Focus Gaza-Israele

Tra discorso d’odio, censura e repressione, le voci per Gaza nella trappola dei social

Nelle ultime settimane, i principali social media sono stati inondati di contenuti sull’escalation militare in corso in Israele e Palestina. Utenti, attivisti e giornalisti hanno denunciato la censura, in particolare da parte di Facebook e Instagram, del racconto di quanto sta avvenendo a Gaza e dei messaggi di solidarietà con i suoi abitanti. Intanto, in Israele, le pubblicazioni online e il discorso d’odio sui social stanno diventando un formidabile strumento di repressione e ritorsione contro chi critica le azioni dell’esercito nazionale. Questo pezzo è stato scritto prima del blackout totale imposto da Israele sulla Striscia di Gaza il 27 ottobre. NDR

© Francesca Cogni 2023

L’azienda che più di ogni altra ha fatto parlare di sé nelle ultime settimane è forse Meta, proprietaria di Instagram, Whatsapp e Facebook. Le risposte fornite in questi giorni dalla multinazionale sembrano tradire una difficoltà crescente a giustificare interruzioni temporanee delle funzioni che consentono di diffondere video in diretta, diminuzioni improvvise della visibilità di alcune pubblicazioni, e malfunzionamenti dei software di traduzione interni alle sue applicazioni.

Un problema globale

La scorsa settimana, la corporation ha chiesto scusa per aver inserito la parola “terrorista” nella traduzione automatica della biografia di alcuni utenti palestinesi. A causa di quello che l’azienda ha definito come un “bug”, la formula araba che significa “grazie a Dio” (Al-hamdulillah) veniva tradotta in inglese come “lode a Dio, i terroristi palestinesi stanno combattendo per la loro libertà”. Altri due presunti “bug” avrebbero causato una significativa riduzione delle interazioni sotto i post di alcuni utenti e un’interruzione temporanea delle dirette su Instagram : “E’ stato un problema globale – ha fatto sapere la multinazionale - che ha riguardato gli account di tutto il mondo in maniera omogenea, non solo quelli che stanno cercando di pubblicare su quanto accade in Israele e a Gaza”.

Un problema palestinese

D’altra parte, “questi cosiddetti problemi tecnici avvengono solo quando ci sono escalation in Palestina” ha sottolineato venerdì 21 ottobre in un’intervista al sito Wired l’esperta di diritti digitali Mona Shtaya del Tahrir Institute for Middle East Policy (Timep).

Non è la prima volta che Meta viene accusata di discriminare i palestinesi. Già l’anno scorso, uno studio dell’istituto di consulenza indipendente Business for social responsibility aveva affermato che la compagnia aveva avuto un atteggiamento parziale e violato i diritti digitali dei palestinesi durante i bombardamenti del 2021. “Per anni abbiamo richiamato l’attenzione di Meta sull’impatto negativo che ha sui palestinesi la sua moderazione di contenuti – affermava in quell’occasione una notapubblicata da Human Rights Watch - quindi, anche se inizialmente il bias non è intenzionale, se si è a conoscenza di questo problema da anni senza intraprendere azioni appropriate, ciò che è involontario diventa volontario”.

Gaza bloccata, anche sui social

I presunti malfunzionamenti delle applicazioni di Meta assumono risvolti drammatici quando colpiscono direttamente le persone che vivono nella Striscia di Gaza. In un momento in cui gli attacchi israeliani hanno complicato ulteriormente il già difficile accesso a Internet e alla rete elettrica, blocchi e disfunzioni dei social rendono ancora più faticoso per i gazawi comunicare con il mondo, e in particolare esprimersi sui media. In una situazione in cui i giornalisti sul terreno vengono uccisi ogni giorno, e alla stampa internazionale è negato l’accesso, questo può sembrare un dettaglio ma, proprio per la scarsa presenza di reporter nella Striscia, raggiungere le fonti anche a distanza è fondamentale per chi vuole raccontare la guerra.

“Ho provato ad aggiungere agli amici di Facebook una donna che vive a Gaza, per intervistarla” ha raccontato a Orient XXI una giornalista italiana che preferisce restare anonima : “Facebook mi ha notificato che non potevo farlo perché non la conoscevo nella vita reale. Subito dopo ho aggiunto con successo un perfetto sconosciuto americano di nome John Smith”.

Un altro fenomeno denunciato in queste settimane è la rimozione o sospensione di post e profili, talvolta motivata da presunte violazioni delle linee guida sui contenuti violenti o pericolosi, altre volte giustificata da spiegazioniche apparentemente non hanno niente a che vedere con la guerra in corso, ma che arrivano in stretta corrispondenza temporale con la pubblicazione di post sulla Palestina.

