Siria. Imad Chiha, ovvero la prigione come metafora della società
Tra i prigionieri politici siriani, Imad Chiha (Damasco, 1954-Parigi, 2022) è quello che ha trascorso più tempo rinchiuso nelle carceri degli Asad: ventinove anni. La sua vita, così come i suoi romanzi, sono la testimonianza di una storia rimossa e delle sfide che la società deve affrontare.
Il periodo a cavallo tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, sull’impulso della guerra del ’67 e la nascita del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP) sotto la direzione di George Habash, rappresenta un momento di effervescenza politica e intellettuale in Siria e nel resto del Vicino Oriente.
La presa del potere da parte di Hafez al-Asad nel novembre del 1970 e la svolta a destra che ne è conseguita hanno provocato dei contrasti in seno al Partito Comunista Siriano, associato al nuovo regime in quanto parte del Fronte Nazionale Progressista. Tali divergenze si sono tradotte, due anni dopo, nella scissione tra il PC riconosciuto dall’URSS, facente capo a Khaled Bakdash, e la fazione dissidente guidata da Riyad al-Turk. In quel periodo emergono anche vari gruppi marxisti che nel 1975 daranno vita al Partito d’Azione Comunista.
Il conflitto dell’ottobre del ’73 incoraggia in effetti la mobilitazione e l’inizio della guerra civile libanese nel 1975 fa credere ad alcuni che la regione sia arrivata a un punto di svolta rivoluzionario. Nel ’74, un piccolo gruppo di militanti provenienti dai circoli studenteschi marxisti, impazienti di agire, fonda l’effimera Organizzazione Comunista Araba (OCA), il cui obiettivo principale è di lottare contro gli interessi economici e culturali americani.
Un processo farsa
In un periodo in cui qualsiasi forma di espressione democratica è impossibile, i membri dell’OCA praticano una forma di violenza, da loro considerata necessaria, contro i beni e i simboli del regime dittatoriale siriano e dei suoi alleati. Nell’agosto del 1974, degli esplosivi vengono piazzati nelle vicinanze del padiglione americano della Fiera internazionale di Damasco; poi, a settembre dello stesso anno, l’azione si ripete davanti alla sede di una società americana. Durante quest’ultima operazione, un portinaio viene purtroppo ucciso. È in seguito a questi eventi che quindici militanti vengono arrestati.
Dopo un processo sommario, cinque di loro sono condannati a morte per impiccagione. Altri cinque1, tra i quali Imad, alla prigione a vita (liberabili dopo venticinque anni), e il resto - tra cui una giovane donna palestinese, Jamila al-Batch - a pene d’incarcerazione dai cinque ai quindici anni. L’esecuzione dei primi cinque avviene il 2 agosto 1975. Questo evento funge come da elettrochoc per la sinistra siriana, ispirando anche il celebre quadro del pittore Youssef Abdelké, Sabt el-dam (“Un sabato di sangue”).
In un’intervista rilasciata nel 2004, poco dopo la sua liberazione, e pubblicata il 29 settembre 2022 dal quotidiano online Safahat souriya (“Pagine siriane”), Imad Chiha ritorna sull’operazione all’origine della condanna: “Le nostre azioni avevano uno scopo di propaganda, facevamo molta attenzione a non ferire nessuno. Nonostante tutte le precauzioni, un uomo è morto, un portinaio...”. E aggiunge : “Nelle circostanze attuali, non è possibile usare la violenza armata come strumento di lotta per uno scopo superiore”.
Imad è stato l’ultimo a essere liberato, il 3 agosto 2004, all’età di cinquant’anni, dopo ventinove di prigionia. Il suo amico Fares Mourad era uscito poco prima, il 31 gennaio dello stesso anno. Entrambi hanno trascorso sedici anni nel terribile carcere di Palmira, situato nel deserto siriano, dove nel giugno 1980, assieme ai loro compagni, sono stati testimoni del massacro dei detenuti islamisti perpetrato dal regime, in rappresaglia contro l’insurrezione dei Fratelli Musulmani e il tentativo di omicidio contro Hafez al-Asad.
