Arte

Egitto. Le molteplici vite di Inji Efflatoun

Da qualche mese, una sala del Museo d’Arte Moderna del Cairo è interamente dedicata all’opera di Inji Efflatoun, artista impegnata scomparsa nel 1989 all’età di 65 anni. Femminista e attivista di sinistra, il suo percorso è emblematico del ruolo importante delle donne nell’arte moderna egiziana, dall’inizio del secolo scorso.

Inji Efflatoun, Autoritratto, 1958

È a suo agio seduto dietro la scrivania in legno massello di Inji Efflatoun. “Una scrivania con otto cassetti” dice come se stesse facendo un rapido inventario. “Laggiù, c’è il suo cavalletto. Ho anche molti dei suoi pennelli e il materiale da disegno, che presto sistemerò in un’apposita bacheca, con i suoi diplomi, gli opuscoli, i suoi libri e i saggi sulla sua opera”. Khaled Hassan Ghassoub, quarantenne, è da oltre dieci anni il responsabile della mostra permanente di Inji Efflatoun, donata dalla pittrice al Ministero della Cultura egiziano, prima della morte nel 1989. Cosciente delle potenzialità degli archivi per la sua attività politica, la pittrice organizzò da sola il proprio materiale documentario. Dopo il 2018, parte di quest’archivio, insieme a documenti appartenenti alla sorella Gulpérie Efflatoun-Abdalla, è entrato a far parte dell’Istituto Francese di Archeologia Orientale (IFAO), nell’ambito di un programma dedicato alla storia delle grandi famiglie. Ghassoub parla spesso di lei in prima persona, non per una forma di egocentrismo, ma per la grande passione e ammirazione che nutre per il percorso artistico di questa pittrice che ha scoperto quando ha iniziato a lavorare nel 2005 al Palazzo del Principe Taz, nella vecchia Cairo d’epoca fatimide.

“Il Palazzo, che prima ospitava la sua eredità, per ora è chiuso a causa dei lavori di restauro; è per questo che i sessanta dipinti della collezione sono esposti, da circa sei mesi, in questo spazio al primo piano del Museo d’Arte Moderna”. E, naturalmente, è proprio Ghassoub a seguire l’esposizione, ormai parte integrante della sua vita. “Il mio destino è legato a quello di Inji”, come a dire “i matrimoni sono scritti nel cielo”. “Era nata nel 1924 da una famiglia francofona dell’alta borghesia egiziana, per questo ammiro tantissimo la sua ricerca di giustizia sociale e la sua personalità ribelle”, aggiunge il curatore del mini-museo Inji Efflatoun, lui stesso artigiano del rame e del legno, professione ereditata da suo padre.

Ghassoub è in buona compagnia, in questa sala angusta, calda come un forno. L’aria condizionata non funziona, perché la collezione del Museo d’Arte Moderna, che conta più di dodicimila opere, è sotto restauro da tempo. “Qui, c’è una foto con sua sorella Boulie (diminutivo di Gulpérie), nel giardino della loro grande casa di famiglia a Shubra, trasformata in un liceo pubblico, all’indomani della rivoluzione del 1952. Lì, ci sono opere del primo periodo, fortemente influenzato dai surrealisti, in particolare dal suo maestro, Kamel el-Telmissany, pittore e cineasta, che fu uno dei fondatori del gruppo Arte e Libertà, di orientamento comunista e antimperialista1. Il suo primo quadro, La Bella e la Bestia, risale al 1941”, precisa il suo fedele ammiratore, ripercorrendo le fasi principali del suo percorso artistico.

Si comincia con i periodo surrealista caratterizzato dall’uso di toni scuri e da scene che mostrano una ragazza alla ricerca di sé, in fuga da un florilegio di piante, che si allungano in maniera tentacolare, inseguendola ovunque come fossero dei mostri in un incubo. Agli occhi dell’artista, queste piante rappresentano la paura di creature sofferenti, i loro sogni, il loro stato d’animo. Il suo mentore Kamel el-Telmissany, che le dava anche lezioni private d’arte, l’aiutò a liberarsi, a esprimere la sua rabbia per l’ingiustizia sociale e le sue origini aristocratiche grazie alla forza dell’immaginario surrealista. L’artista e regista egiziano le permise inoltre di sviluppare la sua passione per il marxismo e per le idee di sinistra, che la pittrice aveva già scoperto frequentando il liceo francese del Cairo, insieme alle idee di pensatori rivoluzionari come Voltaire, Jean-Jacques Rousseau, Denis Diderot e Claude-Henri de Rouvroy conte di Saint Simon.

