Beirut - Non è la solita storia

Gli scontri del 14 ottobre 2021 a Beirut non vanno letti come possibile ritorno alla guerra civile, il cui contesto era diverso sotto diversi aspetti essenziali. Piuttosto, si dovrebbe andare oltre la distinzione netta tra un passato di guerra e un presente post-conflitto. Gli eventi attuali non sono un ritorno o un riemergere cronico della violenza, ma gli indici di un suo continuo evolversi, un divenire tutt’ora in corso.

Un membro di Hezbollah spara durante il funerale di alcuni dei loro membri uccisi durante gli scontri nel quartiere Tayyune nella periferia meridionale di Beirut il giorno precedente, il 15 ottobre 2021
Ibrahim Amro/AFP

“Beirut” è da decenni diventata sinonimo di “guerra civile”. E il sorprendente inasprimento delle violenze armate hanno indotto in molti, dentro e fuori il Libano, a parlare di rischio di un “nuovo” conflitto intestino, o addirittura di un “ritorno” alla guerra civile. Un’analogia innescata anche dalla geografia delle rinnovate tensioni, lungo faglie di ferite urbane ancora aperte. In questo senso, gli scontri di Tayyune del 14 ottobre, che hanno visto coinvolti Hezbollah, Amal, l’esercito libanese e uomini armati non identificati, hanno riportato alla memoria di molti i ripetuti confronti armati verificatisi nelle stesse zone a partire dalla metà degli anni ‘70. Ma i paragoni tra il passato e il presente si fermano qui.

Geografie e contesti tra conflitto e post-conflitto

L’area dove si sono verificati gli scontri del 14 ottobre non è casuale, ma parte di una geografia fatta di punti e linee di contatto (khutut at-tamas) «tradizionali» lungo la famigerata Linea verde1 che per quindici anni di guerra civile (1975-90) divise la città e le vite e la quotidianità dei suoi abitanti. I luoghi degli scontri attuali sono certamente dei punti caldi di scontro ricorrente. Nel volume Negotiating Conflict in Lebanon. Bordering practices in a divided Beirut,2 Mohamad Hafeda spiega come in questi luoghi il tempo si ripiega nello spazio; sono luoghi dove - sempre per dirla con Hafeda - il retaggio e la sovrapposizione di divisioni successive influenzano non solo la vita quotidiana attuale degli abitanti, ma anche la loro visione del futuro. I paragoni con la guerra civile, dunque, non solo distolgono dalle dinamiche di più lungo corso, ma danno l’idea - ingannevole - di un ‘ritorno alla guerra’, quando invece, è la distinzione stessa tra epoca di conflitto e di post-conflitto che dovremmo mettere in discussione. Quali attori, dunque, troviamo lungo il continuum di conflitto/post-conflitto in cui gli scontri del 14 ottobre si situano - che si guardino dalla prospettiva geopolitica di larga scala, o da quella di una strada o una scuola elementare (come nel caso del Collège Notre Dame des Frères, si veda la mappa) coinvolta nella geografia degli scontri?

Hezbollah e i suoi alleati

La prima macroscopica differenza col passato del conflitto intestino è la superiorità di un attore politico e militare - Hezbollah - rispetto agli altri gruppi libanesi. Al netto della retorica fondata sul “martirio” e sulla necessità di difendersi dagli attacchi dei nemici esterni (Israele, gli Stati Uniti) e interni (le Forze libanesi e i loro alleati), il Partito di Dio non ha rivali in Libano. E ha dato prova in questi anni di saper dispiegare con relativa agilità un arsenale militare minaccioso. Passando a Tayyune prima, durante e dopo gli scontri del 14 ottobre è stato evidente notare come le barriere di filo spinato erette dall’esercito fossero a protezione degli ingressi occidentali di ‘Ayn Remmane. Il vicino quartiere di Shiyah, roccaforte di Amal e, in parte, anche di Hezbollah, non era protetto dal filo spinato (si veda la mappa). Tradizionalmente, così come avvenuto il 14 ottobre, l’attacco vero e proprio proviene da Shiyah verso ‘Ayn Remmane e non viceversa. Le prime decine di seguaci di Amal e di Hezbollah che sono penetrati ad ‘Ayn Remmane armati di spranghe e bastoni e che hanno assaltato gli androni dei palazzi, le auto e le moto parcheggiate in strada urlando “sciiti! sciiti!”, si erano schierati lungo viale Sami Solh, provenienti da Shiyah (si veda la mappa).

La forza politica di Hezbollah, dentro e fuori le istituzioni, non è data solo dalla presenza delle armi ma anche da una consolidata capacità di costruire il consenso nei suoi feudi territoriali. All’ombra della crisi finanziaria libanese, palesata nel 2019 e acuitasi anche a causa della pandemia, l’abilità del movimento sciita, così come quella degli altri partiti libanesi, si è in parte ridotta. E il sistema di distribuzione clientelare di rendite, servizi e regalie, ha dovuto in questi due anni trovare nuove modalità di funzionamento per assicurare all’entità politica di turno di mantenersi egemone.

I meccanismi di conservazione del potere sono mutati così come è cambiata nel tempo la natura di Hezbollah stesso: da partito extra-istituzionale e di resistenza territoriale armata dalla sua fondazione fino al ritiro israeliano del 2000; ad attore istituzionale ‘senza macchia’ e ‘partito della comunità’ (sciita) fino alla guerra del 2006; a partito che ha gradualmente perso la legittimità indiscussa del suo arsenale, dopo il 2008 e alla luce del suo intervento nel conflitto siriano dal 2012; a partito sempre più coinvolto nelle pratiche clientelari libanesi alla stregua delle altre formazioni (da qui lo slogan delle proteste popolari del 2019: “kellon ya‘ni kellon, per ‘tutti’ intendiamo tutti!, come a dire ‘Hezbollah non è più senza macchia ed è parte del sistema corrotto’).

