Diario da Gaza 102

“Youssef, 16 anni. Scampato a un’esecuzione sommaria”

Rami Abu Jamous scrive il suo diario per Orient XXI. Giornalista fondatore di GazaPress, un’agenzia di stampa che forniva aiuto e traduzioni ai giornalisti occidentali, Rami ha dovuto lasciare il suo appartamento a Gaza con la moglie e il figlio Walid di due anni e mezzo. Rifugiatisi a Rafah, la famiglia è stata poi costretta a un nuovo esilio prima a Deir al-Balah, poi a Nuseirat, bloccata come tante famiglie in questa enclave miserabile e sovraffollata. Un mese e mezzo dopo l’annuncio del cessate il fuoco, Rami è finalmente tornato a casa con la moglie, Walid e il figlio appena nato, Ramzi. Per il suo Diario da Gaza, Rami ha ricevuto tre importanti riconoscimenti al premio Bayeux per i corrispondenti di guerra. Questo spazio gli è dedicato dal 28 febbraio 2024.

Un bambino ferito, giace a terra, mentre un adulto lo sostiene con affetto.
Gaza City, 5 agosto 2025. Un palestinese piange un suo caro, ucciso mentre cercava aiuto al terminal di Zikim. L’agenzia di difesa civile di Gaza ha dichiarato che il 5 agosto 26 persone sono state uccise da colpi di arma da fuoco e attacchi aerei israeliani, tra cui 14 che aspettavano vicino a un sito di distribuzione di aiuti all’interno del territorio palestinese.
Omar AL-QATTAA / AFP

Domenica 10 agosto 2025.

Questa è la storia di Youssef, il ragazzo che è sfuggito per un soffio a un’esecuzione sommaria da parte dell’IDF. Ce ne sono state molte dall’inizio dell’invasione di Gaza. Ma è raro che i bersagli sopravvivano e descrivano la realtà di quei crimini di guerra.

Ho incontrato Youssef a casa dei suoi genitori, lì dove si erano rifugiati. Mi ha raccontato nei dettagli i fatti. È un adolescente di sedici anni, il maggiore di quattro fratelli e una sorella. Il padre di Youssef era un allevatore di polli che viveva bene del suo lavoro. L’azienda di famiglia possedeva diverse fattorie nella parte orientale di Shajaya, nel nord della Striscia di Gaza. Sono state tutte distrutte, insieme alle loro case. Come centinaia di migliaia di abitanti di Gaza, la famiglia di Youssef è stata costretta a spostarsi più volte: prima a Rafah, nel sud, poi ad Al-Mawasi, per poi risalire a Gaza City, dove si è stabilita nel quartiere di Sheikh Radwan.

Come la maggior parte degli abitanti, la famiglia ha speso tutti i suoi risparmi e ora dipende dagli aiuti umanitari, che, come noto, arrivano con il contagocce. Il 22 luglio, verso mezzogiorno, Youssef ha fatto quello che fanno tutti i giovani a Gaza: è andato a cercare degli aiuti. Aveva sentito dire che dei camion che trasportavano farina sarebbero entrati dal valico di Zikim, nel nord della Striscia di Gaza. Ecco il suo racconto.

“Ho visto pezzi di carne volare in aria”

“Quando ho incrociato delle persone che portavano un sacco di farina a testa, ho capito che ero arrivato troppo tardi. Ma mi hanno detto che sarebbero passati altri camion, questa volta non sulla strada costiera, ma su una strada parallela, nel quartiere di Al-Amoudi. Ci sono andato, insieme a centinaia di altre persone. Ma invece dei camion, abbiamo visto arrivare un carro armato israeliano. Sono corso a rifugiarmi tra le macerie di un edificio. Eravamo una decina che cercavamo di nasconderci lì. Il carro armato non si è fermato, ha proseguito la sua strada, dritto davanti a sé, verso un altro edificio semidistrutto, dove altre persone si erano rifugiate. Ha iniziato a sparare. È arrivato un secondo carro armato, che a sua volta ha iniziato a sparare dei proiettili. Poi un terzo carro armato, che però si è fermato davanti al posto dove stavamo cercando di nasconderci.

Ci aveva visti. Il carro armato ha puntato il cannone verso di noi. Sopra c’erano tre soldati. Uno di loro ci ha fatto cenno con il suo fucile M-16 di uscire dal nostro nascondiglio. Parlava bene l’arabo. Ho pensato che sarebbe andata come al solito: ci avrebbero fatto spogliare, per dimostrare che non eravamo armati, e poi ci avrebbero lasciato andare. Siamo rimasti tutti in mutande e ci siamo diretti verso il carro armato. È stato allora che la mitragliatrice pesante del carro armato ha iniziato a sparare ai quattro uomini che erano proprio davanti a me. Ho visto quelle persone tagliate in due dai proiettili, ho visto pezzi di carne volare in aria, ho visto sangue schizzare dappertutto. È stato terribile. Ero terrorizzato. Ero in un gruppo di sei o sette persone, ero il più giovane e il più piccolo, e mi sono nascosto dietro di loro. Non sapevo cos’altro fare.

Il soldato che ci aveva ordinato di uscire ci ha sparato con il suo M-16. Gli uomini che erano davanti a me sono caduti. Anch’io ho sentito un forte colpo al petto e sono caduto a terra. Ho pensato subito che dovevo fingere di essere morto perché il soldato voleva davvero ucciderci tutti. Avevo paura che sparasse di nuovo per finirmi. Sentivo il sangue che mi colava dalla bocca, dal petto e anche dalla schiena. Poi ho sentito dei sussurri, così ho capito che erano due uomini rimasti nascosti tra le macerie. Gli israeliani non li avevano visti. Mi sussurravano sottovoce che non volevano uscire, di continuare a fingermi morto, perché altrimenti il soldato sarebbe tornato per uccidermi. Sono rimasto a terra. I tre carri armati circondavano l’altro edificio e ogni tanto sparavano.

