
Giovedì 10 aprile 2025.
Oggi vorrei parlarvi del giornalista Ahmed Mansour. Avrete senza dubbio visto le immagini atroci del reporter palestinese di Gaza, seduto su una sedia e avvolto dalle fiamme a seguito degli attacchi israeliani a Khan Yunis. Un raid che ha colpito la tenda dove si trovava Ahmed insieme ad altri giornalisti. Il bilancio è stato di tre morti. Due giornalisti, Ahmed Mansour e Helmi Al-Fakaawi, e un uomo che si trovava lì vicino. Altri nove giornalisti sono stati feriti, alcuni in modo grave... È un’immagine che ha fatto il giro del mondo. Non è la prima volta che gli israeliani usano questo genere di armi incendiarie. Si erano già viste immagini di persone avvolte dalle fiamme a seguito di un raid.
Per quanto riguarda i giornalisti, secondo l’Ong Reporter senza frontiere sono ormai più di duecento i corrispondenti uccisi dall’esercito israeliano dall’inizio della guerra. Alcuni di loro sono stati uccisi insieme a tutta la famiglia. A volte, sono proprio le loro famiglie ad essere prese di mira deliberatamente, come nel caso di Wael Al-Dahdouh, il corrispondente del canale qatariota Al Jazeera, che ha perso alcuni membri della sua famiglia in alcuni attacchi mirati. Purtroppo, ci sono molti media stranieri che raccontano questa guerra contro i giornalisti adottando sostanzialmente il punto di vista israeliano. Come i media che hanno enfatizzato, nei loro titoli, il fatto che Ahmed lavorasse per una “testata affiliata al Jihad islamico, considerato terrorista da molti paesi”.
Da una parte è vero, ma dall’altra non lo è. È vero, Ahmed lavorava per Falastin Al-youm, (“Palestine Today”) da quando aveva terminato i suoi studi di giornalismo, dieci anni fa. Sì, è vero anche che è un media legato al movimento del Jihad islamico. Ma, a detta dei suoi amici, Ahmed era uno di quei tanti giornalisti che non condividono l’ideologia del loro datore di lavoro, sia esso Fatah, Hamas o altri. Per fare il loro lavoro, i giornalisti palestinesi non hanno altra scelta, la maggior parte dei media presenti a Gaza dipendono in qualche modo da un movimento politico.
“Aveva paura di finire come loro”
Ahmed Mansour era sposato e era padre di tre figli. Aveva patito le stesse sofferenze degli abitanti di Gaza. Lui, i suoi genitori e tutta la sua famiglia erano stati sfollati varie volte. La sua famiglia era originaria di Khan Yunis, nel sud della Striscia di Gaza, ma avevano finito per vivere in una tenda nella zona di Al-Mawasi, zona che l’esercito di occupazione indica come una “zona umanitaria sicura”, nonostante venga regolarmente bombardata. Ahmed Mansour voleva rimanere sul campo, nella regione di Khan Yunis, insieme agli altri colleghi.
Molti sono morti nella stessa tenda, accanto all’ospedale Nasser. Si erano radunati lì per una buona ragione: molti giornalisti si stabiliscono accanto agli ospedali, perché è lì che si possono trovare delle informazioni. Quando vedono arrivare dei feriti, possono chiedere ai paramedici dove ha avuto luogo il raid, quanti morti ci sono stati, e così via, per poi tentare di andare sul posto. È una cosa che accade nei pressi di tutti gli ospedali ancora più o meno funzionanti nella Striscia di Gaza come l’ospedale Al-Shifa, l’ospedale indonesiano, l’ospedale Al-Maamadani, l’ospedale battista, noto anche con il nome di al-Ahli, a nord, l’ospedale Al-Aqsa a Deir al-Balah... Sono gruppi di giornalisti ben noti agli israeliani. Proprio come i veicoli professionali dei media, come il VAN SNG (Satellite News Gathering)1 con una grande antenna e una parabola, che viene utilizzato per le dirette dal canale Al-Quds al-Youm (“Al-Quds Today”), colpito da un missile il 26 gennaio scorso davanti all’ospedale Al-Awda.
Le persone a bordo sono tutte morte bruciate. Ahmed Mansour si era recato sul posto. Secondo i suoi amici, era molto scosso. Si chiedeva come fossero morti, come avessero vissuto quel momento, quali sofferenze avessero patito. Lo diceva perché aveva paura di finire come loro.
