Diario da Gaza 14

“Stiamo morendo sotto le stesse bombe che hanno ucciso gli operatori umanitari del WCK

Rami Abu Jamous scrive il suo diario per Orient XXI.. Giornalista fondatore di GazaPress, un’agenzia di stampa che forniva aiuto e traduzioni ai giornalisti occidentali, Rami ha dovuto lasciare il suo appartamento a Gaza con la moglie e il figlio Walid di due anni e mezzo. Ora condivide un appartamento con due camere da letto con un’altra famiglia. Nel suo diario, racconta la sua vita quotidiana e quella degli abitanti di Gaza a Rafah, bloccati in questa enclave miserabile e sovraffollata. Questo spazio è dedicato a lui.

Gaza, 20 marzo 2024. Squadre della ONG World Central Kitchen (WCK) inviano la loro prima spedizione di aiuti umanitari via mare.
@WCKitchen/X.

Giovedì 5 aprile 2024.

Martedì ho trascorso l’intera giornata al valico di Rafah che collega la Striscia di Gaza con l’Egitto. Il terminal è diviso in due parti: una palestinese, l’altra egiziana. Dal lato palestinese, c’è la polizia di Hamas che controlla e mantiene un po’ di ordine per far passare la gente in Egitto. Ero lì con un amico che voleva lasciare Gaza perché non ce la faceva più, e anche perché ha paura della macchina da guerra israeliana. Le sue paure sono fondate, visto quello che sta succedendo qui, anche in attesa di un’eventuale incursione di terra a Rafah. È chiaro cosa significherebbe un’incursione di terra. Già viviamo incessantemente sotto i bombardamenti, ma un’incursione sarebbe un terremoto in grado di distruggere l’intera città di Rafah, come hanno fatto a nord con Gaza City, o con i continui massacri e la carneficina in atto.

Vorrei solo chiarire come stanno le cose. Non è come in Europa dove le frontiere sono aperte 24 ore su 24 e 7 giorni su 7, dove ci si può facilmente spostare da un paese all’altro, o dove c’è un semplice cartello che indica che si è entrati in un altro Stato.

“Prima della guerra, servivano 1.200 dollari per entrare in Egitto”

Qui è molto più complicato perché viviamo in una prigione a cielo aperto con due valichi per poter uscire: uno a nord, Erez, che collega Gaza a Israele; l’altro a sud, Rafah, per entrare in Egitto. Anche prima della guerra, era molto difficile lasciare Gaza. Bisognava dimostrare che si trattava di un trasferimento medico o avere un passaporto straniero, allora in questo caso si poteva andare in Egitto. Se si era in possesso di un visto per un paese europeo, ad esempio, si poteva andare direttamente all’aeroporto del Cairo. Altrimenti bisognava passare attraverso il “coordinamento”, vale a dire un sistema inventato dagli egiziani, una sorta di agenzia di viaggi chiamata Ya Hala (“Benvenuto” in arabo).

Prima della guerra, si doveva pagare circa 1.200 dollari a persona per avere quello che allora era chiamato un “VIP”. Ci si registrava direttamente con gli addetti dell’agenzia a Gaza, e due giorni dopo si poteva salire a bordo di un autobus privato diretto al valico egiziano, e poi in auto direttamente al Cairo.

Ora le cose sono cambiate. Per poter uscire, ci sono varie tipologie di liste. Innanzitutto, c’è la lista di chi ha un passaporto straniero o degli amici di quei paesi, o ancora persone che hanno lavorato per loro. Il ministero degli Affari Esteri di ogni paese invia i nomi al COGAT israeliano (Coordinamento delle attività governative nei Territori), che può rilasciare o meno l’autorizzazione all’espatrio. Ad esempio, la Francia è riuscita a far espatriare la maggior parte dei palestinesi con la doppia nazionalità, oltre a quelli che lavoravano per l’Istituto francese di Gaza1.

Ci vogliono settimane, a volte mesi, per ottenere il via libera dalle autorità israeliane. Tutti hanno sentito parlare di Ahmed Abu Shamla, un funzionario dell’Istituto francese che doveva partire con la sua famiglia. Gli israeliani però avevano concesso il permesso solo ad Ahmed, a sua moglie e al più giovane dei suoi quattro figli, non ai due più grandi. Così Ahmed ha deciso di rimanere con loro. Sfortunatamente, è morto nel corso di un raid aereo che ha colpito la casa dove si era rifugiato a Rafah. E guarda caso, due giorni dopo, gli israeliani hanno dato il via libera all’uscita della famiglia.

