Intervista

Che ruolo ha la filosofia nell’islam?

Nel suo ultimo libro, il sociologo Lahouari Addi analizza il discorso religioso dell’islam alla luce delle rappresentazioni culturali. La “crisi dell’islam” è per lui una crisi della cultura islamica che ha escluso la filosofia dal suo campo di studi a partire dal XII secolo, rinchiudendo il credente in quello che definisce un “sacro libresco”.

Al-Mu’tazila V6
Zeruch/Deviantart

Nadia Agsous. Lei sostiene che il discorso religioso musulmano sia in crisi. Di che tipo di crisi si tratta? Quali sono i fattori principali?

Lahouari Addi. Quando parlo di discorso religioso intendo la teologia e le sue rappresentazioni culturali dominanti, che costituiscono per molti un valido modello di pensiero sulla società, la storia, la politica, l’economia o altri ambiti. Un discorso che aveva una sua ragion d’essere nella società tradizionale, ma che ora è entrato in crisi perché non permette più di comprendere le dinamiche che strutturano la realtà storica. È una forma di sapere che incoraggia l’utopia e talvolta sfocia nell’intolleranza.

Possiamo far risalire l’origine di questa crisi all’esclusione della filosofia dalla cultura musulmana intorno al XII secolo. Un’esclusione che non è stata causata dal contatto con l’Europa, che anzi l’ha portata alla luce. La filosofia, infatti, permette non solo di imporre un minimo di rigore nell’interpretazione dei testi sacri, ma favorisce anche lo sviluppo di un pensiero laico libero dall’autorità religiosa. Nel confronto con l’Europa, dove l’averroismo1 aveva trovato rifugio, la filosofia si è sviluppata favorendo al tempo stesso la conoscenza scientifica dell’uomo e della società. Uno sviluppo che non c’è stato nelle società musulmane, anche se ce n’erano le potenzialità. Un problema che riguarda solo le scienze umane perché la teologia musulmana ha accettato senza problemi le scienze della natura come la fisica o la chimica.

Passare da Platone a Kant

N. A. Lei lo definisce passare da Platone ad Immanuel Kant. In che modo la filosofia platonica ha influenzato e permeato il pensiero religioso dell’islam?

L. A. Platone ha fornito il concetto di monoteismo ai teologi, compreso quelli musulmani, con un’argomentazione razionale sull’importanza della rivelazione divina. Se la metafisica di Platone è fedele all’escatologia2 biblica, la teologia musulmana è stata ancora più fedele al sistema di Platone, nella misura in cui il Corano attua una netta distinzione tra il mondo sensibile e quello intellegibile, rispetto al cristianesimo che stabilisce un legame umano tra il mondo terreno e quello divino attraverso il suo intermediario Gesù, il figlio di Dio. Ebbene, oggi, la metafisica di Platone non permette più di comprendere la realtà storica.

La fede è anche un fatto sociale

N. A. Lei scrive: “Lasciare la religione ai soli ulema3 significa privarla del suo contesto storico e del suo fondamento culturale ed antropologico […] bisogna far accettare all’opinione pubblica che la fede è anche un fattore sociale analizzato dalla sociologia, dalla storia, dalla filosofia”. Che impatto hanno queste tre discipline delle scienze sociali sul pensiero e sulla fede religiosa?

L. A. Quando il movimento Nahda (Rinascita), e soprattutto Muhammad ‘Abdu4, hanno provato a dare un nuovo impulso alle scienze sociali, le autorità religiose di Al-Azhar si sono opposte. Per i teologi musulmani, la riflessione sull’uomo e sulla società spetta alla teologia, e quindi appartiene solo a loro. Questo spiega il ritardo del mondo musulmano nell’ambito delle scienze sociali. Non c’è alcun filosofo, antropologo o anche storico che sia riconosciuto a livello internazionale: o se esistono, insegnano nelle università occidentali. Un’aridità intellettuale che si spiega con l’assenza della filosofia.