Dopo due ore, se ne sono andati. I due uomini sono usciti dal loro nascondiglio. Mi hanno preso sulle spalle. Più tardi, hanno incontrato altri due uomini. Ho sentito che mi stavano sdraiando su un materasso. Tutti e quattro mi hanno trasportato in quel modo, camminando il più velocemente possibile. Siamo arrivati a una rotatoria da cui partiva la strada principale, perpendicolare al mare. Lì mi hanno detto: “Non possiamo continuare a trasportarti, dobbiamo andare via subito”. Ho chiesto di mandare un messaggio a mio padre, dando loro il numero. Lo hanno chiamato, gli hanno detto che ero gravemente ferito e dove mi trovavo esattamente. Poi se ne sono andati. Non so per quanto tempo sono rimasto lì, finché non è arrivato mio padre.

“Sei vivo, era la nostra priorità”

Il padre di Youssef sapeva già che suo figlio era in pericolo. Uno dei suoi figli doveva aspettarlo alla rotonda con una bicicletta per trasportare un eventuale sacco di farina, ma aveva visto i carri armati poco più lontano ed era tornato a casa. Il padre ha percorso a piedi i quindici chilometri dal distretto di Sheikh Radwan, correndo grossi rischi: il luogo dove avevano lasciato suo figlio si trovava in una zona vietata dall’IDF. Quando ha visto suo padre, Youssef è svenuto. “Ho cercato di fermare l’emorragia mettendo la mia maglietta sulla ferita”, racconta il padre. “Poi l’ho preso sulle spalle e ho camminato fino alla clinica che si trova nel quartiere di Sheikh Radwan”. Altri quindici chilometri, questa volta portando suo figlio privo di sensi.

In clinica, mi hanno detto che non avevano i mezzi per curarlo. Hanno chiamato un’ambulanza che lo ha portato all’ospedale battista al-Ahly, che ancora un po’ funziona. Lì Youssef si è svegliato. Gli hanno messo dei tubi ovunque, nel naso, nella pancia, per assorbire il sangue e fermare l’emorragia. Ha trascorso ore in sala operatoria. Grazie a Dio ne è uscito vivo. Ma il proiettile era ancora nel torace, non lontano dal cuore. Il chirurgo mi ha detto che non aveva i mezzi per eseguire un intervento di microchirurgia. Ha detto a Youssef che per il momento avrebbe dovuto convivere con quel proiettile nel petto, il che significava non muoversi troppo. E ha aggiunto: “Ora devi tornare a casa. Non possiamo tenerti qui. Sei vivo, era la nostra priorità. Ma ci sono molte altre priorità, molti feriti gravi da salvare”.

Centinaia di corpi in decomposizione

Ora Youssef è a casa dei suoi genitori. È costretto a letto per paura che il proiettile si sposti e provochi una nuova emorragia o raggiunga il cuore. Youssef è traumatizzato, fisicamente e moralmente. È in stato di shock. Ha ancora paura. Trema quando parla. Non ha più il controllo dei suoi muscoli. È incontinente. Ha sedici anni e riesce a malapena a sopravvivere. Un ragazzo di sedici anni che ha visto una mitragliatrice fare a pezzi esseri umani, uomini cadere proprio davanti a lui e che si aspettava di morire come loro.

Youssef avrebbe bisogno di un’evacuazione sanitaria urgente per essere operato all’estero. Ci sono centinaia, migliaia di feriti gravi come lui, che possono essere salvati solo in ospedali che funzionano realmente.

Si sente parlare ogni giorno di esecuzioni sommarie di civili. Youssef dice che, in quella zona da cui gli abitanti sono fuggiti, ha visto centinaia di corpi in decomposizione che nessuno ha potuto recuperare. I cadaveri vengono divorati dai cani e dai gatti randagi o ridotti allo stato di scheletri. La settimana scorsa, l’IDF ha autorizzato un accesso temporaneo in quel luogo. Dei volontari hanno riportato corpi, ossa, scheletri. Molti altri cadaveri sono ancora sul posto.

Altri testimoni dicono che gli israeliani stanno scavando fosse comuni con i bulldozer per seppellire le vittime delle esecuzioni. La maggior parte di loro non sono combattenti. Molti sono giovani che, come Youssef, volevano solo portare a casa un sacco di farina per evitare che le loro famiglie morissero di fame.

La fame è un’arma letale, più dei bombardamenti. Spinge le persone a rischiare la vita. Non hanno scelta. Quasi tutti gli abitanti di Gaza si trovano nella stessa situazione della famiglia di Youssef, indipendentemente dal loro ceto sociale. Chi aveva dei risparmi li ha spesi, e ora dipende interamente dagli aiuti umanitari. E visto che gli aiuti non arrivano, o la gente si precipita per giocare alla serie Hunger Games cercando di recuperare un po’ di cibo nei centri di distribuzione della società israelo-americana Gaza Humanitarian Fundation (GHF), dove l’esercito si metterà a sparare su di loro. Oppure aspettano il passaggio dei pochissimi camion che entrano nella Striscia di Gaza, prendendoli d’assalto, perché solo i più forti riescono a recuperare qualche sacco.

È questa la vita che stiamo vivendo. I massacri causati dai raid, le uccisioni, la distruzione delle case, l’assassinio di chi che cerca del cibo. Per il solo fatto che sono palestinesi che non vogliono morire.

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