The Girl and the Beast, 1941

Memorie postume

Inji Efflatoun ne parla dettagliatamente nelle sue memorie, pubblicate postume in arabo dall’amico Sa’id El-Khayal2. Parla di come l’arte l’abbia introdotta nei circoli intellettuali egiziani, grazie soprattutto alla partecipazione alla prima mostra annuale del gruppo Arte e Libertà tenutasi al Cairo presso il Grand Hotel Continental nel 1942, e di come, due anni dopo, si unì al gruppo comunista Iskra. Tutto questo, prima di aderire nel 1952 al Movimento Democratico per la Liberazione Nazionale (“Haditu“), poi abbondonato per il Partito Comunista Egiziano.

Fu un periodo di intensa militanza, durato quasi quindici anni in cui prese parte alla nascita della Lega delle giovani donne delle università e degli istituti, che adottava una linea di sinistra anticolonialista, tra le altre attività volte a favorire la parità di genere. Tutto questo rientrava, per l’artista, in una più ampia lotta per le libertà e l’indipendenza politica del Paese.

È in questo periodo che Inji Efflatoun, che aveva parlato quasi esclusivamente in francese fino all’età di 17 anni, cominciò a migliorare il suo livello di arabo, per recuperare il tempo perduto e trovare un maggior radicamento all’interno della cultura egiziana. Rifiutò anche di andare in Francia per studiare Belle Arti a Parigi, sentendosi in colpa per essere una “figlia di ricchi”, tacciata spesso dalla stampa locale di essere una “comunista con il guardaroba pieno di vestiti” e trattata ogni tanto dai suoi coetanei come una proveniente da una classe sociale differente. Si accontentò di seguire un corso gratuito all’Università del Cairo, oltre ai laboratori con l’artista svizzera Margo Veillon (1907-2003) e il pittore egiziano Hamed Abdalla (1917-1985), intensificando i suoi viaggi a Luxor, nella regione nubiana, nelle oasi, ecc.

Una famiglia di ribelli

È negli anni ’50 che si è consolida la notorietà di Inji Efflatoun all’interno della comunità artistica. Il suo lavoro viene esposto nel padiglione egiziano della Biennale di Venezia nel 1952, e alla seconda Biennale di San Paolo nel 1953. Più avanti, probabilmente dopo l’incontro con il muralista messicano David Alfaro Siqueiros, la pittrice adotta uno stile più vicino al realismo socialista, come testimoniano i dipinti realizzati durante la seconda metà degli anni ‘50. L’artista privilegia così i ritratti di contadini senza terra e di tessitrici, l’ambiente dei suq, reinterpretando anche episodi violenti dell’occupazione inglese, come ad esempio nell’inchiostro su carta dal titolo Massacro di Denshawai 3.

La Mietitura (The Harvest), 1966

I soggetti dei quadri esposti al museo o quelli più celebri la dicono lunga sulle sue idee, si pensi, ad esempio, alla serie dei fedayin, il dipinto Lan nansa (“Non dimenticheremo”), ispirato a una manifestazione di donne contro l’occupazione britannica in ricordo dei martiri, e Rouhy enti talqa (“Va’, sei ripudiata”). Un’opera che parla del suo femminismo, ma potrebbe anche essere riferito alla sua condizione di figlia di divorziati, giacché i suoi genitori si separarono nell’anno della sua nascita. “Mia madre si fece coraggiosamente carico della sua condizione di giovane donna divorziata, a quel tempo […] Decise di riorganizzare la sua vita in base ai propri principi, nel rispetto delle tradizioni e dell’ordine costituito […] Riuscì ugualmente ad entrare nel mondo della moda, con l’appoggio di Talaat Harb (l’uomo più potente dell’economia egiziana), e con l’aiuto della banca Misr, aprendo (nel 1936) la boutique Salha nella zona intorno a Shawarbi (nel cuore del Cairo); un settore fino ad allora gestito esclusivamente da stranieri ed ebrei” (Memorie).

Dalla madre, la prima stilista egiziana, l’artista ha ereditato il suo carattere ribelle che descrive così: “A soli 12 anni ho capito che la ribellione è un elemento essenziale per combattere l’ingiustizia, e oggi posso confermare – senza orgoglio, né modestia – che è un tratto caratteriale che non mi ha mai abbandonato”.

Soldato (Fedayin), 1970

Dipingere dietro le sbarre

Ed è proprio quest’aspetto della sua personalità che l’ha condotta in carcere, nel corso di una grossa retata contro i comunisti ad opera del presidente Gamal Abd el-Nasser4. Rimase in carcere dal 1959 al 1963, il tempo di aprire la strada a un nuovo periodo artistico, dipingendo la vita quotidiana del carcere. La pittrice ottenne l’autorizzazione a fare entrare tutto il suo materiale, continuando a fare ritratti di detenute, secondine, ecc. Lì dentro, ognuna cercava di svagarsi come poteva, e così l’artista ha descritto magnificamente quel tempo trascorso tra quelle donne, in quelle anguste celle, affollate di corpi o dove ci si deve spostare in massa...

