
Domenica 2 marzo 2025.
Questa volta, finalmente vi scrivo dal nostro appartamento a Gaza City!
Eccoci finalmente nel nostro appartamento al nono piano, accompagnati dal ronzio incessante dei droni, ancora più rumorosi per chi si trova ai piani alti. Venerdì, Sabah ed io abbiamo preso la decisione di tornare a casa. Il nostro esiguo bagaglio era già pronto: qualche borsa con dei vestiti che portiamo ad ogni viaggio, il pannello solare che avevo comprato quando eravamo a sud, con una batteria adattata, che ci permette di avere un po’ di luce e abbastanza energia elettrica per ricaricare i cellulari. Abbiamo lasciato i materassi e le coperte, perché sapevamo che, una volta a casa, avremmo trovato tutto il necessario. Alle 11 del mattino, ci siamo messi in viaggio sulla strada di Salah al-Din a bordo di una jeep noleggiata da un amico. L’altra grande arteria di Gaza, la strada costiera Al-Rashid, è chiusa al traffico.
Era una bella giornata di primavera dopo settimane di freddo e piovoso inverno. Da Nuseirat, dove avevamo affittato un piccolo appartamento, Gaza City dista solo dieci chilometri. Siamo arrivati subito al posto di blocco centrale, all’altezza del cosiddetto “corridoio di Netzarim”, che taglia in due la Striscia di Gaza, una zona a nord e una a sud. Ora la strada è aperta, ma si deve passare un posto di blocco. L’attesa può durare anche diverse ore. Noi siamo stati fortunati ad attendere solo un’ora e mezza nella fila dei veicoli carichi di bagagli.
“Benvenuti a Gaza”
Non abbiamo visto nessun soldato israeliano. Prima ci siamo imbattuti nei soldati egiziani con uniforme marrone e il volto mascherato, che fanno parte della cosiddetta “Commissione Qatar-Egitto” creata nell’ambito dell’accordo sul cessate il fuoco. L’agente egiziano, sporto verso la portiera dell’auto, si è mostrato amichevole: “Il viaggio è stato molto lungo?”. Il suo compito era controllare se c’erano armi a bordo, e farci aspettare un po’ per passare sotto un grande tornello bianco – uno scanner – accanto al quale stazionava un grosso fuoristrada americano, anch’esso bianco, munito di antenne paraboliche. Una volta superato lo scanner, ci hanno indirizzati verso una delle cinque corsie di ispezione, davanti alle quali ci attendeva un altro soldato egiziano, sorridente quanto il primo: “Tutto a posto?”. Nessuna perquisizione, è bastato solo aprire il bagagliaio e abbassare il finestrino. Il soldato ha guardato quante persone c’erano in macchina e ci ha dato una bottiglia d’acqua a testa. Ci ha offerto anche delle clementine, prima di augurarci “buon proseguimento” e “benvenuti a Gaza”. Tutto questo in un dialetto egiziano che noi usiamo ancora e che fa sempre sorridere chi vive a Gaza.
Tre metri più avanti, l’atmosfera è cambiata. La strada era fiancheggiata da argini su cui erano piantate torri di avvistamento che riparavano uomini dall’aspetto mercenario: magliette, tatuaggi e occhiali da sole. Altri erano piantati sul ciglio della strada e guardavano le auto, ma senza dire una parola. Erano gli israeliani – scusate, gli americani, è la stessa cosa – di una società privata, che controllavano il checkpoint con gli egiziani.
Come se ci fosse stato un enorme terremoto
Poi siamo entrati nel quartiere Zaytun di Gaza City. La strada, dissestata, era costeggiata a destra e a sinistra da terrapieni di forma quadrata su cui gli israeliani avevano posizionato i loro carri armati. Si vedevano tracce di cingolati ovunque. Queste ex postazioni militari sono diventate delle isole in un mare di macerie. L’entità della distruzione è inimmaginabile. Avevo visto le immagini sui social, ma come dicono qui, parlare non è come vedere. È come se ci fosse stato un enorme terremoto. Sono stati allestiti teloni e tende sui cumuli di macerie.
