Libia: così vicina, così lontana

Luce Lacquaniti recensisce l’opera di graphic journalism Libia, di Gianluca Costantini e Francesca Mannocchi, Oscar Ink Mondadori, 2019.

Alcune opere sono necessarie. La Libia, oltre a essere una presenza fissa nei notiziari italiani, è la nostra vicina: e non una vicina qualsiasi, ma quella che abbiamo colonizzato in un passato ancora recente, quando la dittatura non era dall’altro lato del Mediterraneo, bensì in casa nostra.

Date le premesse storiche e geografiche dovremmo, insomma, conoscerla bene. E invece, ogni volta la Libia ci appare nebulosa, lontana e troppo complessa da capire. Ci ostiniamo a pensarla come se non vi fossimo coinvolti. Ci arriva più che altro sotto forma di ripetitiva cronaca di eventi militari, annuncio dell’ultimo negoziato-farsa o conta di migranti annegati prima di poter raggiungere qualche piccola isola siciliana, evidentemente troppo remota anche per molti italiani. Come approfondimento, quando va male, abbiamo la narrazione della Libia “porto sicuro”, per convincerci che i migranti possono tenerseli laggiù (totalmente in contrasto col resto delle notizie, peraltro). Quando va bene, invece, abbiamo fini analisi geopolitiche di tutti gli attori internazionali coinvolti, delle alleanze tra loro e delle ipotetiche prospettive di una guerra civile di cui non si vede la fine: analisi che corrono il rischio di lasciarci indifferenti, se non stufi, e a cui manca ogni elemento umano. Oppure abbiamo dei reportage sui lager per migranti - come quelli della giornalista Francesca Mannocchi, appunto.

Libia è un’opera di graphic journalism che traduce in forma di fumetto le testimonianze raccolte sul campo da Mannocchi nel periodo 2014-2019, per volontà e mano del fumettista Gianluca Costantini e con la mediazione di una sceneggiatura di Daniele Brolli, uscita per la collana Oscar Ink di Mondadori a fine 2019. Si tratta di un lavoro ancora attualissimo, perché parte dal presupposto che di questa vicina debba importarci, che ciò che succede qui abbia delle conseguenze lì e viceversa, ma soprattutto, che per capirci qualcosa e andare al di là della “nebbia libica”, come viene chiamata simbolicamente in un capitolo, sia necessario stringere l’inquadratura sugli umani coinvolti, sulla loro quotidianità, su una dimensione semplice che possiamo comprendere e in cui possiamo immedesimarci.

La storia e la geografia, dunque, sono sì importanti, e in questo fumetto - che non tratta solo di stretta attualità, ma anche del passato della Libia e del contesto internazionale - all’inizio di ogni capitolo, accanto al titolo inscritto in un motivo decorativo amazigh, compare una mappa (che ci mostra, ogni volta, quanto la Sicilia sia vicina) e, a volte, un reperto archeologico romano. Il racconto, però, a più voci, è tutto incentrato sulle persone. Solo incastrando le diverse, piccole tessere, sembra, è possibile ricomporre il mosaico. Anche perché la realtà non è mai univoca, ma ricca di sfaccettature.

Mosaici grafici, mosaici di senso

Gianluca Costantini, che si è affermato come vignettista, compone questo grande affresco accostando, sovrapponendo, montando frame. Incredibilmente, in Libia non c’è mai stato, ed è tutto lavoro di documentazione e di ricostruzione grafica. Più che una “storia” a fumetti, infatti, questo libro è un insieme di istantanee che formano, man mano, un puzzle. Lo “spazio bianco”, quello dove il lettore di fumetti, tradizionalmente, immagina il movimento tra una vignetta e l’altra e lo scorrere del tempo che fa fluire la storia, raramente trova posto qui, più che altro perché la gabbia stessa delle vignette salta. Ogni tavola è un lavoro di composizione, tra panoramiche dell’ambiente, ritratti e zoom sui dettagli, in cui convivono flash di passato e presente, il bicchiere di tè bevuto con la persona intervistata e i ricordi che escono dalla sua bocca fatti immagine. Teiere, palazzi martoriati, carceri, strade, bar, milizie, armi, barconi, scogliere, bancomat divelti, moschee, gru, carri armati, cucine, si mescolano a timbri, carte geografiche, filigrane di banconote, addirittura pedine del Risiko e giochi dell’oca immaginari.

E poi corpi, tanti corpi, pagine intere di corpi. Quelli dei prigionieri politici di Gheddafi negli anni ’90, quelli dei migranti stipati nei lager, quelli ancora dei migranti sui barconi, quelli gonfi delle donne annegate, quelli delle file infinite per prelevare pochi spiccioli in banca. Un’umanità costantemente ammassata, trattata come bestiame, gettata via, ma che resta estremamente ingombrante.

