
Per arrivare al suo studio si suda parecchio. Sette piani di scale nel cuore del quartiere armeno di Burj Hamood, tra sfasciacarrozze e panetterie, circondati dai garage non distanti dalle vie più trafficate tra l’aeroporto e la Dahieh, il suburbio popolatissimo di Beirut.
Qui, il 10 agosto del 2020, l’esplosione del silos al porto si è sentita bella forte: se ne ha la percezione concreta affacciandosi dal terrazzo da cui si vedono tutti i tetti della città. Di fronte al parapetto, un gallo ruspante canta a squarciagola.
È qui che Alfred Tarazi ha progettato il suo omaggio a Beirut: una cartografia amorosa della perla del Mediterraneo, che attraversa cinquant’anni di storia, a partire dall’inizio della guerra civile, da quel 13 aprile del 1975 segnato dalla strage del pulmino rosso in cui persero la vita 27 palestinesi freddati per vendetta dalle guardie di Pierre Gemayel, il capo del Kataeb, il partito falangista.
Più che un artista, un antiquario
Tarazi, che è nato a Beirut nel 1980 da una famiglia illustre di antiquari, nel campo per oltre cinque generazioni, si definisce più un antiquario che un artista. Nella cantina del palazzo custodisce ancora le raffinatissime creazioni del nonno, su legno, rame, vetri, ferri battuti.
Sono un archeologo in una città dove la storia non si trova sottoterra ma ancora accanto a me, intorno a noi. Ci circonda, ci perseguita, ci richiede di investigare molto e con pazienza. È fatta di storie e persone che non si aprono molto facilmente. Ma il viaggio vale la scoperta: Beirut ti costringe a imparare costantemente, ad essere umile.
Questo viaggio, per Tarazi, è lungo una vita che ha superato i quarant’anni: ma dal 2020, anno dell’esplosione del silos al porto della capitale, l’impegno dell’artista è stato molto intenso ed è culminato nella partecipazione alla mostra collettiva, intitolata Cinquant’anni di Déjà-Vu, presentata dall’organizzazione no-profit UMAM Documentation & Research di Beirut e curata dal regista Ayman Nahle.
La mostra, che ospita anche i lavori di Lamia Joreige, Talal Khoury e Houssam Boukeil, ripercorre il cinquantesimo anniversario dell’attentato all’autobus (al bosta, qui lo chiamano tutti, riferendosi solo a quello specifico autobus) non per commemorarlo, ma per interrogare la cittadinanza e la storia collettiva.
«Come archiviamo ciò che non è ancora finito?», chiedono i curatori. In un Paese in cui una legge ufficiale sull’amnistia, approvata nel 1991, impedisce la costruzione di memoriali pubblici per i caduti, questa mostra funge da contro-archivio che si oppone a narrazioni statiche, cristallizzate, utili a chi ambisce a restare in sella politicamente o a ritornarci, in favore di una memoria porosa e in continua evoluzione che riposa sulle microstorie dei suoi abitanti e dei suoi palazzi.
Tutto questo appare oggi ancora più attuale: il Libano è in un limbo securitario determinato dalla guerra in corso tra Hezbollah e Israele, in cui è difficile comprendere i termini del cessate il fuoco, delle minacce di Tel Aviv e degli accordi tra le parti. Questo ha certamente avuto un impatto anche sull’arte.
Nel settembre scorso, allo scoppio della guerra, le gallerie decisero di chiudere i battenti. Ma la riapertura delle scuole pubbliche all’inizio di novembre ha favorito il ritorno agli spazi culturali, fino ad arrivare ad oggi, in cui la vita a Beirut è ripresa nella sua pienezza. Ormai, i suoi abitanti sono abituati.
«È la guerra che ci interrompe, non il contrario», sottolinea Alfred Tarazi. «Finché siamo vivi, continuiamo a creare perché non abbiamo altri mezzi di sopravvivenza, a nessun livello. Il pubblico è felice di vedere soprattutto nuovi spazi espositivi e nuove iniziative. La cultura dimostra che esistiamo ancora».
Tarazi in questi anni ha inseguito pervicacemente storie e memorie. Nel suo studio, dove lo abbiamo incontrato dopo l’agosto del 2020, riviste libanesi storiche degli anni Cinquanta e Sessanta si sono accumulate, giorno per giorno, sopra gli oggetti del negozio di antiquariato della sua famiglia, fondato tra Damasco e Beirut nel 1860 e distrutto dalle guerre successive.
Le sovrapposizioni rivelano un passato che ci parla dell’oggi, una storia che spiega perché la Beirut di adesso è diversa da quella di settant’anni fa. Il risultato di questo lavoro sul passato è The Lovers: Body and Land (Inno all’amore), un’installazione che Tarazi ha presentato prima in forma filmica nel settembre 2023 a Daura, un sobborgo di Beirut, in un hangar vicino al Museo Nazionale, nei primi giorni dei bombardamenti israeliani.