Dopo il quartiere di Zaytun, alla rotonda di Doula, abbiamo preso la strada 8, in direzione ovest. Non riuscivo nemmeno a riconoscere la strada. Le case, completamente distrutte, erano state raggruppate dalle ruspe per formare delle colline di macerie. Nessuno può più sapere dove si trova la propria casa. Ho continuato a guidare fino al quartiere di Tel al-Hawa, dove un tempo c’erano molti edifici. Anche qui la distruzione è totale: ci sono edifici rasi al suolo, altri semidistrutti, alcuni non hanno più gli ultimi piani, o sono spaccati in due, altri ancora sembrano millefoglie con i piani accatastati l’uno sull’altro. Infine, alla rotonda di Nuseirat, ho imboccato la via Charles de Gaulle, passando davanti al Centro Culturale Francese con il muro intatto e le bandiere francesi ed europee ancora sventolanti, ma con un fumo nero che si alzava dall’interno dell’edificio. Il centro è chiuso, pare che sia stato dato alle fiamme.
Il nostro edificio si trova in via Charles de Gaulle. È ancora in piedi, mentre l’edificio accanto è stato distrutto. É ancora in piedi, ma non è in buono stato. L’ultimo piano, colpito da molte granate quando eravamo ancora lì, non esiste più. Era il decimo piano, e noi viviamo al nono. Per miracolo, il nostro piano è più o meno ancora intatto, come mi hanno riferito i vicini rimasti lì. Quando sono arrivato davanti all’edificio, ho visto un assembramento: c’erano i nostri vicini, i nostri amici, quelli che erano rimasti nonostante gli ordini di evacuazione, chi è tornato prima di noi, come il nostro amico Hassoun che avevo avvertito del nostro ritorno. È stato lui a organizzare questo comitato di benvenuto. Ci siamo baciati ed abbracciati, felici di essere ancora vivi dopo il genocidio. Tanti bambini erano cresciuti, e non li vedevo da un anno e mezzo.
“Non voglio tornare nella villa”
All’ingresso dell’edificio, Umm Shahin (“la madre di Shahin”, una formula di cortesia per indicare una donna con il nome del figlio maggiore), che è un po’ la madre di tutti noi, ci aspettava. È una di quelle persone che non hanno lasciato Gaza City. Ad ogni incursione israeliana, Umm Shahin si rifugiava da qualche parte, e poi ritornava. Ha abbracciato Ramzi e Sabah. Era sorpresa di vedere quanto Walid fosse cresciuto. Siamo rimasti a parlare con tutti, a salutare quelli che arrivavano. Poi siamo saliti a piedi, perché mancava la corrente elettrica, e, in ogni caso, dopo il bombardamento del decimo piano, l’ascensore è ormai fuori uso. Al momento, vista la carenza di materiali, non si sa quando sarà possibile ripararlo.
Ad ogni piano, i vicini ci aspettavano per darci il benvenuto. Uno di loro, Fadi, un omone che tutti qui chiamano “baffone” ci aveva preparato un pollo al forno. Arrivati al nono piano, ho detto a Walid di aprire la porta. Ha dovuto spingere forte perché la porta era un po’ bloccata dopo il bombardamento.
Abbiamo trovato il nostro appartamento quasi come l’avevamo lasciato! Da quando è scattato il cessate il fuoco, i nostri amici si sono messi al lavoro e hanno ripulito tutto, rimettendo tutto a posto. Ero commosso da tanta attenzione, e li ho ringraziati dal profondo del cuore. Poi ho visto che Walid cercare di riallacciare i fili di un passato di cui non aveva più ricordo. Aveva due anni quando siamo stati costretti a partire, ma Sabah gli ha mostrato spesso i video che avevo girato prima di lasciare l’appartamento, come forma di ricordo. Ha visto il soggiorno, la stanza dove c’è la TV. Gli ho detto: “Non vuoi vedere la tua stanza?”. Non sapeva più dove fosse. Una volta dentro, ha visto i suoi giocattoli, la sua Mercedes elettrica, la sua moto elettrica, il suo trenino, i suoi amatissimi modellini di veicoli da lavoro, la sua betoniera, la sua ruspa... È saltato nella sua macchinina, che era un po’ impolverata e con la batteria scarica, ma mi ha chiesto di spingerla in modo che potesse guidare. Gli brillavano gli occhi, e mi ha detto: “Papà, questa è la nostra casa, non voglio più tornare alla villa”, riferendosi alla nostra tenda a Deir al-Balah. Ero così felice di vedere che si ricordava dei video e che si era riadattato così rapidamente a casa nostra! Si è arrampicato sul suo letto a castello e ha iniziato a saltarci sopra. Era la prima volta in un anno e mezzo che vedeva un letto.
