
Gli arabeschi sono motivi sinuosi, ornamentali e vorticosi nelle direzioni inaspettate che prendono. Così si dispiega il romanzo di Shammas, il primo mai scritto in ebraico da un palestinese, pubblicato nel 1986, tradotto in italiano nel 1989 ed oggi riedito da Tamu dopo 35 anni. L’autore vi ripercorre la sua infanzia nella Fassuta di metà Novecento, villaggio di cristiani arabi in Israele nel nord della Galilea e alla frontiera con il Libano, e negli interstizi lasciati dalla nostalgia fa entrare l’immaginazione, aprendo squarci variopinti dove trova spazio anche il mito. Tutto ciò in ebraico, che Shammas domina pienamente in quanto, trascorsi i primi anni della sua vita a Fassuta, nel 1962 si trasferì con la famiglia ad Haifa e da lì proseguì gli studi universitari a Gerusalemme. Attingendo a piene mani nella sua storia personale, l’autore abita con brio questo dualismo linguistico e lo impiega a suo favore. Per narrare le sue molteplici appartenenze, Shammas piega la lingua dell’Altro a servizio della narrazione, creando così dissonanze e giochi di specchi.
Un intreccio di memoria, storia e immaginazione
Il volume si apre con la sezione “Il racconto”, composta da cinque capitoli, a cui segue “Il narratore”, a sua volta suddiviso in “Père Lachaise” e “Mayflower”. “Il racconto” ritorna con rimandi aggiuntivi al termine di ogni sezione del “Narratore” e nell’epilogo, con l’effetto di un unico arazzo narrativo in cui epoche, personaggi, lingue ed eventi sono collegati da giustapposizioni inaspettate. Nel “Racconto” Shammas allestisce la scena nella Fassuta della prima metà del Novecento e tesse cornici in cui si stagliano personaggi mitici e imperfetti. Mescolando memoria, storia e finzione, l’autore scorre la matassa famigliare raccogliendo la staffetta narrativa da chi l’ha preceduto e tiene viva la trasmissione intergenerazionale di voci altrimenti nascoste nelle pieghe della Storia. Attraverso quadretti famigliari sulla sua infanzia a Fassuta scopriamo allora cosa significhi essere membro di una minoranza cristiana risparmiata dall’armata israeliana e poi sottoposta a legge marziale fino al 1966, mentre gli abitanti della vicina Deir al-Qaissi, a maggioranza musulmana, affrontarono l’esilio.
Chi legge si ritrova gradualmente coinvolto in sinuosi arabeschi che narrano cambi di alleanze, paesi, nomi e mestieri. A mano a mano che i ricordi scorrono e si rincorrono incontriamo zio Yusuf, cristiano devotissimo con il gusto per le storie, soprattutto se abitate da jinn bizzarri; suo fratello Hanna, padre del protagonista, che da barbiere si fa calzolaio mostrando inventiva davanti ai tiri mancini della vita; zio Jrayes, che parte all’avventura per l’Argentina con un Antico Testamento tradotto in arabo, strenuo difensore del folklore locale e del mijwiz, la versione araba della cornamusa; e anche Laila, orfana di cui si perdono le tracce nelle continue espulsioni tra Libano, Giordania e Palestina. La scena è popolata anche dagli spiriti che aleggiano nella natura e influenzano le sorti umane, così come da galli color porpora, cavalli rossi e altre creature tra il magico e il folklorico che scompaiono e ricompaiono tra i vari quadri narrativi. A volte sembra che Shammas lasci volutamente in sospeso i fili immaginari che intreccia, come per affidare al lettore la sfida di orientarsi fra personaggi prima evocati e poi tratteggiati sempre più a fondo. A ciò si aggiungono le citazioni che inframezzano i capitoli e vanno dall’autore israeliano Yehuda Amichai all’americano John Barth al rabbino hassidico ucraino Nachman di Breslavia. Questi riferimenti giocano sull’intertestualità e con frasi ermetiche interrogano il lettore sul confine già labile tra realtà e finzione.
Ero entrato, dal grande ingresso della favola, nei meandri e nelle camere segrete del passato, e nel mio animo erano crollate tutte le pareti che separano ciò che è da ciò che si nasconde dietro il velo dell’immaginazione. Quella che io avevo creduto essere una trama intessuta di reale e di immaginario non obbediva più al tessitore. La rete del ricordo, una volta gettata, si era stretta intorno al pescatore1.