Penso spesso a Pierre Brossolette
Ciò che mi intristisce è il modo di considerare solo il punto di vista israeliano per raccontare ciò che sta accadendo a Gaza. Adottare, perciò, la visione del più forte. Noi viviamo sotto occupazione. L’occupante tratta gli occupati come “terroristi”. Tutti quelli che vivono sotto occupazione sono considerati dei terroristi. Hamas? Dei terroristi. Fatah, il partito fondato da Yasser Arafat? Dei terroristi. Mahmoud Abbas, presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese e dello Stato palestinese? Un terrorista. Chiunque denunci l’occupazione? Un terrorista.
I giornalisti francesi che riprendono questo termine dovrebbero ricordare che anche la Francia ha conosciuto l’occupazione, e che i tedeschi e il governo collaborazionista avevano giustificato i loro crimini accusando le loro vittime di essere dei terroristi. I resistenti erano dei terroristi. I giornalisti erano dei terroristi. Oggi sono degli eroi, perché hanno denunciato i massacri dell’occupante e dei suoi complici, lavorando per la Liberazione. Tra di loro c’erano dei giornalisti. Tante volte penso a Pierre Brossolette2, le cui ceneri oggi sono state trasferite al Pantheon. Naturalmente, le circostanze e le personalità sono molto diverse, ma era un giornalista, come Ahmed Mansour. Anche lui però era chiamato “terrorista”. Entrambi hanno vissuto sotto l’occupazione, assistendo ai massacri e ai bombardamenti. Brossolette era un alto dirigente della Resistenza, ma ha anche scritto su giornali clandestini, parlando più volte ai microfoni della BBC. Soni morti entrambi. Dopo essere stato arrestato, Pierre Brossolette si è lanciato da una finestra al quinto piano per non parlare sotto tortura.
Era un europeo, quindi un eroe. Ahmed Mansour, invece, era palestinese, e quindi gravitava per forza attorno a un movimento “terroristico”. Tutto ciò che è palestinese deve essere demonizzato. Quando si è sotto occupazione, è normale resistere, con i fatti o le parole. Non capisco questo doppio standard, nonostante i due popoli abbiano conosciuto l’occupazione. Forse perché non siamo considerati degli esseri umani. Forse, come dico spesso, è perché non abbiano gli occhi azzurri e i capelli biondi. Credo però che difendere la propria patria sia un diritto di chiunque conosca il sapore amaro dell’occupazione. Onorare Brossolette condannando Mansour significa rinnegare l’eredità universale della resistenza all’oppressione. Il coraggio non cambia natura a seconda della geografia o dell’identità del resistente. Ciò che cambia è lo sguardo che scegliamo di avere.
Finiremo sempre per essere delle vittime colpevoli
Uccidere dei giornalisti in modo atroce è una cosa che in parte viene tollerata, non bisogna scandalizzarsi troppo, perché sono “vicini ai gruppi terroristici”. Non mi riferisco a tutti i giornalisti occidentali, so che ce ne sono tanti che fanno il loro lavoro in modo professionale. Ma ce ne sono troppi che adottando acriticamente la visione israeliana. Immaginiamo che un giornalista ucraino venga ucciso allo stesso modo, colpito dai russi mentre fa il suo lavoro. L’avremmo definito “vicino a un movimento terroristico”? Noi palestinesi finiamo sempre per essere vittime colpevoli. Sono molti i media che contribuiscono a questa inversione dei ruoli. La vittima diventa il carnefice, il carnefice diventa la vittima, l’occupante diventa l’occupato e l’occupato finisce per essere l’occupante.
Ma sarà la Storia a giudicare chi mente. Un giorno, Ahmed Mansour e molti dei suoi colleghi saranno trasferiti in un Pantheon. Saranno onorati come eroi dagli stessi giornalisti occidentali che li hanno accusati di lavorare per dei “media terroristici”. Capiranno che la giustizia e i diritti fondamentali dell’essere umano non hanno né geografia, né colore. Onoreremo questi giornalisti che stanno morendo uno dopo l’altro perché raccontano la realtà, trasmettendo le immagini dei massacri. L’occupante non vuole testimoni, non vuole che i massacri e le stragi siano trasmesse in tutto il mondo. Prima si uccidono i testimoni, e poi li si demonizza.
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1Veicolo autonomo per il giornalismo elettronico-digitale con collegamento satellitare o DTT/DVB-T. [Ndr].
2Pierre Brossolette (Parigi, 25 giugno 1903 – Parigi, 22 marzo 1944) è stato un politico, giornalista e partigiano francese. Ostile al regime di Vichy, partecipò alla formazione dei gruppi resistenti nella Francia occupata.