Editoriale

Gaza. La “scorta mediatica” di un genocidio

Il capo dell’ufficio di Al Jazeera Gaza, Wael Al-Dahdouh, prega durante il funerale di suo figlio Hamza Wael Dahdouh, giornalista di Al-Jazeera ucciso in un raid israeliano a Rafah, 7 gennaio 2024.
AFP

“Sono 90 giorni che non capisco. Muoiono e vengono mutilate migliaia di persone, travolte da una piena di violenza che ci vuole pigrizia a chiamare guerra”. In questa lettera, il giornalista Raffaele Oriani motiva la decisione di interrompere, dopo dodici anni, la sua collaborazione con il Venerdì di Repubblica, in protesta contro la linea editoriale del giornale su quanto sta accadendo a Gaza. Il giornalista denuncia anche “l’incredibile reticenza di gran parte della stampa europea, compresa Repubblica (oggi due famiglie massacrate in ultima riga a pagina 15)”, evocando la “scorta mediatica” che rende possibile il massacro in corso.

In altri tempi, i media occidentali non hanno avuto tutti questi riguardi. Non c’è stata alcuna reticenza nel denunciare l’invasione russa, e a nessuno sarebbe venuto in mente di menzionare l’“operazione speciale russa”, se non in senso ironico. Oggi si è imposta l’espressione israeliana “Guerra Israele-Hamas”, come se si fronteggiassero due fazioni identiche o come se le vittime fossero soltanto miliziani delle Brigate Al-Qassam.

Variano le espressioni sui giornali, ma Hamas viene quasi sempre indicata come “organizzazione terroristica” – ricordiamo che solo l’Unione Europea e gli Stati Uniti la considerano tale – che scagiona a priori Israele da tutti i suoi crimini. Di fronte al “Male Assoluto”, non è permesso tutto? Un giornalista della CNN ha riportato le sue linee guida editoriali:

Termini come “crimine di guerra” e “genocidio” sono vietati. I bombardamenti israeliani a Gaza dovranno essere denunciati come “esplosioni” di cui nessuno è responsabile, fino a quando l’esercito israeliano non accetterà o negherà la responsabilità. Le dichiarazioni e le notizie fornite dall’esercito israeliano e dagli esponenti di governo di solito devono essere approvate rapidamente, mentre quelle da parte palestinese esaminate attentamente e trattate con cautela1.

“Secondo le autorità di Hamas”

È noto lo scettiscismo che circola sul numero delle vittime fornite dal Ministero della Sanità a Gaza, fino ad oggi accompagnate dall’espressione “secondo le autorità di Hamas”, anche se probabilmente sono inferiori alla realtà. Il trattamento riservato agli ostaggi palestinesi, denudati, umiliati, torturati, viene ridimensionato, e il sospetto di appartenere ad Hamas giustifica lo stato di eccezione. Al contrario, le fake news diffuse dopo il 7 ottobre sulle donne sventrate, sui bambini decapitati o bruciati nei forni sono state riprese, perché erano state confermate dal governo israeliano. Una volta rivelate le falsità diffuse, nessuna redazione ha ritenuto doveroso fare un mea culpa per aver contribuito a diffondere la propaganda israeliana. In Francia, il portavoce dell’esercito israeliano parla a ruota libera sui canali di informazione, ma quando un giornalista decide di fare il suo lavoro facendo delle vere domande, viene richiamato all’ordine dalla sua redazione. Nel frattempo, le dichiarazioni di spudorato razzismo, che rasentano l’incitamento all’odio o alla violenza contro i critici dell’esercito israeliano, vengono appena notate. Per non parlare dei sospetti che colpiscono i giornalisti discriminati, accusati di “appartenere a una comunità chiusa” quando vogliono fornire una versione diversa2.

Mentre Israele rifiuta l’ingresso a Gaza dei giornalisti stranieri – eccetto quelli che scelgono di “avventurarsi” in una visita guidata, cosa che molti corrispondenti accettano senza la minima reazione critica – sono poche le proteste che si sono state sollevate contro questo divieto. Non c’è stata alcuna mobilitazione da parte degli Ordini professionali contro l’uccisione di 109 giornalisti palestinesi, un numero mai raggiunto in nessun altro recente conflitto. Se i giornalisti fossero stati europei, cosa non avremmo sentito? Ancora peggio, nel suo rapporto annuale pubblicato il 15 dicembre 2023, l’organizzazione Reporter Senza Frontiere (RSF) ha parlato di “17 giornalisti [palestinesi] uccisi nell’esercizio del loro dovere”, notizia ripresa da vari media nazionali. L’espressione è scioccante nella sua indecenza, soprattutto se si considera che prendere di mira deliberatamente dei giornalisti è una pratica comune dell’esercito israeliano, a Gaza e in Cisgiordania, come ci ricorda l’assassinio della giornalista Shirin Abou Akleh. Domenica 7 gennaio, due colleghi palestinesi sono stati uccisi dopo che un missile israeliano ha colpito la loro auto, a ovest della città di Khan Yunis. Uno dei due era il figlio di Wael Al-Dahdouh, capo dell’ufficio di Al-Jazeera a Gaza. Metà della sua famiglia è stata sterminata dall’esercito israeliano e il suo cameraman è stato ucciso.