E volti, moltissimi volti, di persone che raccontano le proprie storie guardandoci negli occhi da queste pagine. Volti che restituiscono un po’ di umanità a quei corpi, ci ricordano che non sono elementi indistinti di una moltitudine inanimata vista tante volte in tv, né tantomeno ammassi maleodoranti nelle celle, ma singole persone, con intere vite dentro.

Prigioni di ieri e di oggi

A colpire subito è che il reportage inizi con una storia di più di vent’anni fa, ovvero il massacro del carcere di Abu Salim del 1996, attraverso i ricordi di un sopravvissuto. All’epoca, sotto Gheddafi, 1270 detenuti, per lo più prigionieri politici rinchiusi senza processo, furono uccisi in massa come rappresaglia per una rivolta scoppiata dentro il carcere. La vicenda è raccontata anche nel romanzo premio Pulitzer Il ritorno (in Italia uscito nel 2017 per Einaudi nella traduzione dall’originale inglese di Anna Nadotti) dello scrittore Hisham Matar, il cui padre fu detenuto e poi ucciso ad Abu Salim, e che racconta simili storie strazianti di famiglie che, per anni, hanno continuato a mandare lettere e oggetti a persone ormai defunte, senza aver avuto la minima notizia della morte dei propri cari. Il secondo capitolo del fumetto, invece, è ambientato nel ben più recente carcere per migranti di Zawiya e ospita un’intervista a uno dei migranti rinchiusi.

È facile, dunque, intuire un parallelo, corroborato anche da elementi ripetuti, come i corpi disegnati nella prima prigione (corpi morti, con cui si apre l’intero libro) e i corpi disegnati nella seconda, l’odore di morte descritto da Hussein per la prima e l’odore nauseante descritto dalla giornalista per la seconda.

A un livello più profondo, però, questo accostamento sembra suggerirci un paese da troppo tempo abituato alla disumanità, in cui la violenza di oggi è figlia della violenza del passato, e le vittime possono diventare carnefici perché sono state educate all’oppressione.

Il business sui sogni dei disperati e il denaro come anestetico

A leggere e guardare i racconti dei migranti, della guardia costiera, del trafficante di esseri umani, del direttore del centro di detenzione e dei cittadini in fila in banca, ne risulta un paese dove governano tre padroni: le armi, i soldi e la paura. Un paese coperto da una fitta rete mafiosa, armata, in cui “nessuno si vede come un criminale, ma lo sono tutti”, dalle milizie che controllano con la forza delle armi gli snodi vitali, i pozzi di petrolio e i centri di detenzione dei migranti, e che vendono i migranti prigionieri ai trafficanti per poi, col denaro ottenuto, comprarci altre armi e foraggiare la guerra; ai trafficanti che, appunto, pagano le milizie per ottenere uomini da mandare a lavorare come schiavi, oppure da caricare sui barconi diretti in Sicilia per ottenere a loro volta soldi, o ancora con cui ricattare le famiglie nei paesi di origine, sempre per soldi; agli “scafisti”, che in realtà non esistono, o meglio, sono solo migranti un po’ più svegli degli altri a cui viene affidato il gps per la traversata, e che in cambio di questa responsabilità hanno uno sconto sul costo del viaggio; agli altri clan che controllano la liquidità delle banche, erogando il denaro ai cittadini solo in cambio di mazzette. Sono tutti conniventi; esattamente come noi, sull’altra sponda, che abbiamo legittimato le milizie di Tripoli spingendole all’accordo col governo al-Serraj, e che abbiamo sempre stretto accordi, prima con Gheddafi e poi con i successivi governi fantoccio, per bloccare in Libia i migranti: in carcere o morti in mare, purché non arrivino sulle nostre coste. E questo, in Libia di Mannocchi e Costantini, è detto molto chiaramente.

Le battute finali sono riservate a due persone appartenenti rispettivamente alle due generazioni a cavallo della rivoluzione del 2011. Un giovane attivista per la libertà di stampa, Salem, osserva amareggiato come sia difficile che qualcuno si ribelli a questo sistema, visto com’è finita l’ultima volta, quando ci si era sollevati contro Gheddafi. Tewa, invece, una donna e madre, mentre aspetta il figlio tornare a casa dalla guerra, dà voce alla generazione immediatamente precedente che, nelle sue parole, ha sempre chinato la testa perché si stava troppo bene economicamente: lo stato, infatti, distribuiva i guadagni del petrolio - a patto, naturalmente, che si obbedisse. Chi è cresciuto nelle “vite sussidiate” di Gheddafi, così, ha finito per inculcare ai propri figli questa sottomissione. A volte, dice, la dittatura non uccide perché toglie, ma perché dà: “la Libia insegna che il denaro narcotizza”.

In maniera diversa, più sottile e senza bisogno del braccio armato della repressione, è forse quello che succede anche a noi, in questa parte del mondo dove il nostro relativo benessere ci addormenta e ci fa girare la testa dall’altra parte.