Se con gli attacchi dell’11 settembre la “guerra santa contro gli infedeli” era considerata una prerogativa di arabi fondamentalisti legati all’organizzazione di al-Qa’ida, con l’avvento del fenomeno dei foreign fighters, la lotta armata in nome di Dio viene associata direttamente all’Islam. All’indomani degli attentati di Parigi, il 17 Novembre 2015, il Corriere della Sera intitola così il suo articolo “Attentati a Parigi: Bilal, Sami e gli altri reduci convertiti in Europa alla Jihad”. Più recentemente, il 3 novembre 2020, la Repubblica intitola un articolo “Austria, i millennial del jihad”, riferendosi ai giovani “sedotti dallo Stato Islamico”. I titoli citati sono solo due esempi di come il termine jihad, usato al femminile, venga spesso associato alla lotta armata dei convertiti europei. La rappresentazione del jihad è quindi legata al diventare musulmano ed armarsi, contribuendo ad una visione manichea di un occidente sotto minaccia islamica, in ottica squisitamente huntingtoniana. Questa interpretazione, largamente diffusa, che sembrerebbe suggerire una chiarezza interpretativa di fondo, tuttavia mal si concilia con la molteplicità di significati e sensi racchiusi nella parola jihad.
Al di là di stereotipi e distorsioni mediatiche
Il libro edito da Patrizia Manduchi e Nicola Melis ha come principale obiettivo di restituire la complessità semantica di questo concetto, mettendo in luce, fin dalle sue prime pagine, la sua caratteristica principale, quella di essere un termine polisemico, e come tale soggetto a molteplici traduzioni e interpretazioni. La raccolta di saggi rappresenta un viaggio alla scoperta della poliedricità del jihad, e quindi delle sue innumerevoli declinazioni nel tempo e nello spazio. Ciascun saggio rappresenta quindi un prezioso tassello di un mosaico semantico, fatto di differenti contesti storici, geografici e culturali. In questa prospettiva, la raccolta ha il merito di inserirsi tra la letteratura specialistica, ancorata solamente sugli aspetti teorici, e la divulgazione, spesso appiattita da interpretazioni prive di profondità di analisi.
Come evidenziato nelle note introduttive, jihad è sostantivo maschile, quindi non è in diretta relazione con i termini “santa” e “guerra”. Il termine deriva dalla radice jahada che significa “sforzare”, “lottare”, “fare uno sforzo”. La traduzione più letterale di jihad è dunque semplicemente “sforzo”. In questo senso si rilevano due significati di jihad. Si parla di “jihad minore” (esteriore, o piccolo jihad) inteso come uno sforzo militare per la difesa dell’Islam contro i suoi nemici e “jihad maggiore” (interiore, o grande jihad) inteso come sforzo per autoemendarsi fī sabīl Allāh, “sulla via di Dio”. Sulla base di questa importante premessa, il libro fornisce una panoramica interpretativa multidimensionale attraverso una ricca collezione di saggi che spazia dall’interpretazione islamista radicale del jihad difensivo e offensivo, al sufismo spirituale, fino ad accezioni territoriali e politiche, come la lotta ai regimi autoritari, la resistenza palestinese, alla lotta di genere. I curatori evidenziano come la pratica dell’Islam, a qualunque livello, si estrinseca comunque in un “impegno” o appunto in uno “sforzo”. La raccolta include l’analisi del fenomeno del jihadismo, trattato nel saggio di Paolo Maggiolini come solo una delle possibili interpretazioni del jihad armato, caratterizzata dall’abbandono totale di qualsiasi ambizione territoriale, difensiva o offensiva. A questo proposito, è interessante invece notare, come sottolineato nel saggio conclusivo di Pamela Murgia, che nella stampa italiana la rappresentazione del jihad si esaurisca nel solo riferimento ai movimenti jihadisti armati.
La ricchissima rassegna di studi sul jihad, a cura di Nicola Melis, fornisce una necessaria traccia di partenza per comprendere la complessità dello spettro semantico della parola jihad, mettendo in evidenza come ognuno dei campi disciplinari dell’islamistica abbia un suo discorso specifico sul jihad. Il concetto è, infatti, stato trattato da diverse angolature nell’ambito della teologia, della giurisprudenza, della filosofia e del diritto internazionale islamico (siyar). Come ben evidenziato dall’autore, la complessità dello spettro semantico della parola è tale che nessun contributo può avvalersi della presunzione di completezza. L’infinitezza delle interpretazioni legate al termine jihad è in effetti la caratteristica ultima di questo concetto, e il libro in oggetto ha proprio l’obiettivo di restituire questa incompletezza, scardinare le certezze del lettore rispetto alle interpretazioni mediatiche e sensazionalistiche, che non lasciano spazio ad alternative, accompagnandolo su una strada di “dispersione” semantica.