Meno maltrattati di altri, i comunisti godevano di una forma di rispetto, non soltanto da parte dei prigionieri, ma anche di alcune guardie. Negli anni Novanta, vengono trasferiti prima nella prigione di Adra, poi in quella di Saidnaya, nella periferia a nord-est di Damasco.
Un immaginario nato in cella
In parallelo agli studi di inglese, Imad si dedica a fondo alla letteratura araba classica. È essenzialmente in prigione che scrive i tre romanzi che verranno pubblicati dopo la sua liberazione, inserendosi nel filone della letteratura carceraria2. Questo genere include scritti autobiografici, romanzi di pura finzione e anche testi filosofici o politici3.
I romanzi di Imad Chiha non hanno nulla di autobiografico, pur facendo eco alla sua esperienza in prigione, per lui metafora della società. In essi, egli elabora una critica radicale del sistema culturale e socio-politico che soffoca gli esseri umani in una morsa dalla quale è impossibile liberarsi. La violenza del carcere, ma anche quella della prigione che il Paese e la società stessa costituiscono, è onnipresente, nelle parole dei protagonisti dei romanzi Polline e Una morte desiderata e, in modo allegorico, in Vestigia dei tempi di Babilonia - tutti e tre non ancora tradotti in italiano. La loro pubblicazione tra il 2004 e il 2008, in due casi grazie a un piccolo editore di Damasco presso il quale Imad lavorava come lettore professionista, è stata possibile senza dubbio per il loro carattere allegorico e per il fatto che le condizioni in carcere dei prigionieri politici non fossero mai descritte esplicitamente. Altrettanto importante è stata la notorietà dell’autore negli ambienti intellettuali di sinistra.
Il primo romanzo, Baqâya min zaman Babel (Vestigia dei tempi di Babilonia)4, intreccia presente reale e passato mitico, entrambi segnati dall’oppressione e dall’arbitrarietà dei tiranni, a partire da Gilgamesh fino ad Asad. Scritto di getto, senza quelle pause che permetterebbero tanto all’autore quanto a chi lo legge di riprendere fiato, il romanzo interpella il lettore siriano, allo stesso tempo vittima e complice, e gli impone a una sorta di esame di coscienza. Lo costringe, così, a interrogarsi sulla propria parte di responsabilità nella crudeltà del mondo, e sul ruolo giocato dalla sua corruzione e vigliaccheria nello scatenarsi della violenza.
Il secondo, Ghubar Al-Tala (Polline)5 racconta di un ex-detenuto che ritrova i suoi vecchi compagni di lotta, dopo anni di assenza. Il confronto tra i loro ricordi è l’occasione per svelare segreti rimossi e meschinità umane.
Sebbene pubblicato prima degli altri, Mawt muchtaha (Una morte desiderata)6 è in realtà il suo terzo romanzo. Ispirato a una storia vera, narra dei tormenti di una ragazza accusata di aver ucciso il padre e che sprofonda nella follia, prima di confessare. Incastrata tra la lealtà verso la famiglia e verso il padre e il desiderio di liberarsi dalle costrizioni imposte alle donne dalla società, l’eroina cerca di dare un senso a ciò che vive e ha vissuto, seguendo il flusso contorto della sua memoria. Attraverso dei conflitti familiari dalle conseguenze fatali, il romanzo racconta le lacerazioni e la violenza di una società divisa tra tradizione e modernità, fedeltà al passato e aspirazione al cambiamento.
