
Sarra Grira —: Quando si parla del ruolo delle università israeliane e del loro ruolo nella colonizzazione e nell’occupazione della Palestina, si pensa soprattutto alla loro cooperazione con l’istituzione militare. Ma nel suo libro, lei dimostra che queste università sono state fin dalla loro creazione degli avamposti del progetto di colonizzazione sionista, citando il premier David Ben Gurion a sostegno. Tra gli elementi che lei mette in luce, c’è la scelta della posizione geografica dell’Università Ebraica di Gerusalemme, fondata prima ancora della creazione dello Stato di Israele, e dell’Università di Haifa.
Maya Wind — Considero le università israeliane come strutture destinate a far parte del progetto di colonizzazione, nel senso che rappresentano infrastrutture centrali per riprodurre e mantenere il progetto sionista. Le università contribuiscono a stabilire una società israeliana di insediamento sul territorio palestinese. Una dinamica che non è esclusiva solo di Israele. Ho lavorato a lungo in Nord America, dove ho imparato molto dai ricercatori indigeni che studiano il rapporto tra un’università e il progetto di colonizzazione dello Stato in cui è situata. Naturalmente, ogni contesto di colonizzazione è diverso: l’imperialismo francese, britannico e spagnolo hanno avuto temporalità e metodi distinti. Ma per molti aspetti, il progetto di colonizzazione israeliano si è sviluppato sotto l’egida dell’Impero britannico e condivide di fatto alcune caratteristiche con altri Stati coloniali britannici, come il Nord America, l’Australia e la Nuova Zelanda. Si possono trovare punti in comune anche con il Sudafrica. In tutti questi luoghi, i ricercatori autoctoni hanno però dimostrato che spesso le università dello Stato coloniale non solo sono state fondate su territori conquistati durante lo sterminio delle popolazioni già insediate, ma sono state anche protagoniste del loro sradicamento fisico e culturale.
L’appropriazione della terra è intrinseca a qualsiasi Stato coloniale. Ho capito che dovevo iniziare ad affrontare questa questione quando mi sono interessata al funzionamento del sistema universitario israeliano, in particolare a luogo in cui venivano fondate queste università. Perché scegliere una determinata località per insediarle? Alcune regioni interessano soprattutto Israele. La Galilea, ad esempio, continua ad ospitare la maggior parte dei palestinesi dalla Nakba, mentre è fondamentale per gli israeliani che temono la comparsa di rivolte o di un movimento di liberazione nazionale. Alla sua fondazione negli anni ‘70, l’Università di Haifa ha svolto un ruolo particolare in questo senso, mettendo in atto i programmi di quella che Israele chiama “giudaizzazione” – ovvero, in poche parole, colonizzazione – in risposta alle manifestazioni della Giornata della Terra1. Questa città preoccupava molto Israele perché era “molto palestinese”. L’idea non era quindi solo quella di controllare la regione della Galilea, ma anche di concretizzare e materializzare questo controllo nella stessa città di Haifa.
Se guardiamo al Naqab2, la situazione è ancora diversa. Il problema degli israeliani in quella zona è che si tratta di una regione desertica e pochissimi di loro volevano viverci. Era il più grande appezzamento di terra sotto il controllo israeliano, ma era difficile insediarvi delle colonie. Nel 1969, Israele ha fondato quindi l’Università Ben Gurion utilizzando elementi tipici del linguaggio coloniale come “far fiorire il deserto” e altri slogan del movimento sionista. È impossibile comprendere la colonizzazione del Naqab senza comprendere questo meccanismo. In seguito, il progetto si è ampliato fino a includere l’esercito, e ancora oggi Israele sta trasferendo le sue grandi basi militari dal centro del paese, dove la terra è diventata molto costosa, verso il Naqab. L’Università Ben Gurion rende possibile questa transizione in modo molto concreto e materiale. È interessante notare inoltre che gli stessi studenti fanno parte del progetto di colonizzazione, costruendo quelli che chiamano “villaggi studenteschi”, che in realtà non sono altro che colonie studentesche su terre beduine palestinesi. In questo modo gli studenti aiutano direttamente lo Stato a spodestare queste comunità locali.
S. G.—: Lei sottolinea come la cooperazione tra le università e lo Stato di Israele vada oltre gli ambiti dell’ingegneria e della difesa, e riguardi anche le scienze umane e il diritto. È facile intuire perché l’archeologia sia una disciplina molto delicata, dato che Israele sente il bisogno di inventarsi una legittimità storica. Ma gli esempi degli studi sul Medio Oriente (Middle East studies) e del diritto sono particolarmente interessanti. Potrebbe dirci qualcosa di più al riguardo?