Segnali lungo la via
Il viaggio inizia con il saggio di Patrizia Manduchi, alla scoperta della personalità paradigmatica di Sayyid Qutb, figura di spicco della Fratellanza Musulmana in Egitto tra gli anni Trenta e Cinquanta. Qutb è la figura intellettuale che ha maggiormente influenzato le azioni violente di alcuni gruppi armati contemporanei: il suo Ma’alim fi’l-tariq («Segnali lungo la via»), pubblicato nel 1964, divenne un vero e proprio manifesto politico dell’islamismo radicale in tutto il mondo. Tuttavia il suo pensiero non è originariamente collegato a un’idea di jihad globale contro i non musulmani, ma nasce nel quadro di una lotta contestuale contro i musulmani stessi, nello specifico contro il regime guidato da Nasser, considerato uno stato totalitario e quindi degno di rientrare nella fattispecie di jahiliyya (società «ignorante» del periodo preislamico). Pertanto, anche la più radicale delle accezioni del termine jihad, come azione violenta in nome di Dio, mette comunque in crisi l’interpretazione maggiormente diffusa dai media, quella di una lotta armata contro i non musulmani per spingerli alla conversione con la forza. La feroce denuncia di Qutb contro il sistema politico di Nasser ne è la riprova. La sua critica si scaglia contro un sistema politico, musulmano, ma corrotto, basato sull’assenza di valori quali la solidarietà sociale. In questa prospettiva, la ricca analisi degli scritti di Qutb fornisce al lettore una preziosa chiave interpretativa del jihad come “sforzo rivoluzionario”, una lotta contro il dominio dell’uomo sull’altro uomo, per una società più giusta che riconosca come unica forma di sovranità quella di Dio. La lotta contro il regime, secondo il pensiero di Qutb, serve quindi per abolire i poteri temporali che si frappongono tra la gente e l’Islam, ma la conversione può avvenire solo attraverso la da’wa (proselitismo), e quindi senza l’uso della forza.
Il termine jihad, nella sua accezione di azione violenta, è legata al concetto di martirio (istishhad), argomento presentato nel dettaglio nel saggio di Roberta Denaro. Anche la parola martirio, come jihad, è negli ultimi due decenni uscita dal campo degli studi specialistici per approdare ai mezzi di comunicazione di massa. Questa trasposizione ha avuto però come effetto quello di un forte appiattimento semantico. Il termine «martirio» è stato infatti diffusamente, quasi esclusivamente, associato dai media alla figura di kamikaze o terrorista, ignorando così la grande flessibilità della categoria di martirio. Tuttavia, come sottolineato dall’autrice stessa, il termine «martire» (shahid), ha creato non poche controversie interpretative all’interno dello stesso mondo islamico, poiché l’elaborazione del concetto non esiste nel Corano, ma si rifà interamente al corpus degli hadīth, i detti del Profeta, raccolti in centinaia di testi. Secondo l’autrice, la vastità delle fonti porta dunque alla luce diverse tipologie di martirio e innumerevoli definizioni, arrivando ad includere qualsiasi morte avvenuta “sulla via di Dio”, anche non bellica, come ad esempio il martirio per amore ( istishhad al-hubb), per malattia o parto.
La raccolta di saggi tiene quindi conto dell’eterogeneità delle interpretazioni proprie del pluralismo interno al mondo musulmano, introducendo il lettore al mondo delle confraternite sufi e alla loro interpretazione del termine jihad. Come ben evidenziato nel saggio di Francesco Alfonso Leccese, sin dalle origini dell’Islam, accanto al concetto di lotta armata è maturata un’interpretazione di jihad come sforzo spirituale, il cosiddetto “jihad dell’anima”, o meglio, il jihad contro l’animo umano (nafs), inteso come la lotta contro le passioni. L’autore cita il celebre hadīth in cui si fa risalire questa interpretazione: “Siete tornati dalla lotta minore (al-jihad al-asghar) alla lotta maggiore (al-jihad al-akbar)”, precisando che il vero jihad è quello contro i bassi desideri dell’animo umano. La lotta interiore, in arabo mujāhada (da cui il termine mujhāhid), che ha la stessa radice di jihad, viene tradotta quindi come “purificazione”. Se i due tipi di jihad sono ben distinguibili sul piano analitico, lo sono meno, tuttavia, sul piano storico. Come ben evidenziato nel saggio di Alessandra Marchi, le stesse confraternite sufi sono state particolarmente attive sia nella lotta dell’animo che in quella materiale, in particolare contro i colonizzatori. Esempi emblematici sono la partecipazione alla resistenza algerina contro l’invasione francese e il jihad della confraternita dei Senussi per contrastare l’invasione italiana in Libia, due lotte considerate come guerre “giuste” - più che sante - contro l’oppressore.