Allora, nel presentarla, c’era anche un intento polemico, per evidenziare la mancanza di interesse per le arti decorative da parte “della museologia libanese". Adesso l’installazione - un monumentale collage di 12 metri che ripercorre l’ascesa e il declino di Beirut, dalla sua modernizzazione nel 1860 alla sua quasi distruzione da parte dell’esercito israeliano nel 1982 - è stata portata all’UMAM.
Fondata nel 2005 come risorsa pubblica dedicata al conflitto libanese, l’UMAM è oggi un deposito di documenti del passato del Paese. Nel 2021, uno dei suoi co-fondatori, Lokman Mohsen Slim, attivista e commentatore politico che ha sostenuto il progetto di Tarazi, è stato assassinato nel Libano meridionale. Un giudice, successivamente rimosso dal caso per ostruzione giudiziaria, aveva sospeso l’inchiesta nel 2024, adducendo la mancanza di nuove piste. Il caso è stato poi riaperto lo scorso 12 giugno, ma con tutte le difficoltà logistiche imposte dalla guerra regionale in corso.
Alfred Tarazi si è immerso in questo progetto per dieci anni proprio con il supporto dell’UMAM e di Monika Borgmann, l’altra co-fondatrice, partecipando al progetto BERYT dell’UNESCO con un team di giovani libanesi entusiasti, tra cui i suoi due soci Fady Tabbal e Alaa Feyfel per il suono e l’animazione. Sono previsti altri quattro capitoli dell’opera, assolutamente necessaria, secondo Tarazi, “perché la natura problematica degli archivi in Libano è centrale per la ricostruzione della nostra storia” e fa parte anche della missione dell’UMAM.
A Lover Manifesto to Beirut
Il cuore del collage di Tarazi, che oggi è divenuta opera di riflessione collettiva, si dipana nella storia d’amore tra Georgina Rizk, Miss Universo 1971, e Ali Hassan Salameh, capo della sicurezza dell’OLP, intrecciando due filoni di ricerca sulla città e sulla sua società: la liberazione sessuale e la resistenza palestinese.

“È stato un esercizio di memoria necessario”, sorride Tarazi, percorrendo a piccole falcate il suo ampissimo studio artistico nell’attico terrazzato di un palazzo popolare e decadente. A Lover’s Manifesto to Beirut, infatti, è il frutto di dieci anni di lavoro dell’artista e del suo team, che hanno setacciato gli archivi della stampa libanese. Tarazi è partito da un panorama-book che ci mostra divertendosi come un bambino, girando le due manovelle che lo compongono: da una parte c’è la storia della Rizk, dall’altra quella di Salameh.
Questo panorama book sostanzialmente contiene le immagini a stampa per il film e per l’installazione sviluppato successivamente. Sono partito da qui, collezionando solo materiali d’archivio, raccolti utilizzando una gamma molto ampia di fonti dai media. Poi abbiamo ampliato il tutto e lo abbiamo reso immersivo con animazione, luci, suoni e con un formato collage gigantesco.
In questo modo Tarazi ha creato qualcosa di inedito, a metà tra il documentario e le arti grafiche, naturalmente senza schemi, come la storia di questa città folle, sbucciando gli strati della storia di Beirut per comprendere meglio cosa rende questo luogo un vero e proprio crocevia.
Non ho mai sperimentato Beirut in una situazione normale: sono nato durante la guerra civile; dopo la ricostruzione abbiamo avuto l’instabilità, un’altra guerra, il collasso economico, la rivoluzione; poi l’esplosione al porto, gli scandali bancari, e ancora una guerra. In sostanza, qui la storia è sempre nel suo farsi e noi vi partecipiamo, anche se qualche volta ne siamo vittime. Il lavoro che faccio qui ha l’obiettivo di non subire la storia, ma di farla. Consiste nell’immaginare un futuro possibile e per farlo guardo al passato. Scavo nel passato con l’idea di prendere questo passato e presentarlo alle nuove generazioni per immaginare un futuro migliore. Io credo che questa città abbia qualcosa di unico da offrire al mondo.
In questa installazione la voce di fuori campo è un hakawati, un narratore che accompagna i fotogrammi che scorrono per esplorare quale sia «il ruolo delle immagini nella storia traumatica del Libano», in un ciclo di violenza che sembra non essersi mai concluso. Così il film inizia negli anni Trenta e proietta le immagini di ciò che accadeva nel mondo durante la Guerra Fredda, per poi proseguire fino agli anni Ottanta: Alfred Tarazi è affascinato soprattutto dal concomitante rapporto tra la liberazione sessuale e la lotta armata, sintetizzato nella storia d’amore tra la regina di bellezza libanese, Georgina Rizk, eletta Miss Universo, e Ali Hassan Salameh, assassinato nel 1979 dal Mossad. Tarazi utilizza la loro storia come filo conduttore della sua esplorazione.