“Gli israeliani lasciano gestire agli egiziani il loro piccolo giro d’affari”

La seconda lista è quella dei palestinesi con nazionalità egiziana, che hanno la possibilità di andare direttamente in Egitto senza passare per il COGAT. La lista aggiornata di nomi viene stilata quasi ogni giorno.

La terza lista è quella dei feriti. Ce ne sono 70.000 e la maggior parte di loro necessita di cure all’estero perché non c’è più un sistema sanitario a Gaza a causa dei bombardamenti degli ospedali, soprattutto a Gaza City, e con l’ospedale Al-Shifa ridotto ormai in macerie. Molti feriti che potevano essere salvati sono morti.

La Mezzaluna Rossa Palestinese invia i nomi, ma sono gli israeliani a decidere, sempre col contagocce: non concedono che una trentina di autorizzazioni al giorno.

La quarta lista è la più importante, ed è a pagamento. In questo caso non occorre il consenso del COGAT: gli israeliani lasciano gestire agli egiziani il loro piccolo giro d’affari, oltre alla possibilità di fare loro la selezione. Solo che ora non bastano più 1.200 dollari, ma ne servono 5.000 a persona. Sì, 5.000 dollari per fuggire dall’inferno. Per chi ha meno di 16 anni, la cifra è di 2.500 dollari. Quindi una piccola famiglia – che per gli standard di Gaza è composta da due genitori e tre figli – deve sborsare almeno 20.000 dollari. Sono tanti quelli che si registrano all’agenzia egiziana. Ogni giorno escono tra le 250 e le 300 persone con questo sistema. In altre parole, si tratta più o meno di 1 milione di dollari che esce ogni giorno da Gaza.

Come fa la gente a pagare? Alcuni usano tutti i loro risparmi, vendendo i loro gioielli. Ci sono anche tanti che fanno appello alla generosità pubblica con raccolte fondi online su GoFundMe o altri siti. Ho accompagnato personalmente un amico che ha pagato il doppio perché era “in lista”. Sono tanti come lui a Gaza. In teoria, non potrebbero entrare in Egitto... a meno che non paghino una cifra più alta. E così il mio amico ha finito per pagare 10.000 dollari per uscire dal paese.

“Famiglie che vivono al valico di Rafah da settimane, se non da mesi”

Purtroppo, io e il mio amico abbiamo trascorso l’intera giornata lì perché lui non è riuscito a passare, malgrado avesse già pagato. Il tipo dell’agenzia gli ha detto: “Proveremo un’altra volta, forse la prossima settimana andrà tutto liscio”. È una truffa? Può darsi. Spero almeno che il mio amico possa recuperare i suoi soldi nel caso non riesca a passare.

Per tutto il giorno ho visto gente arrivare qui per tentare la fortuna. Sempre con il sistema delle liste. A chi chiedeva delle spiegazioni, gli uomini di Hamas hanno risposto:

Siamo qui solo per controllare. Riceviamo degli elenchi. Se il tuo nome è nella lista, ti lasciamo passare. Se il tuo nome non è nell’elenco, non possiamo lasciarti passare.

Chi riceve il via libera sale su un autobus, che percorre qualche centinaio di metri fino al grande cancello che segna l’uscita dal territorio palestinese. Poi ancora una decina di metri nella no man’s land, quindi un nuovo varco: l’ingresso in Egitto. Dei soldati egiziani salgono sull’autobus per controllare i nomi sulla lista.

Cominciano a chiamare i nomi. Chi non è nell’elenco, deve scendere immediatamente. Qualcuno ha cercato di salire lo stesso, dicendo: “Possiamo cavarcela da soli con gli egiziani”. Purtroppo, non li hanno fatti a salire. Ho visto anche decine di famiglie con bambini che vivono al valico di Rafah da settimane, altre da mesi. C’era anche un signore che voleva partire per l’Australia. Ha vissuto per tutta la vita in Arabia Saudita ed è tornato a Gaza un anno fa. Mi ha detto che aveva speso quasi 200.000 dollari per comprare un’auto, un appartamento, e che voleva passare il resto dei suoi giorni a Gaza, perché era il luogo in cui era nata la sua famiglia. Martedì sperava di ottenere il visto per partire. Era sicuro che sarebbe stato pronto “nel giro di due o tre giorni”. Così lui e le figlie hanno passato notti intere in macchina, comprando lenzuola e mangiando solo prodotti in scatola e del pane. È convinto però che presto riusciranno a partire.