M. W.—: Per me è un argomento importante perché esistono campi di ricerca sulla militarizzazione dell’istruzione superiore. Ad esempio, al culmine della Guerra fredda, le università statunitensi sono state molto attive nella realizzazione di progetti di studi regionali sull’Asia orientale, la Russia o anche la Cina. Alcune materie sono state interamente integrate in progetti destinati al servizio dell’imperialismo, sia producendo conoscenze che sviluppando armi per gli Stati Uniti. Queste relazioni tra l’università e le ambizioni geopolitiche nazionali continuano ad esistere. Naturalmente, anche la Francia e molti altri paesi nel mondo sono coinvolti. Ma oltre a evocare l’ambito militare, volevo anche, e forse soprattutto, mostrare come la produzione di conoscenze, e in particolare l’epistemologia sionista israeliana, sia concepita e sviluppata al servizio del progetto di colonizzazione. Il mio obiettivo era quello di esporre gli aspetti meno intuitivi in cui funziona questo sistema, perché penso che sia fondamentale comprenderli per capire fino a che punto il progetto di colonizzazione coinvolga l’intera società.
Quando si assiste al genocidio in corso a Gaza, ci si chiede come mai il mondo non sia riuscito a fermarlo ritenendo responsabili gli individui, dal punto di vista del diritto internazionale. Noura Erakat, figura di spicco nel campo del diritto internazionale e dei diritti umani citata nel libro oltre ad essere una cara compagna con cui ho lavorato per anni, usa spesso la seguente analogia: il diritto è una vela che avanza al vento della politica. Non è qualcosa di fisso, applicato alla realtà in modo sistematico, ma è sempre soggetto all’interpretazione di chi che lo utilizza.
È evidente che le università israeliane hanno lavorato molto a favore di interpretazioni giuridiche innovative. Il diritto internazionale dei diritti umani, che include il diritto della guerra, è sempre soggetto a interpretazione. Nel corso degli anni, Israele, attraverso studi giuridici, ha sistematicamente eroso la legittimità di istituzioni internazionali come le Nazioni Unite (ONU), la Corte Penale Internazionale (CPI) e la Corte Internazionale di Giustizia (CIG), minando la loro autorità nel giudicare i crimini di guerra israeliani, l’occupazione e l’apartheid. E quando sono state avviate delle indagini giuridiche internazionali, come nel 2014, durante la massiccia offensiva su Gaza – orrori che non avremmo mai creduto che Israele fosse in grado di superare – sono stati commessi crimini di guerra estremamente gravi. Ma con la complicità delle università e dei giuristi, la giustizia israeliana si è immediatamente mobilitata per minimizzare qualsiasi responsabilità dello Stato. Di conseguenza, Israele non è mai stato ritenuto responsabile. Ed eccoci daccapo, dieci anni dopo. Nel mio libro, ho voluto mostrare come questo processo non sia avvenuto dall’oggi al domani, ma si è costruito nel corso dei decenni. E anche se ho consegnato il manoscritto prima dell’inizio della fase genocida della colonizzazione, il mio libro espone i meccanismi che l’hanno resa possibile.
I Middle East studies costituiscono un altro esempio interessante. La School of Oriental Studies (Scuola di Studi Orientali) è stata una delle prime tre facoltà fondatrici dell’Università Ebraica di Gerusalemme, il che dimostra l’importanza che Israele attribuisce alla comprensione di ciò che è l’“Oriente”, almeno dal suo punto di vista. Non è mai stato un progetto civile, ma, fin dall’inizio, profondamente militare. Il mondo accademico e i servizi di sicurezza statali israeliani erano strettamente legati: i governatori militari assegnati ai territori palestinesi occupati sono diventati spesso professori universitari e viceversa. Queste interazioni la dicono lunga sul modo in cui Israele ha sempre considerato lo studio della lingua araba e del Vicino Oriente come un progetto militare.
Si può notare inoltre che il primo e più importante dipartimento di studi mediorientali dell’Università Ebraica comprende un programma di formazione per i servizi di intelligence. Un esempio che testimonia le relazioni storiche tra l’istruzione superiore israeliana e l’esercito, nonché il modo in cui questa disciplina continua ad essere direttamente al servizio dello Stato.
S. G.—: Nonostante tutto ciò a cui lei fa riferimento, in paesi occidentali come la Francia è difficile unire le persone dietro la richiesta di boicottaggio delle università israeliane. Le università continuano ad essere percepite come gli ultimi spazi progressisti possibili in una società israeliana di estrema destra. Eppure, lei dimostra che è necessario decostruire questa immagine delle università israeliane come luoghi di scambi intellettuali solidali e progressisti, anche attraverso l’esempio dei “nuovi storici israeliani” e il modo in cui sono stati trattati dalle loro istituzioni.
