Dal festival di Cannes a Berlino, da Venezia a Toronto sono centinaia i film stranieri presentati nel 2023, ma, tra questi, non c’è alcun film egiziano. È questa la triste situazione in cui versa la settima arte in Egitto, dopo un secolo di lustro: sono 25 i lungometraggi egiziani presentati a Cannes nella storia del festival, ma solo 3 negli ultimi vent’anni.
Le prime proiezioni del cinematografo Lumière avvennero il 15 novembre 1896 alla Borsa Toussoun ad Alessandria d’Egitto, poi al Cairo, a meno di un anno dalla primissima proiezione parigina. All’inizio del secolo scorso, c’erano già 86 cinema in Egitto. Per decenni, il cinema egiziano ha attraversato le trasformazioni politiche e sociali del paese, in forma di melodrammi, serial nazionalisti sotto Gamal Abdel Nasser e opere “realistiche”. Tutti coinvolti nella creazione di un immaginario nazionale, volto anche a formare un’identità dal basso, distinta da quella imposta dall’alto dai vari poteri e dalle autorità1.
La crescente importanza delle serie tv
L’attuale declino cinematografico egiziano si spiega in particolare con una forma di fruizione più sedentaria e dalla crescente importanza delle serie tv, più redditizie sotto il profilo commerciale, secondo un trend mondiale delle strutture produttive. L’ultimo periodo di Ramadan lo ha dimostrato ancora una volta con non meno di 25 serie trasmesse in contemporanea. Questo ha creato una stretta sui budget della produzione cinematografica, con un impatto diretto sulla qualità visiva – secondo una fonte che lavora nel settore, ci sono solo 5 telecamere Arri Alexa in Egitto e pochissimi studi, la maggior parte dei quali controllati dalle autorità.
Il modello commerciale dominante del cinema egiziano sta limitando anche la diversità dei generi. Una caratteristica non certo nuova, ma che livella verso il basso le esigenze di registi e produttori, in modo che l’intrattenimento diventi fine a se stesso, destinato al pubblico di massa. Ciò vale sia per il mercato interno, che per quello regionale, soprattutto nel Golfo, con il 60-70% di produzioni distribuite all’estero2. Sulla piattaforma streaming saudita Shahid, che ha un target rivolto soprattutto al Medio Oriente, si trovano molti film egiziani, “circa tre film su quattro” secondo Mervat* che lavora lì. “La piattaforma streaming offre una maggiore libertà in termini di contenuti e maggiori opportunità per gli attori egiziani”, un paradosso nel regno wahhabita, che si spiega con la recente inaugurazione di “Vision 2030” voluta dal principe ereditario Mohammed bin Salman.
Biglietti del cinema sempre più cari
I quindici film egiziani usciti al Cairo dall’inizio dell’anno sono in gran parte film d’azione e commedie, come i due record d’incassi egiziani Kira & El Gin (2022) e The Blue Elephant 2 (2019) diretti dallo stesso regista, Marwan Ahmed, oltre allo stesso sceneggiatore e lo stesso attore protagonista Karim Adbel Aziz... Il cinema diventa così un luogo di evasione, una fuga spazio-temporale che permette di staccare per un attimo da una vita quotidiana difficile, tra senso d’oppressione, ansia, stress e routine. La particolarità però è che i film trasmessi in Egitto sono soprattutto blockbuster americani o film egiziani girati in stile americano.
Questa tendenza cinematografica, che rientra in una più generale tendenza neoliberista di Hollywood a livello mondiale, ricade anche sulle sale cinematografiche: mentre oggi sono 90 le sale presenti in Egitto, tre volte meno rispetto al 1960, i luoghi adibiti alle proiezioni vengono sempre più modernizzati – schermi in 3D e audio surround –, adattandoli allo stile multisala delle nuove città. Con il seguente paradosso: le nuove sale presentano un cinema che vuole essere popolare ma senza poveri, dal momento che il prezzo del biglietto diventa sempre più alto, oggi 225 sterline egiziane (EGP), ovvero quasi 7 euro. Tra i tanti cinema che stanno chiudendo i battenti, dispiace che qualche anno fa abbia chiuso anche lo splendido cinema Faten Hamama, sull’isola di Roda al Cairo.
Censori sempre più zelanti
I registi che conoscono la situazione stanno accantonando le loro ambizioni, a fronte di una miriade di ostacoli, primo fra tutti la censura. È dal 1954 che il cinema egiziano è soggetto all’ipercontrollo dei “cretini del CNC”, secondo la celebre formula del regista Youssef Chahine. Il protocollo di censura richiede mesi perché i censori cercano di imporre agli artisti le loro opinioni estetiche sull’opera, riservandosi la possibilità di tagliare le presunte scene “pericolose”, se non di vietare semplicemente il film.
