normale routine

Mi vergogno a dover parlare di tutto questo, ma voglio che la gente sappia come siamo costretti a vivere, come gli israeliani ci stanno umiliando, senza che nessuno dica una parola. La comunità internazionale si limita a ripetere che Israele “ha il diritto di difendersi”. Ma nessuno chiede agli israeliani per quale motivo si rifiutano di far entrare prodotti per l’igiene. E inoltre i massacri sono visti come normale routine, quasi fossero incidenti stradali.

La priorità oggi è dare da mangiare alla propria famiglia. E sto parlando della metà di popolazione che si trova a sud della Striscia, dove oggi sono con la mia famiglia. Qui non c’è carestia, ma c’è malnutrizione. Si mangia soprattutto cibo in scatola. Ogni tanto si fa entrare un po’ di frutta e verdura, ma sono in pochi a potersela permettere. Da quando il valico di Rafah è stato chiuso, non sono più arrivati gli aiuti alimentari. Nessuno ha più soldi. Chi aveva messo un po’ di soldi da parte, ormai ha speso tutto. Tutti cercano di guadagnare qualcosa facendo i venditori ambulanti, vendendo biscotti per esempio, trovando qualche lavoretto saltuario o guidando un taxi. Lo fanno solo per trovare qualcosa da mangiare. La necessità è quella di sopravvivere, trovare un posto dove dormire con la propria famiglia e qualcosa da mangiare.

Dall’inizio della guerra sono vietati anche i vestiti. Io, ad esempio, indosso le stesse due magliette e gli stessi pantaloni da quando ho lasciato Gaza City. Se si trova qualche vestito, è ovviamente troppo caro. Noi adulti possiamo avere cura dei nostri vestiti, ma per i bambini è più difficile, e soprattutto per i neonati che devono essere cambiati tre volte al giorno. Io mi ritengo fortunato perché ho amici che a volte riescono a mandarmi vestiti per Walid e per i ragazzi. Ma gli altri non possono contare su molte risorse, e così la maggior parte dei bambini indossa abiti logori che hanno perso colore nel tempo per i continui lavaggi.

La soluzione che hanno trovato le donne è quella di indossare sempre il loro abito da preghiera. È una specie di velo che avvolge tutto il corpo, dalla testa ai piedi. Normalmente lo si indossa solo a casa, quando si prega, ma non fuori casa. Oggi però si vedono tutte le donne vestite in questo modo, perché non hanno nient’altro da indossare. Il divieto nella Striscia di Gaza viene esteso anche alle scarpe. Io ne ho solo un paio. Lo stesso vale per i bambini. Non si trovano nemmeno dei sandali infradito. I bambini ne indossano paia strappate a metà. Quando eravamo ancora a Rafah, in due occasioni sono riuscito a comprare scarpe e infradito per i bambini, ma a prezzi molto alti. E quando si rompono, non possiamo trovarne degli altri. Due milioni e 300mila persone si trovano nella stessa situazione: senza vestiti, senza scarpe, senza prodotti per l’igiene o utensili da cucina. Non hanno nulla.

Il mondo non sa come viviamo, né come moriamo. Nel nord della Striscia di Gaza, la gente muore di fame. L’arma della fame sta cominciando a funzionare. In molti stanno lasciando Gaza City e il nord della Striscia di Gaza per fuggire verso sud. Non fuggono dai bombardamenti, ma dalla fame. Vengono qui nella speranza di trovare qualcosa in più da mangiare, è questa la cosa grave. E arriviamo sempre alla stessa conclusione: l’umiliazione, ancora, sempre. La loro intenzione è quella di umiliare l’intera popolazione di Gaza con ogni mezzo.

Il pretesto della guerra è quello di sradicare Hamas. Ma cosa c’entra questo con il divieto di lavarsi e vestirsi? In realtà, questa guerra non ha nulla a che fare con Hamas. Per gli israeliani, Hamas è solo lo spauracchio da agitare per sbarazzarsi di tutta la popolazione palestinese, e soprattutto di quella che vive nella Striscia di Gaza, perché non resti più lì. All’inizio della guerra si parlava di un “trasferimento” nel deserto del Sinai, o di altri scenari simili. Ora penso che il progetto di trasferimento sia già in corso, ma in maniera lenta, graduale. Gli israeliani non hanno alcuna intenzione di spingerci in massa verso il Sinai, verso i loro carri armati. Quando finirà la guerra, basterà solo aprire le porte del valico di Rafah, e tutti se ne andranno via. La gente vuole che i loro figli abbiano un’istruzione migliore, una vita migliore. Purtroppo, a Gaza, gli israeliani non stanno uccidendo solo esseri umani, ma anche la vita.