Documentario

A Gaza, i sogni volano più in alto dei muri

Coprodotto da Italia, Libano e Svizzera, pluripremiato, One More Jump (Ancora un salto) del regista e documentarista Emanuele Gerosa è uno straordinario docufilm sull’amicizia, sugli aut-aut che ogni scelta comporta, sulla disciplina del parkour, capace di dare un’immagine inedita delle forme di sopravvivenza dei ragazzi che vivono a Gaza. “Che cosa sa della libertà, chi è nato in prigione? E come si diventa uomini liberi, se il prezzo della libertà è perdere tutto ciò che si ama?”. Sono alcune delle domande che il film, ora disponibile anche su RaiPlay, pone allo spettatore.

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Fin dalla prima sequenza, vediamo degli adolescenti correre a perdifiato in mezzo alle macerie. Scalano muri sventrati per gettarsi nel vuoto, tracciando figure di leoni e aquile, evoluzioni spettacolari una più bella dell’altra. Come tutti sanno, Gaza è una prigione a cielo aperto. Le immagini che ci arrivano sono quelle di un territorio di guerra, segregazione e distruzione. Ma la macchina da presa riesce a catturare il movimento dei corpi che si proiettano verso il cielo. Vediamo la loro voglia di andare sempre più in alto, sempre più lontano.

Atterrare in piedi è come un colpo di dadi che non abolirà mai il caso. Salti all’indietro, salti mortali, capriole, volteggi, salti carpiati... le figure bucano il cielo, sono come una metafora visiva per sfuggire al blocco israeliano che condanna i giovani – il quaranta per cento degli abitanti di Gaza sono ragazzi che hanno meno di quindici anni – alla segregazione e alla disperazione a vita.

One more jump - Trailer

Le bombe o il salto dell’esilio

“Anche se restassi a Gaza per un milione di anni, non potrò mai costruirmi un futuro qui”. Jehad ha circa trent’anni. In quanto figlio maggiore, deve occuparsi del mantenimento della sua famiglia perchè suo padre, gravemente malato, sta lottando contro la mancanza di cure e farmaci. Ma Jehad è anche l’allenatore dei giovani del Gaza Parkour Team. Il parkour è una disciplina acrobatica urbana, molto intensa e difficile, basata su salti, volteggi e atterraggi, diventata molto popolare nella Francia degli anni ’90 grazie al gruppo degli Yamakasi, adolescenti delle banlieue parigine nel dipartimento di Essonne, che saltavano sui tetti degli edifici quasi fossero rampe di lancio e scivolo. I praticanti del parkour, chiamati tracciatori (traceurs), usano lo spazio del loro ambiente urbano in ogni sua dimensione, aggirando o servendosi di ostacoli per rimbalzare e lanciarsi, in un movimento continuo.

Nel campo profughi di Al-Shati, a ovest di Gaza, sono proprio Abdallah e Jehad a proporlo per la prima volta ai giovani come attività ricreativa, insegnando loro i valori di uno sport agonistico che, a Gaza, “non è una competizione, ma richiede attenzione, rispetto, fiducia e umiltà”. Nel mondo, però, il parkour è diventato una disciplina da competizione. Così quando Abdallah riceve un invito per partecipare a un workshop in Italia, non esita a scegliere il grande salto dell’esilio. Ma il progetto era quello di andarci insieme a Jehad, che si sente deluso e ferito dalla scelta dell’amico.

Per tutta la durata del film, seguiamo in tempo reale le vite di Jehad e Abdallah con il loro susseguirsi di avvenimenti. Dall’arrivo al potere di Hamas nel 2007, Jehad, segregato nella Striscia di Gaza dove esplode la povertà sotto l’assedio e le guerre israeliane, vive sotto i bombardamenti, “il peggior rumore che si possa mai sentire”, e pensa che “avere vent’anni e immaginarne di averne quaranta sempre a Gaza, è come essere già morti...”. Al suo arrivo a Firenze, Abdallah, invece, si mette alla disperata ricerca di un lavoro e di un’indipendenza che sembra sfuggirgli ogni giorno di più. L’allenamento solitario nei tunnel e nei parcheggi inospitali sembra aver perso il suo antico fascino. Quando arriva la telefonata di suo padre, che non manca di chiedergli se si è ricordato di pregare, Abdallah prova una forte nostalgia del suo Paese e della sua famiglia. Impiegherà così tutte le sue risorse e le sue energie per riuscire a partecipare all’Air Wipp Challenge, un prestigioso campionato internazionale in Svezia che seleziona dodici atleti su 650 iscritti. Ma non ci sarà l’happy end: se ne tornerà a mani vuote.

Lo stesso coraggio

Rimasto a Gaza, Jehad si dispera per la chiusura delle frontiere con l’Egitto, irritato dai discorsi dei politici. Lo vediamo anche mentre partecipa alle “marce del ritorno” che, da marzo 2018, spingono migliaia di palestinesi verso il confine, con centinaia di morti, perché i soldati israeliani non esitano a sparare a distanza ravvicinata dalle colline. “Litigano per spararci addosso e per sapere chi di loro è il migliore”. Uno dei momenti più forti del docufilm di Emanuele Gerosa è quello in cui le immagini del popolo di Gaza, tenace e ribelle, fanno eco a quelle dei giovani atleti della squadra di parkour, con lo stesso spirito di rivolta, la stessa volontà di andare al di là dei propri limiti, lo stesso coraggio.

La vita scorre via sia per l’uno che per l’altro. Tutti e due sono stati forgiati dallo sforzo mentale che comporta la loro disciplina. Padroneggiare la gravità e la paura significa anche essere attrezzati per affrontare il dominio israeliano e l’esilio. Nonostante abbia ottenuto un passaporto per poter partecipare a sua volta a una competizione, Jehad non lascerà mai Gaza, restando segregato all’interno dei suoi confini. Abdallah, invece, si farà seriamente male durante un allenamento. Ancora una volta, Gaza spezzerà le speranze e i sogni dei suoi figli.