
Lunedì 17 marzo 2025.
Dal mio ritorno a Gaza City, la situazione peggiora di giorno in giorno. Siamo arrivati a casa all’inizio del mese del Ramadan. Il nostro appartamento al nono piano era, per miracolo, pressocché intatto. Il giorno dopo, gli israeliani hanno chiuso le frontiere. Da allora, non passano più gli aiuti umanitari, né le importazioni del settore privato. C’è una grave carenza di cibo. Riusciamo a trovare cibo in scatola, pasta, riso, un po’ di farina, ma niente pollame o carne. Senza elettricità, i commercianti non possono conservare nulla in frigo. Finora, li hanno importati giorno per giorno.
Da quando siamo tornati, la cosa che più mi colpisce non è la grave carenza di cibo, ma la totale assenza di colori. Tutto è grigio. Non si vede altro che grigio e polvere, case ammassate, semidistrutte o ruderi sul punto di crollare da un momento all’altro. È un mare di macerie grigie che inghiotte le strade, ormai scavate in mezzo alle rovine. Non c’è modo di rimuoverle. Non si vede più l’orizzonte. Tutto sembra essersi ristretto, il cibo come lo spazio visivo. Gaza City ha perso la sua bellezza. Io abito non lontano da Omar Al-Mokhtar, la via che dal mare porta al quartiere di Al-Shujaiya. La chiamavo gli Champs-Elysées di Gaza, perché era la strada principale della città, con molti negozi su entrambi i lati, e con panchine dove sedersi in mezzo degli spazi verdi. Purtroppo, anche questa strada è ormai totalmente grigia. La “Palestine Tower”, alta 15 piani che ospitava la Banca di Palestina e la maggior parte delle principali aziende, ora è ridotta a un cumulo di macerie, con i pilastri che possono crollare da un momento all’altro.
“Un eroe sconosciuto”
La tristezza del paesaggio rispecchia quella che sentiamo nel cuore e nella mente, sopraffatti dai ricordi del recente conflitto. Ho già raccontato di Umm Shahin, la donna che è un po’ come la mamma di tutti noi nel nostro palazzo. Sua figlia era sposata con Mohamed Al-Nunu. Dopo la laurea, era diventato responsabile della farmacia dell’ospedale indonesiano. Mi piaceva molto quell’uomo. Durante la guerra, veniva a trovare la moglie e i figli, che si erano rifugiati da noi. Rimaneva con loro per un’ora, e poi ripartiva per fare il suo lavoro.
Mohamed Al-Nunu è uno degli eroi sconosciuti di questa guerra, uno di quei coraggiosi medici che si sono rifiutati di lasciare il loro posto fino all’ultimo momento. Alcuni sono morti, altri sono ancora vivi, molti di loro sono ancora nelle carceri israeliane. Mohamed aveva deciso di rimanere in ospedale, con i pazienti. Quando l’esercito israeliano ha attaccato l’ospedale ordinando loro di andarsene, Mohamed è fuggito con altri medici, ma l’hanno fatto per continuare il loro lavoro in un’altra struttura, il grande ospedale Al-Shifa. Anche qui Mohamed ha fatto il possibile per prestare soccorso ai pazienti e ai tanti feriti, senza dare ascolto a chi gli consigliava di trovare un rifugio, perché si sapeva che l’esercito israeliano avrebbe preso di mira gli ospedali.
È rimasto fino all’ultimo minuto. A marzo 2024, gli israeliani hanno attaccato per la seconda volta il complesso ospedaliero di Al-Shifa. Hanno ucciso e catturato un gran numero di persone. Mohamed Al-Nunu è stato arrestato e poi rilasciato. Gli israeliani gli hanno detto: “Prendi la strada a ovest, verso il mare, e poi cavatela da solo”. È partito con una famiglia che si era rifugiata in ospedale, e che l’ha ospitato in una casa a cinque minuti dalla nostra torre, rassicurandolo che avrebbe potuto raggiungere la sua famiglia dopo l’attacco all’ospedale (la nostra torre è vicina ad Al-Shifa).
Il giorno dopo, ha voluto dare un’occhiata fuori. In quel momento, la casa è stata colpita da un carro armato, un drone o un cannone, non è chiaro. Mohamed, che indossava ancora il camice bianco, è rimasto gravemente ferito, e insieme a lui anche un altro uomo, colpito alla gamba, ma in modo meno grave. Li hanno trascinati dentro casa. Mohamed ha cercato di spiegare come curarlo, ma non avevano i mezzi per farlo. Non hanno potuto chiamare nemmeno un’ambulanza, che, in ogni caso, sarebbe stata colpita, poiché l’area era chiusa al traffico.
Sapevano cos’era la paura
Con l’intensificarsi delle sparatorie, la famiglia che lo ospitava ha deciso di fuggire a piedi, lasciandoli lui e l’altro ferito sul posto, perché non potevano trasportarli. La paura li aveva fatto “salire il cuore in gola”, come diciamo noi per intendere uno stato d’angoscia. Hanno chiamato la moglie di Mohamed per avvertirla che sarebbero andati via senza di lui. Siamo arrivati al punto in cui sembra normale abbandonare qualcuno che sta morendo. In ogni caso, la scelta era semplice: o muoiono tutti, o solo i feriti. Una scelta che la famiglia di Mohamed ha capito e accettato. Sapevano cos’era la paura e quello che può provocare negli esseri umani.