È così che, nel 1973, è stato proibito il film diretto dal regista Salah Abu Seif, El banat waal saif per oltraggio (omosessualità, prostituzione), malgrado la versione ultimata dalla produzione. Stessa sorte è toccata ai film: Aby fawq al-chagara (Mio padre sull’albero) di Hussein Kamal nel 1969, con Abdelhalim Hafez e Mervat Amin,Al-Muzniboun (I Peccatori) di Saïd Marzouq nel 1975 e Khamsa Bab di Nader Galal nel 1983. Evocare la politica nel cinema egiziano non ha avuto successo proprio quando sono stati bocciati i film più audaci. Tratto da un romanzo di Nagib Mahfuz, Al Karnak (1975) di Ali Badrakhan, che rievoca l’atmosfera di sospetto e repressione che regnava nei circoli studenteschi da parte della polizia politica sotto Nasser, ottenne l’approvazione solo accettando di allinearsi completamente alla retorica del regime di Sadat. Negli ultimi tempi, la censura egiziana ha colpito anche un film collettivo composto da dieci cortometraggi dal titolo 18 Giorni sulla Rivoluzione del 25 gennaio 2011, benché sia stato presentato quasi solo al festival di Cannes del 2011.
Da notare anche come la visibilità di un film dà la possibilità di condannare, se non di censurare, una pellicola: con la complicità dei cani da guardia del regime3. Anche il pubblico egiziano può mostrarsi diffidente verso opere che violano i “costumi e le tradizioni” della società. Questo sistema di classificazione, si pensi al termine “terrorismo” per i casi giudiziari, consente di mettere tutto nello stesso calderone, anche se i temi tabù restano gli stessi: politica, sesso e religione. Non rispettando un certo ordine morale, le scene di sesso audaci suscitano da sempre l’ira dell’autorità.
“Oggi i censori hanno imparato dalla loro esperienza e stanno diventando sempre più zelanti”, dice Ahmed4, un giovane regista. E dalla censura all’autocensura, il passo è breve: “Non hai altra scelta che evitare certi argomenti o, almeno, evitare di trattarli apertamente”, aggiunge. “E se necessario, è meglio lasciare il paese”.
Oltre a una censura onnipresente, la produzione cinematografica è monopolizzata dal pubblico e dalle autorità militari, con conseguenti vincoli operativi e di distribuzione. A capo della produzione circola un solo nome: Synergy Art Production. Finanziata dai generali, la Synergy è nota soprattutto per le sue produzioni nazionaliste, di scarso valore estetico, che narrano l’eroismo del valoroso popolo egiziano, in particolare del suo esercito (Le Passage, 2019) – compresa la celebrazione del colpo di stato militare del 3 luglio 2013 nella seconda stagione della serie Al-Ikhtiar (La scelta). Su ogni fronte, Synergy ha prodotto inoltre la maggior parte delle produzioni (film, serie tv, videoclip, spot pubblicitari) della stagione del Ramadan 2020. A capo del colosso produttivo c’è Tamer Morsi che porta avanti una strategia a tutti gli effetti in linea con quella dello Stato, vale a dire controllare la produzione. A partire dai costi: con compensi al di sopra alla media di mercato, la società attrae una forza lavoro qualificata monopolizzandola, a scapito delle società di produzione indipendenti.
Strategie di resistenza
Di fronte a questo contesto, esistono però strategie di resistenza, o almeno di aggirare il sistema, per continuare a sostenere un cinema impegnato e indipendente, non monocorde, che si rifiuta di essere solo puro divertimento – ormai dominante5.
Prima di tutto, ci sono film che sfuggono alla censura perché si concentrano su tematiche sociali. È stato così negli ultimi anni con i film che trattano di molestie sessuali (Cairo 678 di Mohamed Diab nel 2010), degli emarginati in Egitto (Yomeddine di Abu Bakr Shawky nel 2018) o della vita quotidiana nelle aree urbane (19B di Ahmad Abdalla nel 2022). Soggetti fondamentalmente politici che passano attraverso le maglie della censura perché presentati in forma romanzata, ma anche perché si concentrano su ritratti sociali, senza tirare in ballo direttamente il sistema che li opprime. Ma tutti sanno davvero come stanno le cose.
Inoltre, ci sono alcune società di produzione indipendenti che continuano a fare il loro lavoro. È il caso di Red Star Production, Tri Pictures, Two Stories Productions e 7assala, la cui principale difficoltà rimane finanziaria. Il sostegno delle fondazioni, attraverso inviti a presentare progetti o la partecipazione ai festival internazionali, come il Red Sea Film Festival di Jeddah, a volte consente di ottenere ulteriori finanziamenti.