M. W.—: Assolutamente sì. Uno dei motivi per cui ho scritto questo libro è che, quando lavoravo nel mondo accademico nordamericano, mi sono trovata costantemente di fronte all’idea di università israeliane dipinte come bastioni liberali del pluralismo. La mobilitazione dei movimenti studenteschi in Occidente pro-Palestina ha contribuito ad aprire un po’ di più gli occhi su questo argomento. Ma nel complesso, il mondo accademico occidentale ha sempre cercato di tenere all’oscuro la questione palestinese: non leggiamo i lavori dei palestinesi, non includiamo le opere palestinesi nei nostri programmi e c’è una grande mancanza di interesse per il pensiero intellettuale palestinese in Occidente. È un fenomeno che produce molta ignoranza.
Allo stesso tempo, gli accademici occidentali intrattengono relazioni molto strette con i ricercatori israeliani. Non è una coincidenza che la narrazione sulle università israeliane sia stata accuratamente elaborata dagli israeliani e poi accettata acriticamente dai ricercatori occidentali. Si tratta di un problema reale che fa emergere il razzismo che persiste in Occidente, ma anche il modo in cui sono stati strutturati questi legami accademici. L’affinità tra il sistema accademico israeliano e quello occidentale è stata concepita per escludere i palestinesi e promuovere il sionismo dominante. Sono legami che servono a proteggere le università israeliane, offrendo loro legittimità e costanti finanziamenti. L’esempio di Horizon Europe3, che include Israele, è davvero incredibile in tal senso. Israele non rispetta nemmeno i requisiti di base delle leggi europee, e molti paesi che vorrebbero beneficiare di tali finanziamenti, come le università palestinesi e del Medio Oriente, ne sono esclusi. Ho constatato tutto questo con i miei occhi quando ho trascorso sei settimane in Europa nella primavera del 2024, durante le mobilitazioni studentesche. Ho incontrato studenti militanti, professori, personale accademico guidando delegazioni per incontrare i rettori delle università europee in Belgio, Paesi Bassi, Irlanda e Regno Unito. Ogni volta che ho parlato con dirigenti, presidi e rettori responsabili dei programmi di scambio internazionale e dell’amministrazione dell’istruzione superiore, ho posto la stessa domanda: “Conoscete almeno un responsabile universitario palestinese? Un rettore?”. Non hanno alcun rapporto con il mondo accademico palestinese. Gli israeliani, invece, sono invitati in Europa grazie a borse di studio, anni sabbatici e tour di conferenze, mentre i palestinesi sono isolati da Israele. E gli occidentali partecipano attivamente all’isolamento degli intellettuali palestinesi. Per non parlare della hasbara e di tutti gli sforzi che lo Stato israeliano ha compiuto per promuovere la sua propaganda in Occidente e nei campus universitari.
Non è una novità e dura da almeno vent’anni, in particolare dalla seconda Intifada. Ma visto che sta crescendo l’attivismo filopalestinese nei campus occidentali, Israele se ne è immediatamente preoccupato. Ha quindi iniziato a intercettare questi movimenti, a delegittimare gli attivisti spiandoli e a promuovere la propria narrazione attraverso varie forme di propaganda e programmazione nei campus occidentali. Si tratta di una campagna calcolata, finanziata e portata avanti con grande attenzione da decenni.
S. G.—: Ciò è dovuto anche alla volontà di depoliticizzare il mondo accademico e universitario.
M. W.—: I docenti-ricercatori hanno un ruolo particolare in questo senso. Anche quelli che si considerano critici nei confronti dell’Occidente aderiscono a questa visione come se fossero dei filosofi un po’ fuori dal mondo, guidati solo dalle loro idee, senza alcun legame con la realtà politica. Ciò che manca è un’analisi più materialista. Da un punto di vista marxista, bisognerebbe porsi la questione delle condizioni materiali che consentono l’esistenza delle università: i luoghi in cui sono, le condizioni di finanziamento dei laboratori, il rapporto tra l’università e lo Stato, o ancora il ruolo che l’università svolge nel progetto di colonizzazione nazionale. Molto spesso, anche i ricercatori critici non si pongono questo genere di domande. Quando facciamo degli studi, quando produciamo delle conoscenze, dobbiamo chiederci a quale scopo, per quali fini lo facciamo. Molti insegnanti evitano di rispondere a queste domande. Ma ora c’è una generazione di studenti che ci pone davanti a queste questioni così preoccupanti e ci chiede: «questioni cruciali chiedendoci: “Vogliamo sapere per quale motivo alcuni documenti sono esclusi dalle nostre biblioteche. In che modo avete deciso cosa inserire nei nostri programmi? Dovete darci una risposta”. Il materiale delle biblioteche universitarie israeliane è molto eloquente a tal proposito. Non contengono letteratura, pensiero critico o contributi intellettuali palestinesi.
