Musica

Abdelhalim Hafez, crooner e cantore della rivoluzione egiziana

Per il 45° anniversario della scomparsa di Abdel Halim Hafez (1929-1977), la stampa araba - e in particolare quella egiziana - ha elargito omaggi a colui che veniva soprannominato l’"usignolo nero”. Se le sue canzoni d’amore restano oggi dei grandi classici, si dimentica invece che è stato anche il cantore del Nasserismo.

Diverse immagini si sovrappongono al nome di Abdel Halim Hafez: le più memorabili vacanze estive del cinema egiziano in Abi fawqa’l shagara (“Mio padre è sull’albero”, 1969), le performance che infiammano il pubblico mentre interpreta maestosamente i suoi pezzi, la storia d’amore con l’altrettanto celebre cantante e attrice Soad Hosny, o ancora, l’uomo che, in privato, ha a lungo sofferto e lottato contro la bilharziosi, malattia che lo ha portato via il 30 marzo 1977 a Londra.

Tutte queste immagini raccontano il percorso di un bambino povero cresciuto, come molte celebrità egiziane, nella provincia di Al-Sharqiyya. Orfano a un anno, Abdel Halim Chabana all’anagrafe ha conosciuto un destino eccezionale interrotto bruscamente alla vigilia dei suoi 48 anni. Ma il quadro non sarebbe completo se non vi aggiungessimo l’immagine di “Halim”, come lo chiamano affettuosamente i suoi compatrioti, cantore del Nasserismo.

Una nuova generazione

All’inizio degli anni Cinquanta, l’Egitto già vanta nomi celebri della musica che incendiano i palchi e fanno vibrare tutto il mondo arabo. Parliamo di Umm Khultum, Mohammed Abdel Wahhab e Farid Al-Atrash. Insieme a quelli che diventeranno famosi compositori, Abdel Halim Hafez fa parte di una generazione che aspetta impaziente il proprio turno. Una generazione che vuole per l’Egitto un cambiamento, un nuovo afflato. Cosa che troverà nel colpo di Stato del 23 luglio 1952, con la cosiddetta “Rivoluzione dei Liberi ufficiali” che mette fine alla monarchia.

La quindicina di canzoni interpretate da Abdel Halim Hafez copre quasi tutto il periodo nasseriano, poiché si estende dal 1952 al 1968. Brani fortemente segnati dall’impronta di due compositori: Kamal Al-Tawil, uno dei fedeli compagni di strada dell’“usignolo nero” insieme al paroliere Abdel Rahman El-Abnudi e al musicista Mohamed al-Mughi; e Baligh Hamdi, uno dei più importanti musicisti egiziani e arabi di quegli anni, che ha prestato il suo talento a grandi star come Umm Kulthum, Warda e Sabah. Sia Halim che i suoi compagni si mostrano dunque perfettamente capaci di spaziare dalle canzoni d’amore alle canzoni dette patriottiche (a volte suonando anche in entrambi i registri) sebbene con un successo e una qualità artistica piuttosto iniqua.

La prima canzone interpretata da colui che si presenterà fino alla fine dei suoi giorni come “il figlio della rivoluzione” s’intitola Al-ahd al-jadid (“La nuova era”). La registra nel 1952 in duetto con Esmat Abdel Alim, già nota al grande pubblico per aver recitato nel film Akher kezba (“Un’ultima bugia”, 1950) al fianco di Farid Al-Atrash, passato ai posteri per la famosa canzone Bussat errih (“Tappeto volante”), in cui fanno il giro del mondo arabo attraverso la musica in compagnia della celebre ballerina Samia Gamal. All’epoca, Abdel Halim non è ancora la star che diventerà nel 1955 dopo i suoi primi due film, Lahn el-wafa (“Melodia della fedeltà”), dove appare accanto a Shadia, e Ayyamna el-helwa (“I nostri giorni più belli”), in cui recita e canta al fianco di Faten Hamana e Omar Sharif, coppia sia sul set che nella vita.

La colonna sonora della vita politica

È significativo che le sue canzoni politiche seguano la traiettoria dei discorsi di Gamal Abdel Nasser. Sebbene il primo brano sia in arabo standard e rispetti tutti i canoni dell’inno patriottico in quanto a trombe, ritmo, coro e magniloquenza, Abdel Halim opta, a partire dal 1956, per l’arabo egiziano, lo stesso usato dal presidente nel discorso in cui annuncia la nazionalizzazione della compagnia del canale di Suez nel 1956. Addirittura, nel 1964, in Baladi ya baladi (“Mio paese oh mio paese”), canterà:

“Miei compatrioti, vi parlerò così, in baladi (arabo popolare),
ve lo dico in baladi, miei prodi,
La nostra è una rivoluzione di uomini valorosi”

Ancora più significativo è il fatto che quasi tutti i grandi momenti di periodo nasseriano siano tradotti in musica. Tra l’estate e l’autunno 1956, Halim canta Ehna eshaab (“Noi siamo il popolo”) quando Nasser viene eletto presidente della Repubblica, affiancato da un coro composto da uomini, donne e bambini; segue Allah ya baladna (“Oh nostro paese!”) all’indomani della Guerra di Suez, meglio nota al di là del Mediterraneo come “la vile aggressione tripartita”.