“Qui cercheremo di voltare pagina nei confronti della guerra”
Anche la nostra camera è stata pulita da cima a fondo dai nostri amici. Avevano sostituito i vetri, che si erano tutti rotti, con del nylon che purtroppo ci impedisce di godere della vista panoramica sul mare. Quando l’ha visto Walid mi ha detto: “Papà, è tutto rotto! Chi è stato?”. Evito di parlare degli israeliani, così ha trovato un colpevole: “È stata la polizia!”.
Per me, il sollievo più grande è stato quando sono entrato nella nostra stanza e mi sono sdraiato sul letto. Per la prima volta, dopo un anno e mezzo, non dovevamo dormire su un materasso poggiato a terra. Di fronte al letto c’è un grande armadio a specchio. È stata anche la prima volta, dopo la nostra espulsione, che mi sono guardato allo specchio. Non mi sono riconosciuto subito in quest’uomo invecchiato, dall’aspetto stanco, con i capelli bianchi e le borse sotto gli occhi. L’immagine allo specchio ha innescato un flashback. Ho riavvolto mentalmente il film dall’inizio, dalla mattina del 7 ottobre 2023 fino al nostro ritorno di oggi: la nostra fuga sotto i proiettili dei cecchini israeliani, la nostra sistemazione a Rafah in un appartamento di due stanze condiviso con un’altra famiglia, poi di nuovo la fuga per piantare una tenda a Deir al-Balah dove la vita è diventata sempre più precaria, amici e familiari uccisi dalle bombe e dai droni, e poi un’ultima tappa in un altro appartamento preso in affitto, la nascita di Ramzi, l’ultimo arrivato nella nostra famiglia, simbolo di speranza... Anche Walid ha cominciato a guardarsi allo specchio. Era la prima volta in vita sua che aveva coscienza di vedersi in uno specchio. É stata una grande sorpresa. Lo guardavo con la coda dell’occhio. Si toccava il viso, i capelli, le mani, i piedi, stava cercando di scoprire sé stesso.
Naturalmente, il nostro appartamento non è più confortevole come una volta. Senza corrente elettrica, i condizionatori d’aria non funzionano più, né i due grandi schermi tv. Senza acqua corrente, non è possibile fare una vera doccia nei due bagni con vasca idromassaggio. Abbiamo ancora l’acqua perché Hassoun ha messo un grande serbatoio da 500 litri in cucina prima del nostro arrivo. Grazie a lui. È come vivere in un palazzo, ma un palazzo del Medioevo. Per fortuna, abbiamo ancora una bombola del gas per cucinare, ed è un grande progresso rispetto al forno d’argilla dove a volte venivano bruciato dei pezzi di plastica.
Ma tornare a casa è già una grande vittoria. Pensavo che non avrei mai più rivisto la nostra casa. Mi aspettavo un trasferimento all’estero, credevo che la nostra torre fosse stata distrutta, come quasi tutte le altre. Siamo stati molto fortunati.
Questa prima notte abbiamo dormito nel nostro lettone, tutti e tre insieme, con Walid in mezzo. Abbiamo dormito come dei neonati, e, tra l’altro, anche il bimbo non si è svegliato ogni mezz’ora come le notti passate.
Naturalmente, c’è sempre il ronzio dei droni. Walid pensa ancora che siano innocui, come gli ho fatto credere. E così mi chiede: “Papà, il drone verrà a trovarci, entrerà nel nostro appartamento”. E io gli rispondo: “Sì, verrà a giocare con te, come gli uccelli”.
Qui cercheremo di voltare pagina nei confronti della guerra. Certo, ci sarà sempre molte sofferenze, la non-vita, ma almeno siamo tra i sopravvissuti di questo genocidio. E la nostra famiglia è cresciuta. Siamo partiti in tre e siamo tornati in quattro. Siamo riusciti a uscirne vivi, dopo aver vissuto per mesi nelle peggiori condizioni. Ci adatteremo anche qui. Ramzi ci porta però un po’ di gioia. Cominceremo questa nuova vita con coraggio, affrontando tutte le difficoltà.
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