Il cortometraggio, terreno fertile per la sperimentazione
Inoltre, la scelta di una coproduzione permette di affrontare temi più strettamente politici – ricordiamo Clash di Mohamed Diab, coprodotto da Arte France Cinéma, che, uscito nel 2016, affrontava le opposizioni interne nella società egiziana dopo il golpe militare. A sua volta, anche Feathers (Il Capofamiglia) di Omar El Zohairy del 2021, malgrado la coproduzione, non è sfuggito alla censura in Egitto: nonostante il mix di generi, la realtà sociale del paese è apparsa senza dubbio troppo realistica per i censori. E poi trasformare il pater familias in una gallina, ha fatto davvero infuriare troppo...
Gli ultimi successi in Francia del regista egiziano Tarik Saleh, Omicidio al Cairo nel 2017 e La Cospirazione del Cairo nel 2022, che non potevano essere girati o distribuiti in Egitto, hanno dato paradossalmente ai registi della diaspora una certa connotazione politica, nonostante alcune difficoltà.
Infine, il cortometraggio, particolarmente apprezzato per la forma innovativa e la possibilità di girare all’interno della città, continua ad essere il terreno fertile privilegiato per i giovani registi. I am Afraid to Forget Your Face di Sameh Alaa (Palma d’oro per il cortometraggio a Cannes 2020), Hennet Ward di Morad Mostafa (2021) e Microbus di Maggie Kamal (2022) sono tutti esperimenti che permettono di testare i limiti estetici della messa in scena e del linguaggio, ma con una certa libertà. Sono registi che, spesso senza un soldo, perfezionano competenze tecniche, presentando le loro opere nei festival, negli istituti all’estero o sulle piattaforme digitali.
Tuttavia, come sottolinea la giovane regista Fatima6, “alcune opere tendono a scioccare per avere una maggiore visibilità, a scapito però della qualità narrativa ed estetica”. Detto questo, i cortometraggi rappresentano oggi l’avanguardia del cinema egiziano contemporaneo, e sono lo specchio di una gioventù creativa ma oppressa, con una distribuzione a livello internazionale7. In Egitto, vengono occasionalmente organizzati eventi a loro dedicati come lo Short Film Festival o il Manassat Film Festival al cinema Zawya, a maggio 2023.
Situato nel centro del Cairo, il cinema Zawya – l’unico d’essai in tutto l’Egitto – intende promuovere film indipendenti, contrastando l’egemonia commerciale. Lo Zawya offre uno spazio unico dove molti dei 23 milioni di abitanti della megalopoli possono guardare, tutti insieme, un film egiziano o straniero, da quelli palestinesi ai film polacchi. “È una questione di resistenza”, dice una delle responsabili, “ma è anche un miracolo che si ripete ogni volta”. E non si può che sostenerlo, visto il contesto. Tanto più che non esiste una rivista specializzata di cinema, e sono pochissimi i cine-club che sopravvivono, spesso con pochissime presenze.
Fin dalle origini, il cinema egiziano ha attribuito al dramma un posto di rilievo, che vale ancora oggi, solo che il dramma si è spostato dietro la macchina da presa, dall’altra parte dello schermo. Per non lasciare che invada ogni frammento di vita – e quindi d’opera – continua a sopravvivere, nonostante tutto, un cinema indipendente, che porta con sé un po’ di quella scintilla creativa di un cinema ormai centenario. Tanto che gli artisti che continuano ad animarlo formano oggi, forse inconsciamente ma poco alla volta, una nouvelle vague egiziana improntata al neorealismo sociale. Per far comprendere meglio una realtà che è sotto gli occhi di tutti.
1Secondo la tesi di Magdy Mounir El-Shammaa in The National Imaginarium: A History of Egyptian Filmmaking, 2021, The American University in Cairo Press
2“Cinéma: de l’âge d’or au déclin” di Thomas Richard in Atlas de l’Égypte contemporaine diretto da Hala Bayoumi e Karinne Bennafla, 2020, CNRS Éditions.
3« A brief history of film censorship in Egypt », Mada Masr, 17 dicembre 2016.
4Il nome è stato modificato
5Cédric Biagini et Patrick Marcolini, Divertir pour dominer 2: La culture de masse toujours contre les peuples, edizioni L’échappée, 2019.
6Il nome è stato modificato
7Promise You Paradise di Mourad Moustafa ha ricevuto il Rail d’or alla Settimana della Critica al Festival di Cannes 2023.