La solitudine palestinese. Il cinema di Elia Suleiman

Nel suo ultimo film, Il paradiso probabilmente (It must be heaven), disponibile sulla piattaforma streaming Raiplay, il regista, sceneggiatore e attore Elia Suleiman continua la sua personale riflessione sulla condizione e l’identità palestinese nella diaspora. Sempre con un registro surreale e grottesco, il regista affronta la questione della progressiva sottrazione dei diritti democratici in nome della politica securitaria sotto l’asfissiante controllo di polizia non solo nella vita quotidiana in Palestina, ma in ogni parte del mondo.

L'immagine sembra rappresentare un poster di un film intitolato "It Must Be Heaven", diretto da Elia Suleiman. In primo piano, c'è una figura umana di spalle, vestita con abiti leggeri e un cappello, che si trova su una scogliera e osserva l'orizzonte. Sullo sfondo, si vede un cielo sereno e un mare blu, creando un'atmosfera di tranquillità e contemplazione. Il titolo del film e il nome del regista sono scritti in caratteri chiari, dando risalto alla scena.

Dopo Intervento Divino (Yadon ilaheyya) del 2002, cronaca di un amore in Palestina all’epoca dei checkpoint, e Il tempo che ci rimane (The Time That Remains) del 2009, saga familiare sull’odissea dei palestinesi in Israele, il regista, sceneggiatore e attore Elia Suleiman, palestinese con passaporto israeliano, di famiglia cristiano-ortodossa, prosegue con Il paradiso probabilmente (It must be heaven) la sua personale riflessione politica sull’identità palestinese. Accentuando i tratti surreali, il regista mette in scena, attraverso la ricerca del paradiso, a cui allude il titolo, una commedia dagli effetti comici secondo gli stilemi del cinema muto, costellata da osservazioni curiose e grottesche sulle persone e le cose che lo circondano o che incontra. Ne viene fuori un ritratto della solitudine del palestinese come nomade in perenne cammino.

Qui volevo vedere come una situazione viene vissuta in ogni realtà, un francese avrà una reazione diversa dalla mia osservando le stesse cose in Francia e così un palestinese in Palestina rispetto a qualcuno che viene da fuori. È vero, ho vissuto in queste città ma nei miei ricordi c’è sempre una parte di invenzione. Sono cresciuto in una Paese occupato dal 1948, per me era inaccettabile, ma questa era la realtà, le parole «Palestina» o «palestinese» non potevano nemmeno essere pronunciate.1

L’ultimo film nasce dallo stato d’animo di un uomo alienato in un mondo che ha accantonato la questione palestinese, messa da parte come un puzzle insolubile. Da Nazareth, città natale delle speranze mal riposte, a Parigi, capitale delle illusioni perdute e infine a New York, metropoli dei sogni infranti, Suleiman porta in giro il suo corpo dalla postura un po’ ricurva, la testa ormai brizzolata, il lento peregrinare a passi lenti, quasi fossero quelli di un vecchio, anche se ha poco più di 60 anni.

Il Paradiso Probabilmente - Trailer Italiano Ufficiale - YouTube

Come nei suoi film precedenti, la condizione e l’identità palestinese sono al centro della pellicola. Ma qui il regista decide di adottare un taglio più contemporaneo, interrogandosi sulla questione molto seria della ossessiva politica della sicurezza in un mondo globalizzato. A Nazareth, come a Parigi e a New York, il filo conduttore del film, al di là del personaggio principale, è l’onnipresenza della polizia. Sullo schermo, i poliziotti vengono messi in ridicolo, uno dei principi del film comico. Prima li vediamo in veste fintamente bonaria nella città più cristiana della Galilea; poi percorrere a piedi, sui rollerblade o in bicicletta la capitale francese deserta durante i festeggiamenti del 14 luglio, data simbolo della rivoluzione francese; e infine inseguire una ragazza con le ali da angelo che reclama la liberazione della Palestina a Central Park.

Il controllo dell’ordine militare e poliziesco

Se nei miei film precedenti la Palestina poteva assomigliare a un mondo in piccolo, questa volta è il mondo stesso che assomiglia sempre più alla Palestina

Ma la loro onnipresenza significa anche che il mondo è sotto controllo, come la Palestina è sotto occupazione. A New York, le persone che fanno la spesa al supermercato girano armate fino ai denti, come i coloni a Gerusalemme Est o nei territori palestinesi occupati. Sullo schermo, l’alter ego cinematografico del regista diverte lo spettatore, ma, alla fine del film, resta un senso di angoscia. Attraverso la sceneggiatura di un film da girare che il regista propone prima a un produttore francese, poi a uno americano, la questione palestinese non è più vista come la rappresentazione di un conflitto regionale, ma diventa un insegnamento universale.

Le differenze si sono assottigliate, occidente e oriente, nord e sud del mondo sono vicini purtroppo in una idea di fascismo, nelle follie nazionalistiche, nelle politiche di esclusione […] il neoliberismo ha unificato le economie. È tragico ma al tempo stesso è rivelatorio: se un tempo l’occidente poteva dare lezioni a quella parte del mondo «inferiore» e privo di democrazia, oggi non può più. Abbiamo capito con chiarezza che le sue guerre per esportare la democrazia erano una farsa.2

Nel suo film, il regista non rinuncia all’impegno e mantiene inalterato il suo marchio di fabbrica, un umorismo distaccato che fa sua la lezione del cinema di Buster Keaton, mettendo in guardia lo spettatore: l’ordine militare e poliziesco che opprime la vita quotidiana dei palestinesi è ormai dappertutto.