Eppure, è proprio a loro che dobbiamo la maggior parte delle immagini che ci arrivano. E anche se alcuni di loro hanno già lavorato come “interpreti” per molti giornalisti internazionali, sono considerati “sospetti” a priori perché palestinesi. Mentre accade tutto questo, i loro colleghi israeliani che, salvo qualche eccezione come +972 o alcuni giornalisti di Haaretz, riprendono il linguaggio dell’esercito, vengono accolti con timore reverenziale.

La pulizia etnica, una scelta come un’altra

Negli ultimi giorni abbiamo assistito a dibattiti surreali. Possiamo davvero discutere, con serenità, calma, “normalmente” alla radio o in televisione sulle proposte che parlano di deportare la popolazione palestinese in Congo, in Ruanda o in Europa, senza insistere che si tratti di crimini di guerra e crimini contro l’umanità? Va da sé che chi pronuncia discorsi di questo tipo, in Europa o in Israele, dovrebbe essere accusato di apologia di crimini di guerra e contro l’umanità?

Secondo le Nazioni Unite, la Striscia di Gaza è diventata “un luogo di morte, inabitabile”. Ogni giorno aumentano le notizie sul numero dei morti (più di 23.000), dei feriti (più di 58.000), del bombardamento di ospedali, delle esecuzioni sommarie, delle torture su vasta scala3, delle scuole e delle università polverizzate, delle case distrutte. Tanto che è stato coniato un nuovo termine, “domicidio”, per definire la sistematica distruzione degli edifici. Tutti questi crimini sono raramente oggetto di inchieste giornalistiche. Basterebbe, però, il memorandum presentato dal Sudafrica il 29 dicembre 2023 alla Corte internazionale di giustizia dell’Aia4 per produrre decine di scoop da parte dei media. Sarebbero un contributo per dare alle vittime (non solo a quelle del 7 ottobre) un volto, un nome, un’identità. Bisogna costringere Israele e gli Stati Uniti, che li armano senza esitare, a confrontarsi anche con gli altri paesi occidentali e con le proprie responsabilità, ma per farlo non basta paracadutare rifornimenti su una popolazione che sta morendo, o esprimere “preoccupazione” con un comunicato stampa.

È la prima volta che un genocidio avviene in diretta, letteralmente in live stream su alcuni canali di informazione panarabi o sui social, cosa che non è avvenuta né per il Ruanda né per Srebrenica. Di fronte a tutto questo, è sconcertante constatare la facilità con cui questo massacro è progressivamente uscito dalle prime pagine dei giornali o dalle notizie d’apertura dei nostri telegiornali per essere relegato in secondo piano. Ma, come gli Stati firmatari della Convenzione sulla prevenzione e la repressione del crimine di genocidio, così anche i giornalisti hanno l’obbligo di mobilitarsi per fermare il massacro in corso.

Per non essere complici di questo genocidio, i paesi europei possono contribuire a fermarlo, sospendendo la cooperazione militare con Israele, adottando sanzioni contro chi prende parte ai crimini a Gaza, sospendendo il diritto dei coloni ad entrare nei nostri paesi e perfino sospendendo l’importazione di beni israeliani, alcuni dei quali provengono dalle colonie e sono, quindi, commercializzati contravvenendo alle regole europee.

Alla fine di dicembre, in seguito a un attacco russo contro città ucraine che ha provocato una trentina di morti, il governo americano ha condannato “questi terribili bombardamenti”, mentre il governo di Parigi ha denunciato “la strategia del terrore russa”. Il quotidiano Le Monde titolava la “campagna terroristica russa”. Quanto bisognerà ancora aspettare perché la guerra ingaggiata da Israele a Gaza sia definita terrorismo?

1“Cnn Runs Gaza Coverage Past Jerusalem Team Operating Under Shadow of Idf Censor”, The Intercept, Daniel Boguslaw, 4 gennaio 2024.

2Nassira Al-Moaddem, “TV5 Monde: “l’affaire Kaci” secoue la rédaction”, Arrêt sur image, 30 novembre 2023.

3Si veda l’inchiesta sul magazine israeliano +972 di Yuvak Abraham, «Inside Israel’s torture camp for Gaza detainees»