Con la scomparsa della filosofia, anche la teologia ha perduto il livello intellettuale che aveva con il teologo e filosofo Al-Ashʿarī (874-936) e con il filosofo persiano Al-Ghazali (1058-1111). Ovviamente, Al-Fārābī (filosofo musulmano, 872-950) ed Averroè (filosofo, teologo, giurista e medico, 1126-1198) sono pensatori medievali, ma la loro filosofia conteneva in sé il germe del suo superamento. Ed è ciò che è avvenuto in Europa dove «la filosofia naturale» ha dato origine alla nascita della storia, della scienza politica, della sociologia, in modo che più tardi le scienze umane si potessero occupare della religione come oggetto di studio.

Il vissuto religioso è un dato sociale che sfugge all’ambito della teologia. Un Émile Durkheim o un Max Weber ha più competenza di un teologo per parlare dei rapporti tra il sacro e l’uomo. Le scienze umane riconducono la teologia all’ambito che le è proprio: il commento ai testi sacri. Per quanto riguarda l’islam, lo studio della religione e del Corano si deve all’opera degli orientalisti europei con le loro qualità epistemologiche, ma anche con i loro presupposti ideologici, come dimostrato da Edward Said.

Ragione o rivelazione

N. A. Lei afferma che nelle società musulmane la teologia ha finito con il sopraffare la filosofia. Attraverso quale processo è stata messa da parte la filosofia? Quali sono state le conseguenze?

L. A. Il processo è durato molti secoli ed è stato segnato da scontri duri tra i mu’tazila5 e i filosofi da una parte, e i teologi ortodossi dall’altra. Era in gioco la dialettica tra ragione e rivelazione: si doveva interpretare il Corano attraverso la ragione o leggerlo alla lettera? Al-Ashʿarī aveva proposto un compromesso, ma Al-Ghazali e soprattutto Ibn Taymiyya (teologo e giureconsulto musulmano, 1263-1328) lo hanno osteggiato al punto che la filosofia è stata delegittimata canonicamente. Le conseguenze sono state terribili sia dal punto di vista culturale sia da quello scientifico. Le scienze profane, incluso quelle matematiche, sono cadute in declino. La filosofia si è rifugiata nel sufismo, diventando una sorta di meditazione metafisica e spirituale invece di essere un fondamento della conoscenza dell’uomo e dei suoi rapporti con la storia.

Separare la religione dalla politica?

N. A. Dal suo punto di vista, l’approccio della ricerca universitaria sull’islam dev’essere quello della scienza politica e delle relazioni internazionali. Quali sono le ragioni, le tematiche e i rischi di questo tipo d’orientamento?

L. A. L’islam non può essere studiato allo stesso modo in Francia o nel Maghreb, dal momento che le tematiche non sono affatto le stesse. Se, in Occidente, l’islam è stato studiato da alcuni studiosi perché rappresenta una minaccia alla coesione sociale e alla pace nel mondo, per altri studiosi occidentali invece non rappresenta alcun pericolo. In un caso o nell’altro, il dibattito rientra nell’ambito della scienza politica e delle relazioni internazionali. In passato, gli studiosi dell’islam come Louis Massignon, Roger Arnaldez, Jacques Berque o Henri Corbin erano degli arabisti che avevano alle spalle una formazione storica, antropologica o filosofica. La nuova generazione è composta invece per la maggior parte da specialisti che si avvicinano all’islam in quanto fulcro della conflittualità mondiale.

Nei paesi musulmani, non c’è alcuna traccia di quest’approccio nello studio dell’islam, che segue piuttosto altre tematiche, ad esempio la possibilità delle società musulmane di secolarizzarsi, di separare l’ambito religioso da quello politico e di vivere la fede nel rispetto della libertà di coscienza. Le scienze sociali, con i loro differenti orientamenti teorici, rispondono ad una ricerca conoscitiva che deriva dalla società in cui vive il ricercatore, anche se lui stesso non ne è cosciente.

N. A. Il suo approccio si differenzia da altri studi sull’islam, poiché lei lo affronta dal punto di vista della filosofia, della sociologia della religione o dell’antropologia. Qual è lo scopo di adottare questo differente approccio nell’analisi della crisi del discorso religioso nelle società musulmane?