un mosaico semantico
Al di là dell’evoluzione storica e culturale del concetto, l’importanza delle dinamiche di contesto nella definizione del termine jihad rappresenta un ulteriore caposaldo di questa raccolta. Il saggio di Pamela Murgia sul discorso politico del gruppo islamico Hamas, introduce quindi il lettore alla declinazione più squisitamente territoriale del concetto di jihad. Il rigoroso studio dell’autrice sul discorso del gruppo palestinese, mostra come, per esigenze di legittimità politica, il gruppo islamico abbia progressivamente sostituito la parola jihad, con il termine muqāwama, «resistenza». In questo senso, la “giusta causa in nome di Dio” non è una guerra santa contro gli infedeli, ma uno sforzo legato alla causa della resistenza palestinese contro l’occupazione israeliana. Allo stesso modo, il saggio di Montassir Sakhi mostra come la categoria di jihad sia stata utilizzata dai militanti che si sono uniti allo «Stato islamico» dal 2014 al 2017 in una logica meramente statale, come una guerra strategica che mirasse a fondare uno stato-nazione nel senso più moderno del termine. Come ben dimostrato dall’autore, questa logica è strettamente legata alla storia della guerra in Iraq, e ad una forma di concorrenza per la creazione di sistemi di potere centralizzati. Inoltre, come ben argomentato nel saggio di Paolo Maggiolini, lo stesso jihad armato secondo la visione jihadista, assume connotati diversi - propaganda, proselitismo, insurrezione, guerra intestina, terrorismo – a seconda delle capacità e delle condizioni contestuali.
La rassegna dei vari saggi dimostra quindi come sia più pertinente una traduzione più generalista del termine jihad, inteso come “lotta”, più che come “guerra contro gli infedeli”. Questa trasposizione semantica permette di allargare lo spettro interpretativo del termine e quindi di cogliere la naturale ibridazione dell’attivismo islamico con forme di lotta laiche, come la lotta alla corruzione o alle discriminazioni di genere.
Il saggio di Renata Pepicelli contribuisce a svelare la ricchezza semantica del termine jihad, introducendo il lettore alla sua interpretazione in relazione alle donne. L’autrice approfondisce termini come jihad al-nisa’ (jihad delle donne), gender jihad (jihad di genere) e jihad al-nikah (jihad del matrimonio), che evidenziano come l’affermazione della donna possa avvenire sia in campo progressista come in ambiti conservatori, o anche di estremismo violento. Le definizioni riportate dall’autrice vanno infatti in direzioni conflittuali, se non opposte. L’espressione jihad al-nisa’, che trova come referente la studiosa egiziana Heba Raouf ’Ezzat, emerge in un contesto di revival islamico degli anni ’70, mirante a enfatizzare il ritorno del sacro nella sfera pubblica. Secondo questa interpretazione, il ruolo della donna viene ricavato dal paradigma della complementarietà di genere, lungi dal rappresentare una forma di disuguaglianza. Il jihad della donna rappresenta quindi il suo impegno specifico sia nell’ambito domestico che in quello politico. Infatti, la specificità della donna non risiede soltanto nella sua pratica di cura della famiglia, ma anche nel suo impegno per la lotta a una società più giusta, grazie all’uso della “forza morbida” (al-quwwa al nāi’ma). L’espressione gender jihad, invece, appartenente al movimento del «femminismo islamico», si riferisce allo sforzo sulla via di Dio, per raggiungere l’uguaglianza di genere, e quindi riecheggia negli ambienti più progressisti del pensiero islamico. Infine, appare degna di nota la lettura critica del termine jihad al-nikah. Secondo l’interpretazione mediatica, “l’impegno” delle donne nei gruppi jihadisti sarebbe limitato a un ruolo estremamente passivo, prevalentemente come dispensatrici di piaceri sessuali. Termini come “spose della jihad” o “schiave del sesso” sono stati diffusi da varie testate giornalistiche. Tuttavia, un’analisi più attenta mostra come, anche in contesti caratterizzati da un’estrema violenza, la donna abbia un ruolo tutt’altro che passivo. Nello Stato Islamico (o ISIS), ad esempio, la donna è un agente centrale nel progetto di creazione del califfato, servendo attivamente la causa jihadista attraverso la propaganda, il reclutamento, l’insegnamento e le cure mediche.
La ricchezza dei contributi contenuti nel libro mostra lo sforzo di un gruppo di ricercatori esperti di Islam, nelle sue varie accezioni multidisciplinari, di restituire il pluralismo culturale del mondo musulmano e del pensiero islamico, così fornendo al lettore gli strumenti utili alla comprensione dei fenomeni sociali e politici in rapporto al jihad. Il lascito più importante di questo contributo è, infatti, quello di rendere il lettore consapevole della multiformità dei caratteri posseduti da un termine troppo spesso appiattito da interpretazioni affrettate. Proprio il saggio conclusivo di Pamela Murgia, sull’uso di jihad nel discorso giornalistico, sottolinea magistralmente come il concetto elaborato dalla stampa italiana tenda effettivamente ad influenzare una certa interpretazione del lettore, creando un pericoloso disordine semantico rispetto a concetti chiave dell’Islam, e relativamente alla loro traduzione fuori dagli ambienti specialistici.
In questa raccolta, la generosissima citazione delle fonti e il rigore metodologico delle analisi di ciascun saggio rappresentano una guida preziosa per il lettore, al fine di comprendere il carattere multiforme della pratica del jihad. La consapevolezza di questa complessità getta luce sul fatto che la scelta di una traduzione univoca e buona per tutte le stagioni non è di per sé neutrale nella narrazione degli eventi, ma è il frutto di una visione ideologica basata sulla rappresentazione negativa del musulmano come “altro”, e quindi si traduce in un atto politico volto allo scontro.