S. G.—: La Biblioteca Nazionale di Israele possiede ancora oggi molti libri e manoscritti palestinesi rubati, grazie alla legge sulla proprietà degli assenti dopo la Nakba, che non ha riguardato solo le case e le terre. È da decenni che i palestinesi lottano per recuperarli, con più o meno successo. Questa guerra è quindi anche una guerra contro la conoscenza.
M. W.—: Sì, è un altro aspetto importante di ciò che Karam Nabulsi chiama educidio, ovvero il fatto di impedire alla popolazione di accedere all’istruzione per reprimere la sua lotta per la liberazione — una classica tattica coloniale. L’identità intellettuale e la questione dell’accesso all’istruzione sono al centro di ogni movimento di liberazione, motivo per cui Israele ha sempre preso di mira ogni forma di istruzione palestinese sin dall’inizio. Ma anche l’Occidente, che ha partecipato a tale progetto, ha molto da rimproverarsi. Una questione che è al centro della svolta a cui assistiamo oggi, ora che gli studenti occidentali dicono “mai più” chiedendo di sapere quali son9 gli impegni delle loro università, quali programmi di scambio sostengono, quali legami hanno con i produttori di armi, compresi quelli locali occidentali. In sostanza, gli studenti pongono domande a cui molti insegnanti hanno sempre evitato di rispondere.
S. G.—: Secondo lei le università israeliane sono complici del genocidio in corso a Gaza?
M. W.—: Assolutamente sì. Un esempio molto concreto di ciò è il fatto che i luoghi in cui sono situate le università servono anche come spazi di addestramento per soldati, poliziotti, agenti della polizia segreta, agenti dei servizi di sicurezza... il che significa che gestiscono programmi di formazione dei soldati. Inoltre, il genocidio a Gaza non sarebbe possibile senza il contributo dei riservisti, che rappresentano la maggioranza dei soldati. Infatti, il numero di soldati di professione è molto basso; i ranghi dell’esercito israeliano aumentano a seconda delle necessità.
Israele dipende anche molto dai riservisti per mantenere i fronti – non solo a Gaza, ma anche in Cisgiordania, Libano, Iran, Yemen, Siria e oggi in Iran. È qui che le università israeliane svolgono un ruolo essenziale, poiché hanno fatto tutto quanto era in loro potere per facilitare la vita dei riservisti, in modo che potessero perpetrare un genocidio mentre continuavano i loro studi. Ad esempio, gli istituti universitari hanno concesso loro per tre volte vantaggi speciali come esenzioni dal servizio o agevolazioni negli esami. Hanno operato fianco a fianco con l’esercito per offrire borse di studio speciali ai soldati riservisti che stanno attualmente combattendo a Gaza. Ancora più scandaloso è il fatto che si sono accordate con il Ministero dell’Istruzione e con l’esercito per definire una politica generale che conceda crediti universitari agli studenti che prestano servizio come riservisti. Immaginate di andare a Gaza, partecipare al genocidio, poi tornare all’università e trovare che i vostri crediti universitari sono aumentati per questo! La loro partecipazione al genocidio è quindi diretta, poiché ne era più facile l’attuazione. Incoraggiano inoltre gli israeliani a prestare servizio nell’esercito dicendo loro: vi aiuteremo, non preoccupatevi, troveremo un accordo. Forza andate, fate il vostro dovere e noi faremo in modo che ne valga la pena.
Le università sono anche coinvolte nello sviluppo delle armi e delle tecnologie utilizzate a Gaza. Reprimono le mobilitazioni degli studenti e dei professori palestinesi contro la guerra cercando, per quanto possibile, di neutralizzare le fonti di informazione su questa Nakba ancora in corso. Questi istituti continuano inoltre a produrre materiale per la hasbara, come i documenti giuridici per confutare le accuse di genocidio mosse dal Sudafrica dinanzi alla Corte Internazionale di Giustizia (CIG). La repressione delle mobilitazioni studentesche è diventata più dura negli ultimi due anni, nonostante sia un luogo cruciale della resistenza al genocidio.
1La Giornata della Terra commemora, ogni 30 marzo, il ricordo della sanguinosa repressione dello sciopero generale del 19 febbraio 1976 contro la confisca di centinaia di ettari di terra in Galilea. [Ndr].
2Nome arabo del Negev [Ndr].
3Programma quadro di ricerca e innovazione dell’Unione europea. [Ndr].