Bombardati e bannati

Tra i casi in cui questo è accaduto si può citare quello di Mondoweiss un sito di informazione che si occupa di Palestina, Israele e Stati Uniti, i cui account sono stati sospesi in più momenti da TikTok. Ancora più emblematica è forse la storia di Motaz Azaiza, fotoreporter che ha raccontato come il suo profilo Instagram, oggi seguito da oltre 7 milioni di account, sarebbe stato sospeso il 12 ottobre, mentre pubblicava fotografie che ritraevano gli effetti dei bombardamenti sulla popolazione civile di Gaza. Il giorno seguente l’account è stato ripristinato, consentendo ad Azaiza di mostrare le macerie dell’attacco che ha ucciso 15 persone della sua famiglia. Attualmente il profilo è visitabile, ma alcuni giornalisti e utenti dei social media sostengono che le sue pubblicazioni negli ultimi giorni siano diventate meno visibili sulle loro homepage.

È un problema difficile da dimostrare, ma denunciato recentemente da un alto numero di utenti in tutto il mondo, noto come shadow banning : si tratterebbe di una manipolazione dell’algoritmo che, in base all’uso di determinati hashtag e parole, rende meno frequente la visualizzazione di alcuni contenuti.

Autodifesa digitale, una soluzione-tampone

In molti in questi giorni hanno condiviso strategie per aggirare il problema, come cambiare una lettera in parole suscettibili di far scattare il meccanismo, ad esempio scrivere “P@lestina” anziché “Palestina”, pubblicare foto di vacanze e selfie per confondere l’algoritmo, evitare di postare a scadenze troppo ravvicinate. “Lo shadow banning è un fenomeno reale” sostiene Itxaso Domínguez de Olazábal, responsabile campagne presso l’Unione Europea per l’organizzazione 7amleh – the Arab center for social media advancement, raggiunta da Orient XXI. “Meta, tuttavia, non lo riconosce ufficialmente e non lo notifica agli utenti, rendendolo difficile da dimostrare – aggiunge Domínguez de Olazábal – e i consigli e le strategie diffuse dagli attivisti potrebbero servire ad aggirare il problema temporaneamente, ma con il tempo è probabile che vengano incorporati nel processo di machine learning”.

In Israele, solidarietà nella rete tra censura e attacchi

Aldilà del muro, in Israele, l’espressione on-line di solidarietà ai palestinesi sta diventando un facile bersaglio sia sul piano della censura virtuale, sia su quello della repressione istituzionale e delle aggressioni da parte di gruppi di ultradestra.

Nelle parole di Tiziana Terranova, docente di teorie dei media digitali all’Università “L’Orientale” di Napoli, questi aspetti sembrerebbero interconnessi : “Studi e ricerche ci dicono che da almeno 10 anni c’è un forte investimento di risorse ed energie da parte del governo israeliano e di soggetti che si identificano con esso per promuovere il proprio punto di vista e ostacolare in tutti i modi la circolazione di quello palestinese”, spiega a Orient XXI. “In generale, la tendenza registrata da alcune ricerche è quella di trasformare comuni utenti in soldati digitali. È comune anche l’uso di bots e profili finti che possono per esempio monitorare automaticamente i contenuti avversi e far scattare le segnalazioni”.

Licenziamenti, arresti, espulsioni : i post pro-Palestina nel mirino

In queste settimane, il ministro israeliano delle Comunicazioni Shlomo Karhi sta promuovendo norme che potrebbero consentire l’arresto di civili o il sequestro dei loro beni nei casi in cui si ritiene che abbiano diffuso informazioni “lesive della moralità nazionale” o assimilabili alla “propaganda del nemico”. Inoltre, la Knesset ha approvatoin prima lettura un testo di legge che punisce il “consumo di materiale terroristico”. Questa legge, secondo gli attivisti del centro legale Adalah per i diritti della minoranza araba in Israele, contravviene al principio secondo cui le persone non possono essere incriminate per pensieri o intenzioni. Dal 23 al 7 ottobre, inoltre, Adalah ha già registrato più di 80 arresti e 50 licenziamenti di palestinesi con cittadinanza israeliana, decisi sulla base di pubblicazioni online. Maisa Abd El-Hadi, un’attrice e influencer araba residente in Israele, è stata arrestata il 24 ottobre con 8 diversi capi d’accusa per aver condiviso la foto del bulldozer che ha sfondato il muro di Gaza il 7 ottobre, accompagnata dalla scritta “let’s go Berlin style”.

Per quanto riguarda gli studenti palestinesi in Israele, almeno 80 di loro sarebbero stati segnalati alle autorità accademiche e talvolta sospesi o espulsi : nella maggior parte dei casi “avevano solo espresso solidarietà con i palestinesi di Gaza o citato versetti del Corano”, spiegano dall’associazione. “Si tratta di azioni draconiane che sono state sollecitate da lamentele ricevute da studenti di estrema destra che prendevano di mira i colleghi palestinesi nelle loro istituzioni accademiche e monitoravano i loro account sui social”.