La vità prima, durante e dopo il 1948
La rete del ricordo si stringe anche attorno al lettore, trascinato in intrecci talvolta seducenti e talvolta frustranti: se da una parte hanno il pregio di replicare, nella narrativa, il gusto del raccontare in salti temporali e spaziali, dall’altra la lettura può rimanere appesantita da periodi eccessivamente tortuosi. In ogni caso, Arabeschi dipinge la vita di una comunità peculiare nelle commistioni in cui si muove, dove si frequenta assiduamente la chiesa e allo stesso tempo a scuola si raccolgono rametti di alloro per decorare una stella di David da esibire allo spettacolo della scuola, perché l’ispettore ebreo ne rimanga ben impressionato. Le irruzioni della Storia nel villaggio pulsante di vita sono diverse: lo zio Ilias che si sposa nel 1938 lo stesso giorno in cui Faruq, re d’Egitto, prende in sposa Farida, perdipiù diventando padre lo stesso giorno del sovrano; ma anche il curioso aneddoto del blocco di marmo di pietra nera scolpito dall’arabo Abu Mas‘ud, che si dice adornò la tomba di Herzl. Tuttavia, l’irruzione più significativa della Storia nelle storie di Fassuta è senza dubbio quella dell’armata sionista, con la data spartiacque del 1948. Shammas racconta il timore permanente dell’agguato che allena le famiglie alla reattività richiesta per lasciare tutto e partire, come in questo incontro tra il padre dell’autore, Hanna, e il sarto armeno Saliba al-Siriani:
Io non ho nulla a che fare con la vostra guerra», gli disse l’armeno, «e non devo come lei stare sul chi vive, sempre pronto a mettermi in cammino alle prime minacce. Ma se il suo destino la condanna all’esilio, si sappia preparare a compierlo. Metta tutta la sua casa nella sua valigia, la sua salvezza nei suoi piedi, come si conviene a un calzolaio». Perché un uomo possa camminare a lungo, gli occorrono suole adeguate, resistenti e cucite solidamente alla tomaia delle scarpe. Mio padre, che non ebbe a conoscere la sorte dei profughi, tuttavia dopo di allora si adoperò perché ogni paio di scarpe uscito dalla sua bottega potesse servire al proprietario per lunghi anni, sotto la pioggia e sotto il sole, nella ghiaia e nel fango, dovesse far marcire le gambe o ripiegarle sotto di sé2.
È con questa prontezza che la madre dell’autore, Hélène, al primo segno di allarme riempie le fodere dei materassi dell’essenziale per affrontare l’esodo, e suo marito prende il labneh riservato agli ospiti d’onore per farci focacce per il viaggio. Mostrando la diversità del destino di Fassuta, “piccola brace incerta”, da quello della vicina Deir el-Qaissi, Shammas ricorda l’eterogeneità dell’esperienza del popolo palestinese e la sfida del trovare un’identità nazionale nonostante la frammentazione geografica tra diaspora, territori occupati e palestinesi d’Israele. Le scene che narrano l’attesa dell’agguato risultano particolarmente riuscite quando fanno presa sui sensi, perché attirano il lettore su dettagli sonori e olfattivi che immortalano la vita prima della catastrofe. Sono ad esempio convincenti i riferimenti frequenti al frantoio di Fassuta e all’odore pungente e pesante delle olive schiacciate, pianta che è frequentemente simbolo, nella letteratura palestinese, del rapporto tra popolo e terra. Altrettanto notevole per l’immersione sensoriale che provoca è la sezione in cui l’autore descrive la ripulitura della cisterna famigliare quando aveva poco di più di dieci anni, e raccontando la discesa si sofferma sull’odore di muffa e argilla, sull’acqua fangosa e viscida che gli bagna i piedi e sulla sensazione di penombra a cui gli occhi devono abituarsi. Il lettore si trova inviluppato anche nelle descrizioni da cui emerge il dinamismo del folklore locale, come il passo in cui gli uomini di Fassuta danzano la dabka della resa:
Ben presto si trovarono lanciati in una dabka shamaliya, l’indiavolata farandola della Galilea, che esprimeva il sollievo di coloro che sono sfuggiti alla disgrazia, la gioia dei deboli a sottomettersi al più forte, il desiderio di piacere allo straniero, la saggezza del con- tadino che estrae l’arma più insospettata nel momento più insospettato, ma che testimoniava altresì la loro versatilità e la loro volubilità3.
