Etel Adnan, la pittura al di là delle parole

«Sono pessimista ma ho bisogno di credere in un mondo migliore» · La grande artista Etel Adnan, nata a Beirut nel 1925, ci ha lasciati. Ripercorriamo un’opera eminentemente poetica che dagli anni Settanta coniuga creazione letteraria e plastica.

Etel Adnan, Olio su tela
P.K. documenta Kassel 2012

Esisto perché vedo i colori (…) Ma il colore non si può possedere, se ne può solo accettare l’esistenza. E se non è possibile possedere il colore, allora non è possibile possedere. Niente e nessuno1.

Etel Adnan dipinge da oltre cinquant’anni, ma solo nel 2012 la Documenta de Kassel, l’ha rivelata al grande pubblico occidentale, seguita della Biennale del Whitney Museum of American Art. Tre mostre museali sono state successivamente organizzate tra il 2015 e il 2016 intorno alla sua opera, alla Haus Konstruktiv di Zurigo, alla Serpentine Gallery di Londra e all’Institut du monde arabe (IMA) di Parigi.

Pittrice, poetessa e scrittrice, Etel Adnan è nata a Beirut nel 1925 da padre siriano, funzionario dell’Impero ottomano, e madre greca di Smirne. Alla fine degli anni Cinquanta, dopo gli studi alla Sorbona e ad Harvard, parte per la California per insegnare filosofia dell’arte al Dominican College di San Rafael. Un giorno, una professoressa d’arte le chiede: «Come fai a insegnare filosofia dell’arte se tu stessa non dipingi?». Allora, racconta la sua amica Simone Fattal2, «su invito di Ann, [Etel] si è seduta a un tavolo vicino a una finestra che dava su una caletta e degli alberi di fico, nel dipartimento d’arte dell’università, e si è messa a dipingere su scarti di tela, senza badare alla loro forma e dimensione».

Le sue prime opere sono composizioni astratte dai colori giustapposti a bande uniformi, usciti direttamente dai tubetti e applicati con la spatola. Poi, durante gli anni Sessanta, scopre il “leporello” giapponese. Esplora allora questo nuovo supporto e ne fa un mezzo di espressione in cui convergono disegno, pittura e scrittura, e che costituisce secondo lei il suo apporto specifico alla pittura. Questi libri a fisarmonica consentono infatti uno svolgimento temporale della visione, una narrazione ricomponibile della poesia, in un dialogo con il disegno, l’inchiostro, l’acquarello e la mina di piombo. Crea così dei fregi di diversi metri, minimalisti e monumentali nello stesso tempo, che possono stare in tasca una volta ripiegati ma che non si appendono alle pareti.

Se la mostra all’Istituto del mondo arabo predilige i quadri e i leporelli, oltre a esporre alcuni arazzi, la sua produzione eterogenea comprende anche cartografie, disegni, film, romanzi, pièce teatrali e pitture murali. Per spiegarla, non una parola nella sua ricerca plastica né l’ombra di un discorso teorico da parte di colei che, secondo Mahmoud Darwish, «non ha mai scritto un rigo sgraziato». Perché Etel Adnan, che parla il turco e il greco dei suoi genitori, il francese, l’inglese, e ha imparato l’arabo nelle vie di Beirut, ritiene che dipingere sia «in qualche modo risolvere un problema di lingua». Un problema di lingua non meglio definito. Tuttavia, confida oggi nell’intimità del suo appartamento parigino, «di quel mondo arabo che più di ogni altra cosa avevo a cuore, non ne conosco bene la lingua». La pittura è un linguaggio naturale, «una musica visiva» al di là delle parole.

L’espressione visiva elude il linguaggio verbale. Ci portiamo dentro linguaggi autonomi destinati a percezioni specifiche. Perciò è inutile tradurre una dimensione in un’altra.

La pittura si sceglie così come si sceglie – o meno – una lingua e se ne accettano gli strumenti e i limiti. Così, un mal di schiena ricorrente la costringe a lavorare su piccoli supporti, su una superficie piana. I pennelli? Sono una seccatura, vanno lavati ogni volta, spiega con un sorriso. È più facile lavorare con la spatola: si prende un fazzoletto e la si pulisce. Il mistero non risiede nell’atto – tutti possono dipingere – ma forse risiede nella bellezza fisica della terra, con le sue montagne, colline, fiumi e colori, e nel legame dinamico che l’occhio instaura con la natura, il mondo e tutte le cose circostanti. «La pittura esprime il mio lato felice, quello che è tutt’uno con l’universo» afferma. Nei suoi quadri ci sono i ricordi di paesaggi, ma non di paesaggi precisi. Sono il frutto di un’accumulazione di esperienze, di tutti i paesaggi, di tutti gli scorci da tutte le finestre. I formati sono piccoli, ma parlano di uno spazio infinito che li trascende.

Quando, negli anni Settanta, si trasferisce a Sausalito vicino San Francisco, Etel Adnan scopre il monte Tamalpais, visibile dalle sue finestre. Onnipresente e come astrattizzato nei suoi quadri, questo monte è stato, come ella stessa ammette, il suo più grande incontro, ed è diventato il suo punto di riferimento, la sua casa lontano dalla casa di origine. Ovunque ella vada, lo porta con sé nel suo bagaglio e vive al suo fianco. “Quella montagna era il mio punto fermo – dice. Bisognava appigliarsi a qualcosa. Delle persone, un lavoro, un paese. Vogliamo sempre legarci a qualcosa. Quella montagna era bella, viva. Ne ero affascinata, avvinta. Il mio polo. Ho letteralmente piantato lì le mie radici, grounded, conficcata nel terreno”.

Legarsi a qualcosa è tanto una necessità quanto una realtà. Quando le si chiede di definire la sua identità, se si considera libano-americana, libanese, orientale… risponde che le identità, oltre a essere molteplici, sono relative e cangianti in base al luogo e al tempo, ovvero connesse.

Guardo questo bicchiere d’acqua e ci vedo dentro tutta la stanza. Non è a sé stante, non esiste senza la stanza. Niente è a sé stante, tutto è connesso.

L’immagine formale della montagna è quella che meglio incarna l’espressione piramidale della nostra identità. Essa cambia ogni ora del giorno, eppure resta lì, uguale. «Il nostro io è costituito dai successivi divenire della montagna, la nostra pace risiede nella sua ostinazione a essere» è la frase finale di Viaggio al Monte Tamalpais.

«Sono pessimista ma ho bisogno di credere in un mondo migliore», dice l’artista novantunenne, che non si stanca di parlare delle lotte di ieri e del terzo mondo in cui ha profuso a lungo il suo impegno, dell’Apocalisse araba, titolo di un’importante raccolta poetica scritta durante la guerra del Libano, in un Vicino Oriente dilaniato. Probabilmente, quel mondo migliore va inteso non come a portata di mano, ma collocato su un altro livello, là dove la visione del colore, la certezza della montagna e la poesia ininterrotta generano un’energia silenziosamente giubilante, che costantemente – e coraggiosamente – rinasce.

1Voyage au mont Tamalpaïs, manuella éditions, 2013; in Italia: Viaggio al Monte Tamalpais, Multimedia Edizioni)

2Etel Adnan, la peinture comme énergie pure, L’Échoppe, février 2016.