Gli haters e la polizia israeliana

In alcuni casi, le persone che avevano subito minacce online e offline per i loro messaggi di solidarietà con Gaza si sono rivolte direttamente alle autorità israeliane. La settimana scorsa la docente e cantante Dalal Abu Amneh, che risiede a Nazareth, in Israele, è stata arrestata mentre sporgeva denuncia per le minacce subite sui social media dopo il 7 ottobre : “In seguito a una sua pubblicazione online, i suoi studenti hanno iniziato a scrivere sui social incitando alla violenza contro di lei e contro la sua famiglia, arrivando persino a diffondere l’indirizzo di suo marito”, ha raccontato Nadim Nashef, il fondatore di 7amleh, durante un webinar tenuto la scorsa settimana. “C’erano migliaia di post e orribili messaggi privati. Dalal è andata a chiedere aiuto alla polizia, e invece di essere aiutata è stata arrestata e ha trascorso due notti in carcere”.

La motivazione dell’arresto di Abu Amneh è stata la stessa della sua persecuzione : la solidarietà espressa verso i palestinesi. In particolare, la motivazione addotta per la sua detenzione è stata la pubblicazione, il 7 ottobre, della frase “non c’è vincitore se non Dio”. Secondo le autorità israeliane, il post avrebbe rischiato di “causare rivolte”.

Simili ritorsioni hanno colpito anche ebrei israeliani pacifisti, come il giornalista ultraortodosso Israel Frey, aggredito da un gruppo di attivisti che lo hanno minacciato di morte e hanno fatto esplodere fuochi d’artificio sotto la sua abitazione la notte del 15 ottobre. Frey aveva ricevuto attacchi online in seguito alla condivisione di una preghiera per le vittime civili di Gaza. Al quotidiano Haaretz, Frey ha raccontato che l’intervento delle forze dell’ordine israeliane sarebbe arrivato alle 02.30 : gli agenti lo avrebbero accusato di sostenere Hamas, e uno di loro gli avrebbe sputato addosso intenzionalmente. La polizia israeliana ha smentito questa ricostruzione.

X, odio senza freni

Se da un lato sono preoccupati per la censura on-line, dall’altro gli attivisti per le libertà e i diritti digitali dei palestinesi riconoscono il problema della proliferazione dei discorsi d’odio che, come nei casi di Abu Amneh e Frey, possono avere serie implicazioni nel mondo reale. 7or, lo strumento di monitoraggio dell’odio on-line lanciato da gli attivisti di 7amleh, ha registrato quasi 400mila casi di discorsi d’odio in ebraico tra il 7 e il 23 ottobre, la maggior parte diffusi dalla piattaforma di Elon Musk. “Meta, sui cui network abbiamo documentato il maggior numero di violazioni dei diritti digitali, è stato relativamente trasparente riguardo alle sue azioni” ci hanno fatto sapere ancora da 7amleh. “Al contrario, piattaforme come X e Telegram sono state meno reattive ai nostri allarmi relativi al discorso d’odio e alla disinformazione”.

In seguito anche alle sollecitazioni dall’Unione Europea, Meta ha in effetti dichiarato di stare moltiplicando gli sforzi per limitare la proliferazione di pubblicazioni violente da entrambe le parti, e di aver rimosso 795mila post e commenti in arabo e in ebraico con questo scopo. Gli attivisti sottolineano tuttavia come la compagnia abbia omesso di specificare la percentuale di contenuti rimossi in ciascuna delle due lingue.

Israele avanza in homepage

“La questione è anche la diffusione di propaganda israeliana contro i palestinesi, che è rimasta online senza essere moderata. Parliamo di incitamento all’odio, hate speech e discorsi razzisti. E non è la prima volta”, ha spiegato Mona Shtaya del Timep durante un seminario online tenuto il 26 ottobre. Un utente che preferisce restare anonimo ha raccontato a Orient XXI che, quando la sua home di Facebook è stata invasa da immagini dell’esercito israeliano accompagnate da scritte come “Stiamo venendo a educarvi” o “Hamas stiamo arrivando per punirti”, ha provato a fare una segnalazione al social media per discorso d’odio. Prima gli sarebbe stato notificato che non si trattava di discorso d’odio, poi il processo di segnalazione si sarebbe interrotto per un bug.

A sua volta, Youtube è stato criticato per lo spazio concesso agli ads israeliani : in particolare, un messaggio di propaganda dell’esercito sta comparendo in molte home, anche in Francia, e secondo diversi utenti rappresenta un esempio di incitamento all’odio. “Il problema del discorso d’odio online non è un problema solo palestinese”, ha sottolineato Shtaya. “In questi giorni stiamo vedendo attacchi contro gli ebrei, contro i musulmani americani. È un problema di tutti. Le compagnie devono fare di più per proteggere i loro utenti”.

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