“Fa male vedere che alcuni esseri umani valgano più di altri”

Poi mi sono spinto fino al terminal merci. Normalmente non è consentito, ma i controlli non sono troppo rigidi. Mi sono ritrovato nella grande area dove gli operatori commerciali si occupano dello stoccaggio della merce. Arrivano dal valico israeliano di Kerem Shalom. Qui si ritrovano rivenditori e trasportatori del settore privato. Ci sono anche gli importatori che caricano la merce sui camion per trasportarla fino ai depositi. Spesso si portano dietro membri della famiglia o uomini che assoldano armati di bastoni, a volte con kalashnikov, per proteggere i depositi. E infine ci sono quelli che comprano le spedizioni. La vendita viene effettuata in loco. Chi compra può offrire un prezzo al rialzo del 20-30% per aggiudicarsi il carico.

Qui finiscono anche gli aiuti umanitari della Mezzaluna Rossa o delle Ong straniere. E sempre qui finiscono anche gli aiuti della World Central Kitchen (WCK), di cui 6 operatori occidentali e uno palestinese di Rafah sono stati uccisi in un attacco mirato degli israeliani. Mi rattrista profondamente veder morire persone che hanno fatto un viaggio di migliaia di chilometri per aiutare il popolo palestinese. È tragico che abbiamo subito la stessa sorte che tocca alla popolazione di Gaza. La conosco bene quella Ong. Non conoscevo personalmente i sei operatori, ma ne conosco tanti altri che stanno facendo lo stesso un ottimo lavoro. Mi sento male per quelle persone. Mi rattrista però che il mondo intero si sia mobilitato per quei sei operatori, mentre non ho visto la stessa mobilitazione per gli oltre 32.000 morti a Gaza.

La maggior parte delle vittime sono civili, bambini, donne. Fa davvero male vedere questa ingiustizia, fa davvero male vedere questo doppio standard, fa davvero male vedere che si facciano distinzioni tra esseri umani, che alcuni valgono molto più di altri. Un essere umano è un essere umano. Non abbiamo i capelli biondi o gli occhi azzurri, ma stiamo morendo sotto le stesse bombe che hanno ucciso gli operatori umanitari del WCK.

“Nulla avviene per caso con l’esercito israeliano”

Detto questo, forse questa mobilitazione cambierà le cose. Ci credo, lo spero, ma non ne sono certo. Nel 2021, gli israeliani hanno lanciato la moda di bombardare torri residenziali e uffici, edifici alti oltre 9 piani. Ne hanno bombardati 5 o 6. Stiamo parlando di 50-55 appartamenti, ossia 55 famiglie a cui gli israeliani hanno concesso solo 5 minuti per poter evacuare. Gli sfollati hanno avuto appena il tempo di prendere soldi e documenti.

Per settimane non c’è stata alcuna reazione da parte della “comunità internazionale”. Ma quando è stato distrutto il palazzo dove si trovavano gli uffici dell’agenzia Associated Press (AP), il mondo si è mobilitato. Biden ha chiamato personalmente gli israeliani per dire che stavano esagerando perché, dopo tutto, si trattava dell’ufficio dell’AP... E così gli israeliani hanno smesso di bombardare le torri.

Credo – o almeno lo spero – che la morte di questi operatori occidentali – che io considero martiri (così vengono definite dai palestinesi tutte le vittime causate dal colonialismo israeliano, NdT) perché sono morti per una buona causa – possa cambiare un po’ le cose. Che almeno possano arrivare un po’ più di aiuti umanitari a Gaza City e nel nord della Striscia.

Forse questo riuscirà a migliorare un po’ la vita dei 2,3 milioni di abitanti di Gaza. Gli israeliani sostengono che si sia trattato di un errore, ma è risaputo che nulla avviene per caso con l’esercito israeliano. Tutto è intenzionale, tutto è volontario, lo sanno tutti.

Ne parlerò in modo più dettagliato un altro giorno. Per ora l’unica conseguenza è che la WCK ha interrotto ogni attività a Gaza, mentre le altre Ong ora hanno paura. Sono giunte a un’ovvia conclusione: se sono morti gli operatori umanitari della WCK, che avevano buoni rapporti con gli israeliani e gli americani, oltre a un’estrema facilità nel far arrivare le merci a Gaza, potrebbe toccare la stessa sorte anche gli altri, che fanno fatica a coordinarsi con le forze israeliane. Oggi tutti sanno che nessuno è al sicuro

1Sono morti quattro diplomatici dell’Istituto francese a Gaza dall’inizio delle incursioni militari israeliane. Anche l’edificio in cui si trovava l’Istituto è stato colpito da un raid israeliano il 2 novembre 2023. [Ndr].