«Un mondo vasto si è aperto da entrambe le parti, un magma di idee che ha cambiato quegli anni», confida l’artista, che vede nelle lotte armate dell’epoca, che siano in Vietnam, in Palestina o altrove, la resistenza all’egemonia del vecchio ordine occidentale borghese e coloniale, i cui effetti nefasti si avvertono ancora chiaramente nell’odierno Medio Oriente in frantumi.
In questo modo traccia un parallelo tra un popolo che lotta al grido «Liberate la terra» (il popolo palestinese) e una popolazione che grida «Liberate il corpo» (i libanesi); perché la rivoluzione sessuale aveva raggiunto il Libano, come testimoniano le numerose immagini a colori di donne in bikini, esposte sulle riviste dell’epoca d’oro della stampa libanese che Tarazi ha recuperato meticolosamente.
Da allora, questa libertà se n’è andata, e con essa la gioia. Per contro, Tarazi ha capito “fino a che punto il fenomeno della lotta armata sia anche un fenomeno culturale che ha attraversato tutti i paesi, soprattutto del cosiddetto Terzo mondo durante la Guerra Fredda«. E, pur ammettendo che siano stati i dissensi di quest’ultimo ad avvantaggiare l’Occidente, ricorda anche che un ruolo l’ha sempre avuto anche la politica dei»doppi standard", quando i Paesi occidentali applicano solo a se stessi i valori democratici che propugnano, favorendo altrove guerre e instabilità. Ciò è dimostrato dagli attuali crimini contro l’umanità nella regione, e dall’insidiosa copertura dei media internazionali, che, secondo Alfred Tarazi, non faranno altro che alimentare la rinascita della violenza in futuro.
Come si archivia una guerra che non è ancora veramente finita?
Il regista Ayman Nahle, curatore e organizzatore della mostra Cinquant’anni di Déjà-Vu, vede questa confluenza di eventi come emblematica di una crisi più profonda:
Come si archivia una guerra che non è ancora veramente finita? Il presente diventa archivio nel momento in cui ne riconosciamo la fragilità. Quando la violenza diventa così ripetitiva e normalizzata, l’atto stesso di archiviare diventa una forma di resistenza. In questa mostra abbiamo resistito alle commemorazioni statiche e ci siamo rivolti a immagini, performance e installazioni come atti di contro-memoria. Non tutti gli archivi sono istituzionali; alcuni sono emozionali, spaziali, fotografici o orali. Alcuni sono cicatrici sui corpi o fori di proiettile sui lampioni. L’urgenza oggi non è solo quella di preservare ciò che è accaduto, ma di continuare a chiedersi: chi lo sta conservando, come lo sta conservando e a quale scopo?
L’importanza di queste domande è centrale per definire il tipo di società che il Libano vorrebbe essere. Partendo dalla sua capitale. Riprende Tarazi:
Prima di essere distrutte, queste città, come Beirut, erano belle e rigogliose. Lo erano prima che venissero usurpate o cementificate. Nonostante questo, Beirut è ancora un laboratorio unico nel mondo arabo: qui ci sono sempre stati molti fanatici delle religioni ma anche molti liberali. Questa varietà tra correnti e opinioni può essere garanzia di instabilità ma anche di fratture magmatiche e positive. Parlando di storia, e di ponti gettati tra il passato e il futuro, per me, il punto essenziale è che eventi anche drammatici come l’esplosione al porto o le guerre, creino fratture nella trasmissione della storia, nel passaggio tra generazioni. Quando una generazione ha un’esperienza estrema e passa questa esperienza alla generazione successiva, si creano spinte o estremamente evolutive o estremamente involutive. C’è da capire ancora dove ci porterà l’ultima e più drammatica frattura di questi due anni.
Tarazi spera di certo che, comunque vada, queste esperienze e questo patrimonio del Levante vengano conservati e trasmessi. “La storia della modernità araba è finita nella spazzatura perché non siamo riusciti a preservarla”, avverte, ricordando che tutti i grandi artisti libanesi che hanno lavorato a un certo punto per la stampa, sia nell’illustrazione che nella calligrafia, come Diran Agemian, padre della caricatura in Libano negli anni Trenta, non sono stati oggetto di «una politica di conservazione della memoria». E invece bisogna battersi per essa, «altrimenti, ciò che le generazioni precedenti hanno prodotto e scritto finirà nella spazzatura, e noi con esso. C’è davvero bisogno di un risveglio che possa creare una rinascita culturale per preservare il posto essenziale che il Libano occupa nel Medio Oriente», sottolinea, accarezzando la locandina di uno dei primi film erotici girati in Libano negli anni Settanta.
Un documento storico e culturale oggi semplicemente inimmaginabile.