La zona proibita della lingua
Accostate ai racconti di Fassuta vi sono le sezioni del “Narratore”, ambientate a Parigi e nell’Iowa. Queste parti risultano più frammentate per la polifonia su cui si fondano e più cadenzate a causa dei frequenti dialoghi. Infatti, attraverso nuovi intrecci, i capitoli presentano altri personaggi frutti di commistioni: troviamo Amira, ebrea francese di origine egiziana, ma anche Nadia, libanese emigrata ad Abu Dhabi e ora in Francia per delle cure mediche. In queste sezioni sparisce l’aura mitica-folklorica dei primi capitoli e le doti narrative di Shammas emergono principalmente sul piano della rappresentazione del sé e dell’Altro attraverso il rapporto tra il narratore e Bar Or Yehoshua, autore ebreo fittizio. È in questa relazione che Shammas rivendica la complessità del suo lignaggio e delle sue origini, rifiutando etichette essenzializzanti: qui gli arabeschi riguardano la sua autorialità, cangiante nella maestria con cui si muove scrivendo in ebraico. Il paradosso sta in Bar Or Yehoshua che vuole osservare il narratore da vicino per renderlo il personaggio arabo di un suo romanzo: lo chiama “il mio ebreo”, lo desidera acculturato ma non troppo, con un ebraico eccellente ma non impeccabile. Shammas entra in quella che chiama “la zona proibita della lingua” e con destrezza sguscia dalle rappresentazioni in cui l’interlocutore ebreo cerca di intrappolarlo. Così, quando ad una residenza per scrittori e scrittrici a cui partecipano entrambi Bar Or Yehoshua incontra un autore palestinese che aderisce meglio ai canoni della sua invenzione, afferma:
Quest’altro figlio del suo popolo parla molto di più al mio cuore, mi costringe a rispondergli, a definirmi di fronte a lui. Perché, vedi, è un palestinese puro, e la sua forza viene dal fatto che è rimasto semplice e privo di qualsiasi cinismo». «Credo invece che tu cerchi soltanto le vie facili», gli ha ribattuto Liam, «perché non hai il coraggio di misurarti con qualcosa di complesso. Preferisci un nemico semplice, non complicato e ben definito». «Forse hai ragione, anche se il mio ex eroe non si considera neppure lui come mio nemico. Ed era questo che mi rendeva il compito difficile4.
Shammas rivendica la sua “non purezza”, che non lo rende meno palestinese, e sceglie una posizione spiazzante: non nemico, ma osservatore e narratore. Il narratore e Bar Or Yehoshua sembrano quasi aver bisogno l’uno dell’altro, impegnati in un passo a due verbale e letterario incalzato dalla minaccia di essere “imprigionato” dal racconto dell’altro. Ad uscirne vincente è senza dubbio il narratore, che sposta la tenzone sul territorio inesplorato di chi parla la stessa lingua e da soggetto subalterno diventa voce ingegnosa. Attraverso la loro relazione speculare, “schizofrenica” come la definisce un altro partecipante alla residenza, Shammas mostra la sua agilità nell’usare e manipolare i codici linguistici del nemico. L’ebraico, di cui è “figliastro”, diventa infatti terreno di sfida dove camuffarsi per sfuggire alle rappresentazioni, e solleva interrogativi sulle implicazioni di capire, parlare, e padroneggiare la lingua dell’Altro. In questo modo, l’autore ribalta gli equilibri di potere con grande ironia, prendendo le vesti e la penna altrui, sfuggendo con mosse imprevedibili ai tentativi di dominio. Il valore del romanzo, già sottolineato in quanto primo volume pubblicato in ebraico da un palestinese, acquista così ancor più rilevanza. Infatti, Shammas fa di questo dualismo il suo punto di forza, e da testimone degli eventi silente davanti alla Storia come tante voci palestinesi diventa narratore attivo. La sua lingua “matrigna” si presta allora a narrare bolle del ricordo che attraversano generazioni e geografie a lungo invisibilizzate.
Arabeschi è un’ammissione di fedeltà verso una storia e una discendenza, da compiersi nel territorio interdetto della lingua dell’Altro. Nel caleidoscopio in cui viene invitato il lettore, abitato da più voci e lingue, la testimonianza di Shammas è preziosa poiché evoca le sfumature vitali di un popolo troppo spesso appiattito nel ruolo della vittima.