Ehna echaab, ici interprétée en 1965.

In tono più festivo, invece, il cantante celebra la costruzione della grande diga di Assuan. Sempre in una composizione del suo fedele amico, Kamal Al-Tawil, Halim interpreta nel 1960 Hikayet shaab (“La storia di un popolo”). Sul palco regna un’atmosfera da kermesse: il cantante tiene il tempo con le mani, invita il pubblico ad accompagnare il coro.

La canzone suona così: “Abbiamo detto che l’avremmo costruita,
ed eccola, l’abbiamo costruita, la grande diga,
oh colonizzazione! L’abbiamo costruita con la forza delle nostre braccia
la grande diga”

Senz’altro per necessità artistiche, il ruolo dei sovietici nella costruzione della diga di Assuan è stato allegramente evitato. Più memorabile delle parole è la messinscena teatrale di questo brano, quando Abdel Halim Hafez interrompe il canto per rivolgersi al pubblico e prenderlo come testimone. L’usignolo non canta più, arringa la folla:

“Il punto non è la storia della diga ma la lotta che c’è dietro la diga. È la nostra storia, la storia di un popolo che si è alzato per compiere questa marcia sacra! […] Un popolo che ha lottato e vincere è stato il suo destino!”

Lo stesso spirito si ritrova nella canzone Mataleb shaab (“Le richieste di un popolo”), interpretata al Club degli ufficiali in presenza di Nasser per il 10° anniversario della rivoluzione di luglio 1952. Qui, il canto è inframmezzato dagli stralci dei discorsi di Nasser trasmessi dagli altoparlanti – e applauditi da Halim – dagli slogan del coro che ricordano più una sfilata militare che un concerto (“La via della rivoluzione è quella della vittoria! Lunga vita all’esercito e lunga vita all’Egitto!”) e dalle trombe. Sorriso sulle labbra, Halim attacca un ritornello di una semplicità quasi commovente:

“Gamal l’ha disegnato e noi lo costruiremo,
e saliremo con lui oltre le nuvole,
il nostro amato paese, i cui tesori sono stati restituiti ai suoi figli.
Paese di uomini liberi, tutti rivoluzionari,
e nessuno, eccetto il suo popolo, ha qualcosa da ridire”

Tamburi e trombe di guerra

Come ogni bardo degno di questo nome, Halim non ha cantato soltanto la rivoluzione socialista e le sue conquiste, ma ha anche contribuito a preparare l’opinione alla guerra prima di intonare inni per incoraggiare le truppe. Nel 1965, ottimista e cinico nello stesso tempo, in Ya ahlan bel ma’arek (“Benvenuti alle battaglie”), sempre grazie alla coppia paroliere-compositore formata da Salah Gahin e Kamal Al-Tawil, su una musica il cui preludio è un’intelligente combinazione tra la melodia della chiamata alla preghiera e lo spirito epico delle trombe, proclama:

“Benvenuti alle battaglie,
Fortunato chi vi parteciperà
Il loro fuoco è una benedizione
E noi ne usciremo vincitori”

Tra ritornello militare e strofe malinconiche, il testo evoca i Liberi ufficiali e la guerra del 1956, auspicando una fine altrettanto vittoriosa.

Con l’approssimarsi della guerra del 1967, Kamal Al-Tawil comporrà altri quattro canti militari dalla durata piuttosto breve (a volte meno di un minuto), il cui unico scopo è galvanizzare le truppe e di cui, in tutta onestà, non si può dire che abbiano un autentico valore artistico. Tuttavia, traducono lo spirito di un’epoca.

Halim rimane fedele agli ideali nasseriani anche dopo la sconfitta di giugno 1967, la cui onda d’urto scuote tutto il mondo arabo. Sulla scia di quella che gli arabi chiameranno la Naksa (la ricaduta), egli interpreta ’Adda ennahar (“La giornata è passata”) su una composizione di Baligh Hamdi. Ironicamente, l’incipit malinconico di questo pezzo che si sviluppa in un crescendo è decisamente quello artisticamente più interessante tra tutti i suoi canti nasseriani. Per una volta, le trombe cedono il posto agli oboi e ai violini, e le formule marziali e rivoluzionarie vengono abbandonate a favore di una metafora estesa in cui l’Egitto è paragonato a una giovane donna nel crepuscolo di una sera senza luna. Halim canta allora con lo stesso tremolio nella voce che aveva in una canzone come La takzibi (“Non mentire”, 1962), quando si calava nei panni di un innamorato tradito.