Mondo rurale tradizionale e società urbana moderna
La forza di questa storia risiede tanto nella sua dimensione etnografica e sociologica quanto nella sua risonanza psicologica. I destini individuali sono costretti a subire la contrapposizione tra un vecchio mondo rurale impregnato di tradizioni sclerotiche e una società urbana apparentemente moderna, ma incancrenita dal denaro. I valori dell’onore, della libertà e del coraggio che il primo pretende incarnare non riescono a fermare l’avanzata di un nuovo ordine fondato su un altro tipo di violenza, sull’arrivismo e la corruzione, dove la miseria di alcuni contrasta con la ricchezza ostentata degli altri. La protagonista, lungo il suo cammino, si scontra con la forza del patriarcato ma anche con la codardia degli uomini e la venalità di una società alla quale anche lei finisce per soccombere. Tutti gli esseri umani rimangono intrappolati: chi tenta di sfuggire è destinato alla miseria e al disprezzo dei suoi simili.
La violenza e la morte costituiscono la trama del racconto. Una morte allo stesso tempo subita, desiderata, invocata: vendetta e soluzione tragica del suo cammino per la libertà. Una morte che sembra la sola via d’uscita in una vita dove qualsiasi valore umano è calpestato, minato dalla codardia e dalla corruzione.
La scrittura di Imad Chiha, impreziosita da immagini e da un vocabolario ricercato, spesso di tradizione classica, attinge alla natura selvaggia, alla steppa rocciosa, il sole cocente e il cielo terso, come riflesso degli uomini che l’abitano, della loro violenza e delle loro passioni. Il lirismo delle descrizioni accompagna le riflessioni sulla vita e sulla morte, sul tempo e sullo spazio. Un tempo dove passato e presente, tempo della prigionia e quello dei ricordi, si scontrano nella memoria; uno spazio che si estende e si restringe, dalla spaziosità del paesino accogliente e della montagna generosa alla ristrettezza della cella, che paradossalmente apre al pensiero inaspettati orizzonti. E il prigioniero politico, ignorando se avrà un giorno la possibilità di uscire dalla reclusione e di sfuggire all’orrore del suo quotidiano, s’immerge nei propri ricordi e nell’esplorazione dell’anima.
La vita in prigione di Imad Chiha
Imad Chiha ha ventun’anni quando viene arrestato, dopo che un attentato organizzato nel 1974 dal movimento comunista di cui è membro provoca un morto, nonostante le precauzioni prese. Questa vittima peserà per tutta la vita sulla coscienza sua e dei suoi compagni. È nella prigione di Adra, dove viene trasferito nel 1991, che Imad riprende gli studi d’inglese e diventa traduttore e scrittore. Liberato nel 2004, gli viene tuttavia proibito di lasciare il territorio. Nel 2021, affetto da un cancro al pancreas, ottiene infine un’autorizzazione eccezionale per essere curato in Francia. Sarà un viaggio senza ritorno.
1Ne parla Yassin Al-Haj Saleh nel suo libro Récits d’une Syrie oubliée (Les Prairies ordinaires, 2015, non tradotto in italiano)
2Le scrittore ed editore Farouk Mardam-Bey ne discute in un’intervista in francese a France Culture, 4 gennaio 2025. https://www.radiofrance.fr/franceculture/podcasts/france-culture-va-plus-loin-le-samedi/avec-farouk-mardam-bey-la-litterature-carcerale-syrienne-8555460
3Tra i titoli tradotti in italiano ascrivibili a questo genere, possiamo citare: La conchiglia (Castelvecchi, 2014, trad. F Pistono), romanzo di finzione basato sull’esperienza di prigionia dell’autore Il luogo stretto (Nottetempo, 2016, trad. E. Chiti) e Specchi dell’assenza (Interlinea, 2018, trad. E. Chiti) di Faraj Bayrakdar, due raccolte poetiche composte nel corso dei tredici anni passati in carcere; gli scritti di Yassin Al-Haj Saleh e Muhammad Dibo.
4Dar Sawsan, Damasco, 2008.
5Centre culturel arabe, Beirut, 2006.
6Dar Sawsan, Damasco, 2005. A proposito del libro: Élisabeth Longuenesse, «Traduire Imad Chiha. “Une mort désirée”, une tragédie noire, écho d’une société déchirée», Les Carnets de l’IFPO, 30 settembre 2025.
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