L. A. Con la globalizzazione e i flussi transnazionali che mette in moto, le relazioni internazionali hanno la precedenza sulla sociologia e sull’antropologia, in cui rientra l’aspetto religioso. Se vogliamo analizzare il vissuto religioso nelle società musulmane, dobbiamo farlo a partire dai paradigmi metodologici di Émile Durkheim, di Max Weber, di Clifford Geertz, autori che ci hanno insegnato che le dinamiche religiose si devono collocare nei contesti storici e culturali specifici delle società.

“Camminare con i piedi e non con la testa"

N. A. Kant è al centro della sua opera. Qual è l’apporto della filosofia kantiana nel pensiero religioso islamico?

L. A. La filosofia morale di Kant ha fatto uscire la teologia cristiana dai suoi albori, facendole perdere l’illusione di realizzare sulla terra la perfezione morale dell’uomo attraverso la paura del castigo divino. Kant ha spostato l’attenzione su ciò che ha definito “l’antropologia pragmatica” che svela la natura del bene e del male in relazione alla natura umana. Kant ritiene che il dogmatismo dei teologi impedisca loro di riflettere sulla dialettica del bene e del male, ripresa in molte parabole bibliche, si pensi in particolare a quella sul peccato originale. Per liberarsi delle conseguenze di questo peccato, Kant raccomanda al credente di prendere coscienza della sua libertà quando sceglie di praticare il bene. Friedrich Nietzsche ha scritto che Kant ha ristabilito la comprensione dei valori biblici. E in effetti è così.

Questo dibattito, o per meglio dire quest’incontro con Kant, i musulmani non l’hanno mai avuto. La teologia islamica legge ancora il Corano in maniera ingenua, cioè crede che al cuore della questione del sacro, ci sia Dio, e non l’uomo e la sua ricerca della trascendenza. La filosofia di Kant affronta l’idea di Dio proprio a partire dall’uomo. Kant dice ai teologi: bisogna camminare con i piedi e non con la testa.

La secolarizzazione passa anche attraverso la questione femminile

N. A. Lei sostiene che c’è un modello di secolarizzazione in corso nelle società musulmane. Su quali elementi basa la sua tesi? Come si manifesta questo fenomeno?

L. A. La laicizzazione delle società musulmane procede più di quanto non si dica. Prendiamo ad esempio la questione femminile. Secondo il fiqh (il diritto islamico medievale), la presenza all’interno delle università delle ragazze accanto ai ragazzi viene considerata illecita, proibita. Però gli studenti rappresentano solo la metà del personale universitario. Nelle amministrazioni, nelle scuole, nei servizi ospedalieri, c’è una presenza forte delle donne. Certo ci sono delle resistenze o dei compromessi come il velo, ma anche gli islamisti non sono contrari al fatto che ci siano delle donne medico.

È cambiata anche la psicologia sociale, si pensi ad esempio al declino del massiccio fenomeno sociale della santità in Maghreb. L’individualismo si è rafforzato, favorito dalla vita urbana e dal lavoro salariato. Infine, anche se nei discorsi è presente la simbologia religiosa, le ragioni dell’individualismo sono più forti del dovere religioso imposto in passato dalla società tradizionale.

È bene ricordare che i sistemi politici dei paesi musulmani, se si escludono le monarchie, non sono basati sul principio della legittimità religiosa, anche laddove l’islam è religione di stato secondo la Costituzione. Per cui è una disposizione di legge, certo complicata nei paesi musulmani dove vivono minoranze non musulmane, che esiste più sulla carta che come affermazione del carattere religioso dello Stato. Qualcuno potrebbe controbattere che questa disposizione legittima l’applicazione della sharia (“la strada battuta”, la legge islamica), che spesso viene confusa con il fiqh6, che invece è inapplicabile. L’idea di un passaporto che impedisca ad un musulmano di stabilirsi in un paese diverso dal suo è impensabile secondo il fiqh. Un altro esempio, secondo il fiqh un musulmano che non prega è passibile di pena di morte. Oggi non c’è alcun paese musulmano che applichi questo articolo, nemmeno l’Arabia Saudita. Il diritto in vigore nella maggior parte dei paesi musulmani è una sintesi tra il fiqh e le norme giuridiche europee.