Sebbene il brano sia immediatamente registrato in studio, l’interpretazione che ne fa il cantante sul palco gli conferisce ancora più spessore. Così, in quel concerto di novembre 1967 in Kuwait, la folla reclama, come sempre, i suoi pezzi più famosi. Ma Halim ha preso l’abitudine di imporre la sua scaletta iniziale prima di assecondare le richieste del pubblico. E per indorare un po’ la pillola, ci scherza su: “Cos’è, andate di fretta? Vi ho detto che canterò tutto quello che volete, abbiamo tempo, è giovedì, nessuno lavora domani!”.1 Poi, tornato serio, parla della guerra e annuncia che tutti i proventi del concerto andranno ai soldati e alle loro famiglie. Addirittura, dice, tutti i suoi musicisti hanno rinunciato allo stipendio per donarlo ai soldati.

All’annuncio delle dimissioni di Nasser, Halim si unisce a suo modo alla folla scesa in strada per chiedere al presidente di rinunciare alla sua decisione. Canta allora Nasser ya horriya (“Nasser oh libertà”, 1967). Poi, in sintonia con quell’Egitto ufficiale che sostiene di essersi rimesso in sesto, interpreta l’anno successivo El bundueyya tkallemet (“Il fucile ha parlato”), composta sempre da Baligh Hamdi, al quale si devono l’anno seguente, in tutt’altro stile, le canzoni dell’ultimo film di Abdel Halim Hafez, Abi fawqa’l shagara (“Mio padre è sull’albero”, 1969), che diventeranno degli enormi successi.

L’“usignolo nero” ha anche partecipato agli inni nazionalisti arabi composti da Mohammed Abdel Wahab, il più famoso dei quali è Al-watan al-akbar (“La più grande patria”, 1960) che, oltre a riunire diverse star dell’epoca, adotta codici che non hanno niente da invidiare all’arte socialista sovietica.

Abdel Halim canterà altre tre canzoni dello stesso stile sotto Anwar Al-Sadat, quando l’Egitto riprende possesso del Sinai nel 1973 (Sabah el khir ya Sina, “Buongiorno Sinai”) e alla riapertura del Canale di Suez nel 1975 (El markeba ’addet, “La nave è passata”). All’epoca, tuttavia, ad attrarre l’attenzione del pubblico è soprattutto la svolta verso la poesia moderna che il cantante compie grazie alla collaborazione con il poeta siriano Nizar Qabbani.

Si dice che Anwar Al-Sadat abbia proibito le canzoni nasseriane di Abdel Halim Hafez alla fine degli anni Settanta, il che spiegherebbe il loro cadere nell’oblio. Che sia stato per decisione presidenziale o per eccessivo zelo degli impiegati statali, da allora quelle canzoni sono state disertate sia dalle radio che dalle televisioni. È anche vero che l’immagine del seducente cantante d’amore aveva sicuramente più probabilità di passare ai posteri rispetto a quei canti propagandisti che sembrano oggi d’altri tempi. Hanno tuttavia riecheggiato su piazza Tahrir durante la rivoluzione del 25 gennaio 2011, trasmessi dai manifestanti che esibivano le foto di Nasser.

Abdel Halim resterà fedele al presidente egiziano anche dopo la morte di quest’ultimo. Durante un concerto a Damasco il 22 febbraio 1971, ovvero a neanche cinque mesi dalla scomparsa del leader, Halim, con espressione grave, chiede al pubblico siriano di alzarsi per osservare un minuto di silenzio in memoria “dell’uomo che ha vissuto e si è sacrificato per la nazione araba e per l’unione”. Dopodiché interpreta Ahlef bissamaha (“Giuro sul suo cielo”), il cui testo si ispira al discorso pronunciato da Nasser durante la sua prima visita nella capitale siriana:

È per opportunismo che Abdel Halim ha seguito questa strada o perché, da uomo che ha conosciuto la povertà, credeva sinceramente in un futuro migliore per il suo paese? L’enorme successo che ha riscosso sia come cantante che come attore lo metteva indubbiamente al riparo da questo genere di imperativi, tanto più che ha largamente superato i suoi pari in termini di popolarità. Abdel Halim Hafez non è mai stato legato a Nasser da un’amicizia privata, eppure entrambi gli uomini saranno portati al cinema dallo stesso attore: Ahmed Zaki, anch’egli originario di Al-Sharqiyya, che vestirà i panni del presidente in Nasser 56, girato in bianco e nero nel 1996, e quelli dell’“usignolo nero” nei suoi ultimi mesi di vita in Halim (2006), quando era egli stesso prossimo alla morte.

1In Kuwait il riposo settimanale cade di venerdì e sabato.