I due feriti, quindi, sono stati lasciati soli in mezzo alle esplosioni. L’altro uomo, quello ferito a una gamba, è riuscito a trascinarsi fuori dalla casa. Mohamed ha chiamato sua moglie. È stato suo cognato a rispondere. A telefono, ha detto: “Lo so che ora non puoi venire a prendermi, perciò ti lascio l’indirizzo per quando gli israeliani si ritireranno, se sarò ancora vivo”. E poi ha aggiunto: “Andrò incontro a Dio digiunando”. Era il mese di Ramadan e Mohamed era un uomo devoto. Ha finito per soccombere alle ferite subite, tutto solo in quella casa.
“Una fossa comune non lontano dagli Champs-Elysées a Gaza”
Ci sono volute due settimane per togliere l’assedio dell’intero quartiere, e solo allora la famiglia di Mohamed Al-Nunu ha potuto recuperare il suo corpo. Mi hanno raccontato che, lungo la strada, hanno visto delle persone che cercavano i loro genitori tra le decine di corpi distesi lungo Al-Mokhtar, gli Champs-Elysées di Gaza. Tutti quei morti stavano cercando di sfuggire all’offensiva israeliana, ma sono stati uccisi dalle bombe, dai droni o dai cecchini. I parenti di Mohamed lo hanno trovato a terra, con il camice bianco e sotto la coperta con cui l’altro ferito lo aveva avvolto prima di andarsene.
Al telefono, aveva dettato un breve testamento:
So che sto per morire. Mi piacerebbe essere sepolto nella stessa tomba di mia madre e mio padre, nel cimitero di Sheikh Radwan. Troverete 200 shekels nella mia tasca. Non ho avuto il tempo di darli a chi è in difficoltà. Darete 100 shekel a X e 100 alla signora Y.
Mohamed Al-Nunu non è stato sepolto con suo padre e sua madre, perché il cimitero era inaccessibile. La sua famiglia lo ha sepolto in una fossa comune non lontano dagli Champs-Elysées di Gaza.
Le famiglie hanno lasciato dei segni, in modo che un giorno potranno riesumare i loro cari per dare loro una degna sepoltura. Ma sarà difficile trovare la fossa comune. Quel terreno adesso è occupato dai tantissimi sfollati di ritorno dal sud, perché non c’è più un metro quadrato libero a Gaza.
Morto senza sepoltura
Mohamed Al-Nunu è uno degli eroi di questa guerra. Ce ne sono migliaia di altri di cui non si conosce la storia, non si sa come sono morti, sotto la pallottola di un cecchino, dilaniati da un missile, o morti di fame.
È una storia che mi spezza il cuore, perché è una testimonianza del clima di terrore che abbiamo vissuto. La paura che può spingere uomini e donne ad abbandonare qualcuno per salvare la propria pelle. O lasciare un morto senza sepoltura. Il giorno dell’ottobre 2023 in cui abbiamo dovuto lasciare il nostro edificio assediato dall’esercito israeliano, alle sei del mattino, uno dei nostri vicini è stato ucciso da una granata. Era stato dato l’ordine di evacuare e le bombe cadevano dappertutto. Tutti volevano fuggire verso sud. I figli del nostro vicino hanno semplicemente avvolto il suo corpo in una coperta, nascosto sotto le scale, in attesa del giorno in cui sarebbero potuti tornare per seppellirlo dignitosamente.
È una paura cha capisco, perché l’ho vissuta sulla mia pelle. Anche Ahmad Al-Atbash, un altro vicino, è stato ucciso quel giorno, durante la fuga. Non si muoveva più, aveva capito che era morto. Avevo Walid in braccio, ma per me era fuori discussione lasciare qualcuno così. Anche se c’erano i cecchini, anche se stavo mettendo in pericolo la mia vita e quella di mio figlio. È arrivato uno dei suoi cugini. L’hanno portato all’ospedale Al-Shifa. Ma anche lì c’era il caos. I quadrirotori, dei piccoli droni armati, sparavano su chiunque si era rifugiato lì, e così tutti cercavano di scappare. A terra era pieno di cadaveri.
Più tardio, quei corpi sono stati sepolti nel cortile dell’ospedale. Non si sa chi erano, né i morti né i vivi, ma ognuno di loro aveva un nome e una storia. La paura ha costretto i vivi ad abbandonare i morti sotto i loro occhi. Non è stato per vigliaccheria. Erano persone coraggiose. Ma, in alcune circostanze, la paura ha il sopravvento: “È una questione di vita o di morte, ognuno per sé”.
Dei genitori che hanno abbandonato i figli, dei figli che hanno abbandonato i genitori, perché è nella natura umana il desiderio di sopravvivere. Chi non ha mai provato il terrore non ha il diritto di giudicarli.
_