
Giovedì 3 luglio 2025
Il 2 luglio, l’attuale coalizione di governo in Israele ha respinto una proposta di legge definendo la Striscia di Gaza come “zona ostile per gli scambi commerciali”. È la stessa coalizione che continua a ripetere che Gaza è una zona ostile e pericolosa, che non bisogna fermare la guerra, che bisogna distruggere tutto, sradicare Hamas e espellere una volta per tutte l’intera popolazione di Gaza. Ma quando si tratta di fare affari, è tutta un’altra storia. È un perfetto esempio dello spirito coloniale, ma l’occupazione israeliana ha qualcosa di particolare.
È l’unica occupazione al mondo che fa guadagnare soldi. E non da ora. I pescatori di Gaza, ad esempio, hanno il diritto di allontanarsi dalla costa solo di tre miglia nautiche (5,5 chilometri), nel migliore dei casi di sei miglia (poco più di 11 chilometri). I pescatori israeliani invece possono allontanarsi fino a 21 miglia marine (poco più di 38 chilometri) dalla costa di Gaza per pescare i pesci migliori e venderli a prezzi più alti.
Dei soldi per ogni casa distrutta
Tutto quello che accade a Gaza e in Cisgiordania è un gran business. Il quotidiano israeliano Haaretz ha recentemente rivelato che alcune aziende del settore privato israeliano sono state incaricate dall’esercito di distruggere le case con esplosivi e bulldozer, ricevendo 5.000 shekel (circa 1.300 euro) per ogni casa demolita1.
È il motivo per cui abbiamo visto la totale distruzione di diverse zone: la zona nord, la zona di Rafah, la zona est. Più si distrugge, più si guadagna. In un secondo tempo, le stesse aziende traggono profitto dalla rimozione delle macerie e dal loro riciclaggio in Israele. In alcune località, il terreno viene così completamente spianato per future opere. Come è avvenuto a Tel al-Sultan, nei pressi di Rafah, dove è stato creato, su un terreno spianato dove prima c’erano delle case, uno di quei centri di “distribuzione di aiuti umanitari” dove i palestinesi vengono massacrati dall’esercito di occupazione.
In Cisgiordania, il business dell’edilizia e dei lavori pubblici sono le cave che producono la famosa pietra ocra, segno distintivo oggi obbligatorio su tutte le facciate di Gerusalemme. In altre parole, una pietra che vale oro. Nonostante siano i proprietari del terreno, i palestinesi non possono sfruttarlo, perché per farlo avrebbero bisogno di un’autorizzazione dello Stato israeliano, che a loro viene sempre negata. Le cave vengono quindi confiscate dagli insediamenti e sfruttate da società private, a volte internazionali. Questo è il metodo utilizzato a Gerusalemme e in altre località per demolire o annettere le case palestinesi “costruite senza permesso”.
“Paghiamo per consumare la nostra acqua”
Lo stesso vale per l’acqua in Cisgiordania. È la nostra acqua, la nostra terra, ma non abbiamo il diritto di estrarla. L’acqua viene prima prelevata dalle falde acquifere da una società israeliana, poi distribuita gratuitamente alle colonie, infine rivenduta all’Autorità palestinese. In altri termini, paghiamo per consumare la nostra acqua.
Tornando alle colonie sono costruite da lavoratori palestinesi, che non hanno altra scelta che lavorare per l’occupante se vogliono sfamare le loro famiglie. Si tratta di manodopera a basso costo. Non solo i loro salari sono più bassi di quelli israeliani, ma i datori di lavoro non pagano i contributi. Questo avviene anche, nella maggior parte dei casi, in Israele, dove i palestinesi, che legalmente non hanno il diritto di lavorare, vengono pagati in nero.
Il dominio economico di Israele sui Territori palestinesi occupati è stato sancito dagli accordi di Parigi (1994), il lato economico degli accordi di Oslo. Tutti i prodotti destinati alla Cisgiordania o a Gaza devono passare attraverso Israele, che riscuote i dazi doganali che dovrebbero, in linea di principio, essere versati annualmente all’Autorità palestinese. Ma sono dieci anni che queste somme vengono confiscate dallo Stato israeliano con vari pretesti. Ad esempio, uno di questi è che quel denaro servirebbe a versare sussidi alle famiglie dei martiri e dei prigionieri palestinesi. Israele considera come “atti terroristici” i sussidi concessi alle famiglie delle persone uccise o detenute.
Ma il controllo israeliano viene esercitato spesso a monte. Se un commerciante palestinese vuole importare merci direttamente dall’estero, gli vengono messi i bastoni tra le ruote. Per questo preferisce importare la merce da Israele, passando attraverso un importatore israeliano, il che comporta costi elevati. Le merci arrivano all’aeroporto di Tel Aviv o al porto di Ashdod, a quel punto l’importatore israeliano le trasporta con i camion fino all’ingresso dei Territori occupati.
Armi “testate sul campo”
Un altro aspetto del business dell’occupazione è il profitto che Israele ricava dalle aggressioni contro i palestinesi. I massacri servono a sostenere la vendita di armi e di tecnologia israeliana all’estero. Nelle fiere e nelle esposizioni internazionali di materiale bellico, i prodotti israeliani vengono presentati come “testati sul campo”. Ciò significa che sono armi che hanno dimostrato la loro efficacia, testata dall’uccisione di molti palestinesi. Lì vengono presentati supporti tecnologici all’avanguardia, mezzi di intercettazione e identificazione, intelligenza artificiale, ecc., che hanno un vantaggio innegabile, un utilizzo in tempo reale, cosa fuori dal comune nel mondo attuale.
Di solito, storicamente, l’occupazione di un territorio e la sua colonizzazione comportano dei costi per l’occupante, se non altro quelli militari. Per Israele, invece, la colonizzazione è fonte di profitti. Il suo arsenale militare è finanziato e sostituito regolarmente dagli Stati Uniti. L’Unione Europea, invece, finanzia le infrastrutture dei Territori occupati, ricostruendole dopo ogni campagna di distruzione israeliana. E lo fa utilizzando materiali... importati da Israele. Gli israeliani ci uccidono e ci distruggono con armi occidentali, vendendo all’Occidente i materiali per la ricostruzione.
Ecco perché la coalizione di estrema destra ha respinto una legge che avrebbe impedito un simile commercio a Gaza. Gaza è un buon posto per fare affari, e ci saranno ancora maggiori prospettive economiche se gran parte della Striscia di Gaza verrà annessa e se ci saranno gli insediamenti israeliani.
Ci sarebbero molti altri esempi da fare, ma cito solo quelli che mi vengono in mente. Se un Paese volesse fare un esperimento militare nel mezzo dell’oceano, ci sarebbe una mobilitazione generale perché l’oceano è un bene comune dell’umanità e bisogna preservarne la biodiversità. Tutto il mondo si mobilita per salvaguardare gli ecosistemi marini, ma quando si tratta di noi palestinesi, non siamo nemmeno pesci, solo cavie umane per le industrie di armi e tecnologia.
1Nir Hasson, Yaniv Kubovich et Bar Peleg, “It’s a Killing Field”: IDF Soldiers Ordered to Shoot Deliberately at Unarmed Gazans Waiting for Humanitarian Aid”, Haaretz, 27 giugno 2025.