Donne accovacciate, 1960

Qui viene aggiunto un tocco di colore alle tele, per alleggerire il clima, a volte trasformando le vesti da detenute in abiti più colorati, catturando l’anima di un luogo così sordido. “Il direttore del carcere mi portava via i quadri, poi me li restituiva dopo un po’, dicendomi che nessuno li voleva comprare, perché erano troppo tristi. Ero in preda al panico all’idea di perdere la possibilità di disegnare in carcere; e fu così che gli abbiamo proposto di acquistare le tele noi stesse, io e le mie compagne di cella, a una o due sterline”, rivela nel suo libro di memorie. È ricorsa a qualunque astuzia per far arrivare le sue opere alla sorella Boulie, fuori dal carcere. Una delle detenute, soprannominata “treno espresso”, aveva il compito di svolgere questa missione in cambio di una piccola somma di denaro, avvolgendo i ritratti intorno al suo corpo.

Per alleviare la sofferenza, alla fine addomesticò una gatta, che aveva soprannominato “Rivendicazioni”, una stella, la sua migliore compagna di veglia, e un albero che guardava attraverso la sua finestra, vicino al filo spinato. “Ho continuato a dipingerlo, una stagione dopo l’altra, cosa che mi ha insegnato a scrutare minuziosamente i dettagli e a soffermarmi su un motivo preciso […] e così le mie compagne l’hanno chiamato l’albero di Inji” – ancora dalle sue memorie –, specificando che le faceva piacere dipingere anche le vele delle barche che vedeva in lontananza, durante gli anni della detenzione.

Shajara Khalfa Al-Aswar (Albero dietro le mura), ca. 1960:

Luce bianca e alberi d’arancio

Alla fine, fu la visita ufficiale in Egitto del Presidente del Consiglio dei ministri sovietico, Nikita Chruščëv, in occasione dell’inaugurazione del primo tratto dell’Alta diga di Assuan, a salvare Inji e le sue compagne nel 1963. Una visita che doveva segnare l’importanza strategica dell’alleanza con l’URSS con numerose trattative, ma dietro la ferma richiesta di Chruščëv di liberare i prigionieri comunisti5. È grazie a questo che l’artista ha potuto dedicarsi maggiormente alla sua arte, realizzando una pittura più raffinata che rivela il bianco della tela. È la fase della “luce bianca”, del puntinismo e delle pennellate di colore, che ricordano le opere di Vincent Van Gogh.

Collecting eggplants, 1986

Pur continuando a mostrare un forte interesse per la classe operaia e le scene di vita rurale, come nelle opere degli anni ’70 e ‘80, la pittrice ha inoltre espresso la sua liberazione attraverso lo stile. È questo il periodo preferito dal curatore del museo, che comprende i dipinti realizzati sopratutto nell’azienda agricola di famiglia a Kafr Shukr, nel delta del Nilo, dove i dettagli sbiadiscono, si semplificano e i colori diventano più chiari: panni stesi, raccolta di arance e soprattutto la sua ultima pittura a olio del 1988, dove si vedono delle donne che stanno lavorando l’impasto. “È morta il 15 aprile 1989, un giorno prima del suo compleanno”, conclude Khaled Ghassoub, mentre regola l’illuminazione del quadro.

1Un collettivo di artisti e intellettuali attivo tra il 1939 e il 1945, che riuniva i maestri del surrealismo egiziano tra cui George Henein, Ramses Younan, Fouad Kamel e Kamel el-Telmissany, che avevano lanciato un grido di protesta con il loro manifesto rivoluzionario “Viva l’arte decadente”.

2Pubblicate per la prima volta da Soad El-Sabah nel 1993, poi ripubblicate nel 2014 da Dar El-Thaqafa Al-Gadida, con il titolo di Mudhakkirāt Inji Efflatoun: Min al-tufūla ila al-sign (Memorie di Inji Efflatoun. Dall’infanzia al carcere).

3Il 13 giugno 1906, alcuni ufficiali delle forze britanniche d’occupazione che stavano sparando ai piccioni nella campagna egiziana si scontra, per motivi poco chiari, con i contadini egiziani del villaggio di Denshawai, nel delta del Nilo. Durante la fuga, un ufficiale muore probabilmente per un colpo di calore. Il proconsole britannico Lord Cromer convoca una corte militare e annuncia in anticipo che la corte emanerà le pene di morte. Quattro contadini verranno impiccati, altri condannati alla fustigazione davanti alle loro famiglie.

4Sull’opposizione laica, e in particolare, marxista in epoca nasseriana si veda Gennaro Gervasio, Da Nasser a Sadat. Il dissenso laico in Egitto, Roma, Jouvence, 2007. NdT

5Si veda Alain Gresh, Éric Rouleau, ambassadeur du monde sul suo libro Dans les coulisses du Proche-Orient: Mémoires d’un journaliste diplomate (1952-2012) edito da Fayard nel 2012.