Iran. Fariba Adelkhah, diari del carcere

Fariba Adelkhah, ricercatrice di Sciences Po, nel suo ultimo saggio torna sui suoi oltre quattro anni di detenzione a Teheran. Della sua esperienza di prigioniera scientifica fornisce un’analisi da antropologa, affermando il suo atteggiamento di studiosa di fronte all’arbitrarietà.

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Parigi, 11 novembre 2024. Fariba Adelkhah ospite del programma televisivo «C à vous»
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L’esperienza carceraria è stata imposta a Fariba Adelkhah un giorno di giugno del 2019, accusata e poi condannata per attentato alla sicurezza nazionale della Repubblica islamica d’Iran. Le ingiuste incriminazioni per spionaggio formulate dai Guardiani della rivoluzione alla fine sono state abbandonate dai giudici. Incarcerata nella famosa prigione di Evin a Teheran, posta agli arresti domiciliari e poi nuovamente arrestata, Adelkhah ha anche condotto un lungo sciopero della fame. Solo a ottobre 2023 la ricercatrice franco-iraniana ha riacquistato la sua libertà di movimento ed è potuta tornare a Parigi. Da allora, ha avuto un unico desiderio, quello di rimettersi al lavoro e recuperare il tempo perduto. Prisonnière à Téhéran è il frutto di questo suo atteggiamento.

Libertà accademica a rischio

Nel corso della sua lunga carriera, Fariba Adelkhah ha affrontato una molteplicità di temi: genere, migrazioni, flussi transnazionali, pellegrinaggi. È insomma un’antropologa del movimento, delle «mille e una frontiere dell’Iran», sempre attenta ad ancorare il suo lavoro sul campo sia in Iran che in Afghanistan, ma anche nel Golfo o in California. E dunque vincolata, costretta, ma sempre dotata di grande immaginazione, la studiosa ha fatto della sedentarietà del carcere un nuovo oggetto di riflessione, un farsi da parte imposto, ma innegabilmente fruttuoso.

Il suo caso e quello del suo collega Roland Marchal, arrestato insieme a lei e liberato quasi dieci mesi dopo, avevano provocato un’importante mobilitazione nella comunità scientifica. La loro detenzione incarnava i legittimi timori di fronte alle pressioni esercitate sulla libertà accademica da sempre più paesi, non solo in Medio Oriente. È stato grazie a questa mobilitazione e alla sua stessa determinazione che Fariba Adelkhah è stata graziata, senza però ricevere l’assoluzione dalle accuse infondate. Senza quindi vedere la sua reputazione riabilitata, e senza avere la garanzia di un eventuale ritorno in Iran per condurre le sue ricerche. Fare antropologia in carcere

In Prisonnière à Téhéran Adelkhah ha deciso di fare di questo campo non scelto un luogo di esercizio della sua pratica di ricercatrice in scienze sociali, al di là del trauma evidente della sua condanna arbitraria e dei mesi trascorsi tra quattro mura. Se i lavori scientifici sulle carceri si limitano generalmente a delle incursioni molto puntuali, Fariba Adelkhah ci mostra la quotidianità, le strategie individuali e collettive nella sezione femminile, le interazioni con le autorità penitenziarie e giudiziarie, senza mai autocommiserarsi.

Si tratta di un’opera straordinaria, perché lascia trasparire la dimensione umana, persino intima, del lavoro nelle scienze sociali, troppo spesso elusa e qui invece, per cause di forza maggiore, situata al cuore della riflessione. Fariba Adelkhah addomestica l’immobilità e l’analizza: «la vera tortura era l’attesa, come una condanna anticipata, senza tribunale, senza giudice né sentenza». Traspare allora il coraggio e l’ingegno dell’autrice, ma anche quello delle sue compagne di sventura, detenute o anche secondine, per rendere la loro condizione più sopportabile.

La serie di capitoli, come altrettante pillole e cronache snocciolate una dopo l’altra, offre uno sguardo non lineare sui suoi 53 mesi di detenzione. La liberazione finale non costituisce dunque l’atteso lieto fine né rappresenta la luce in fondo al tunnel, non c’è nessuna suspense, neppure amarezza. L’intenzione è un’altra, e si fonda su un desiderio di fare luce su un’esperienza, sicuramente opprimente e assurda, ma pur sempre umana e sociale, a tratti spirituale. A volte durante la lettura ci si può sorprendere anche a sorridere.

Una finestra sull’Iran contemporaneo

Prisonnière à Téhéran si sforza di mostrare e far comprendere le pratiche concrete delle detenute e dell’amministrazione. Tra questi aspetti si può citare quello della permeabilità dell’universo carcerario agli sconvolgimenti esterni, ad esempio nel periodo delle contestazioni del movimento «Donna, vita, libertà», e la persistenza di forme di impegno delle prigioniere, anche solo per rivendicare l’accesso all’acqua calda. Società politica in miniatura, la prigione stessa funziona come cassa di risonanza delle rivalità tra i diversi servizi di sicurezza e ministeri. «Se volessi scrivere un romanzo poliziesco mi basterebbe descrivere la quotidianità di Evin», azzarda l’antropologa. Oltre a quei passaggi in cui non si sottrae ai momenti di intima disperazione, Fariba Adelkhah mette in luce i momenti in cui affiora la solidarietà, il sale della vita e la sua poesia, facendo così del carcere una finestra sull’Iran per quello che realmente è.

Dunque, la forza del diario di appunti dell’antropologa conferisce all’opera nel suo complesso un carattere prezioso, pieno di speranza e di una tenerezza sorprendente. Lo sguardo dell’autrice sa trarre dagli eventi talvolta aneddotici e dai ritratti individuali delle riflessioni profonde. Il testo dimostra l’integrità dell’impegno scientifico di Fariba Adelkhah, lontano dai compromessi immaginati e inventati dalle menti dello stato iraniano con la loro ossessione per la sicurezza. L’opera funge così da rivalsa verso coloro che l’hanno creduta una spia, impedendole di fare il suo lavoro e incarna la testardaggine di un’accademica che, trasformando la privazione della libertà (la massima forma di coercizione) in un oggetto dell’antropologia, dimostra l’attaccamento irreprensibile al proprio mestiere. Il lettore ne esce impaziente di scoprire il seguito delle avventure scientifiche, a piede libero e in movimento, di questa grande ricercatrice.