Un conservatorismo non violento

N. A. Pensa che il femminismo islamico sia un movimento che faccia parte della dinamica della secolarizzazione del pensiero islamico?

L. A. Con l’apparizione delle donne nello spazio pubblico, era legittimo attendersi la nascita di una corrente ideologica che rivendicasse tanto la modernità quanto l’islam. Il femminismo islamico contesta l’interpretazione tradizionale degli ulema, accusandoli di avere una lettura misogina del Corano. È possibile una diversa lettura del Corano che promuova l’uguaglianza tra uomo e donna? Le femministe dicono di sì. Hanno ragione nella misura in cui ogni credenza religiosa è il frutto di rappresentazioni culturali. Eppure, gli ulema mantengono un’interpretazione medievale della religione. Nei paesi islamici, la teologica è rimasta ferma al XII secolo. Il tentativo di riforma di Muhammad ‘Abdu nel XIX secolo è fallito. Oggi ci sono molti segnali che lasciano intendere che questa riforma sia possibile dal punto di vista politico e ideologico.

N. A. Lei scrive che “l’islamismo è un’ideologia religiosa aggregante che accompagna i cambiamenti profondi nella percezione sociale del sacro”. Un’ideologia che però è generalmente considerata conservatrice. In che modo quest’ideologia può aiutare a promuovere dei cambiamenti nei musulmani e nella società?

L. A. L’islamismo ha come proprio obiettivo conclamato quello di recuperare il ritardo con l’Occidente, applicando però il Corano e quella che viene chiamata la sharia. Questo significa che c’è un bisogno di cambiamento, oltre ad un’aspirazione al benessere. Ma l’islamismo vuole la modernità conciliandola con l’idea che la sovranità appartenga a Dio, il che è in contraddizione. Parlare a nome delle masse senza pensare ad istituzionalizzare il carattere umano della rappresentazione politica è una contraddizione che libera una dinamica di superamento dell’islamismo. Dalla fine degli anni ‘90, il discorso islamista ha cominciato a mobilitare molto meno, soprattutto all’interno delle università. Molti islamisti hanno scelto la moderazione, arrivando a rifiutare l’etichetta di “islamista” e preferendo quella di “musulmani democratici”.

Oggi, nel mondo arabo, il principale ostacolo allo Stato di diritto e alla democrazia è rappresentato dalle monarchie e dai regimi militari. Questo non significa che gli islamisti parteggino per la democrazia elettorale senza avere dei secondi fini. In ogni caso, rappresenta una novità il fatto che gli islamisti non siano più contrari alla democrazia e all’alternanza elettorale. A mio avviso, la tendenza prevalente dell’islamismo ha rinunciato alla violenza per diventare una corrente conservatrice ed è una cosa da non sottovalutare, dal punto di vista politico, in caso di libere elezioni.

1Insieme di dottrine filosofiche che si richiamano ad Averroè (1126-1198), filosofo, teologo, giurisperito e medico musulmano andaluso di lingua araba. Averroè considerava l’anima umana in ogni essere umano come una sostanza individuale corruttibile, ma unita all’intelletto agente universale nell’atto dell’intendere.

2Discorso sulla fine dei tempi.

3Ulema (‘ulamā’) è una parola araba che deriva da ‘ilm, “sapere”. Gli ulema sono dunque etimologicamente i sapienti o più precisamente gli esperti di scienze religiose islamiche [NdT].

4Muhammad ‘Abdu (1849-1905), teologo egiziano, nominato Gran Muftì d’Egitto nel 1899, è considerato il padre del movimento riformista egiziano.

5Una delle prime scuole di teologia islamica (VIII secolo). Lo scopo era di unire la ragione alla fede, ossia di affrontare la Rivelazione alla luce della riflessione (fikr) e del discernimento (furqân).

6Il fiqh designa piuttosto «la comprensione» della sharīa, vale a dire il diritto positivo che riunisce tutti gli aspetti della vita, religiosi, politici e privati