Di fronte a questa graduale perdita di consenso trasversale inter-libanese e che per anni aveva trasceso l’appartenenza confessionale e locale (oltre certi distretti della Biqa‘, del Jabal ‘Amil e dei quartieri della periferia sud di Beirut), negli ultimi 15 anni il movimento sciita si è trovato costretto a ricorrere sempre più spesso all’uso diretto e indiretto della minaccia delle armi e della minaccia della fitna, la sedizione comunitaria, che nell’immaginario dei seguaci di Hezbollah significa essere presi di mira in quanto sciiti dalle comunità percepite come ostili, prime fra tutte dalla comunità sunnita. L’analista libanese Laury Hayatayn, durante un recente episodio del podcast The Beirut Banyan,3 ha affermato che Hezbollah si è gradualmente autodeclassato da essere l’indiscusso e l’unico partito legittimo di resistenza (anche armata), a essere una milizia come Amal e le altre. Si ha questa stessa impressione stando a Beirut, passeggiando per Tayyune dopo gli eventi del 14 ottobre, ricordando quanto si è visto poco prima che gli scontri cominciassero e quanto si è udito durante gli stessi scontri.

Il 14 ottobre 2021 a Tayyune sono state esposte sia le armi sia la retorica che evoca il ritorno alla guerra civile e alla fitna. A ribadire il paradigma di mantenimento del potere: siamo noi i garanti della ‘pace civile’ (as-silm al-ahli), della sicurezza (amn) e stabilità (istiqrar); chiunque ci contesti è portatore di disordine e instabilità.

Nello specifico caso degli scontri di Tayyune, è ancora da capire quale sia il movente del duo sciita Hezbollah-Amal rispetto all’inchiesta sull’esplosione del porto di Beirut il 4 agosto del 2020 (220 vittime). Nessuna prova schiacciante è finora emersa pubblicamente per identificare il movimento sciita come responsabile più di altri attori istituzionali e politici libanesi della devastante deflagrazione di 2750 tonnellate di nitrato d’ammonio accatastate nel porto di Beirut. Eppure, l’escalation di tensione politica, istituzionale, comunitaria e, quindi, di violenza urbana (14 ottobre), portate da Hezbollah e da Amal in relazione all’azione del giudice Tareq Bitar, incaricato di guidare l’inchiesta sulla devastante esplosione del porto, fanno pensare che i due partiti sciiti si sentano più minacciati di altri attori libanesi dall’eventualità che l’indagine giudiziaria possa fare il suo corso.

Il Palazzo di giustizia

Si rimane ora sul tema dell’inchiesta, ma si introduce un altro tema che segna non un semplice ritorno al passato di guerra civile, bensì l’evoluzione lungo il continuum della costante temporalità e spazialità di conflitto, la presenza, nella geografia del 14 ottobre, di un luogo simbolo pressoché inedito: il Palazzo di giustizia (Qasr al-‘adl). È un luogo evocato più volte da Hezbollah e da Amal come punto di aggregazione della protesta. Eppure è un luogo dove, il 14 ottobre, la protesta arriva solo simbolicamente. Perché l’azione trasgressiva e violenta comincia e si conclude nella stessa rotonda di Tayyune, dopo esser stata innescata dall’azione provocatoria di alcuni seguaci dei due partiti sciiti per le vie più laterali di ‘Ayn Remmane.

Questo luogo istituzionale ha assunto una posizione centrale nella dialettica politica libanese soltanto negli ultimi tempi, dopo esser stato a lungo relegato a un luogo dove la giustizia - a parte alcune eccezioni - si limitava a legittimare, con i suoi atti e procedimenti, quello che era stato già deciso nei luoghi formali e informali della politica. Nelle settimane che hanno preceduto il 14 ottobre e in quelle che lo hanno seguito, le azioni di protesta di fronte al Palazzo di Giustizia sono state sempre più frequenti. E a queste iniziative hanno partecipato un numero crescente di persone. Questo si deve anche, ma non solo, all’effetto catalizzatore della figura di un giudice come Tareq Bitar, poco conosciuto e da alcuni definito inizialmente inesperto, che nel corso del tempo, dopo aver preso il posto, agli inizi del 2021, del suo predecessore, Fadi Sawan, si è guadagnato l’appellativo di Davide che affronta Golia, in riferimento qui al sistema (manzuma) politico identificato come “responsabile” dell’esplosione del porto di Beirut.

I movimenti di protesta trasversali e decentrati

A differenza delle forti disuguaglianze sociopolitiche esistenti nella Beirut della vigilia della guerra civile, come ad esempio tra classi urbane tradizionali e comunità dell’esodo rurale che si stabilirono nelle periferie accanto alla presenza dei profughi palestinesi,4 il Libano contemporaneo ha vissuto, almeno dal 2015, una fase di mobilitazione significativa di segmenti della società civile, più o meno borghese ed elitaria, accanto a forti momenti di proteste più popolari, più localizzate nello spazio e circoscritte nel tempo, da parte di settori subalterni della società. Le principali rivendicazioni si sono concentrate su questioni materiali, ambientali, civili, quasi sempre urbane.

Nel caso dei gruppi più elitari, si tratta di azioni che, almeno nella retorica, vogliono superare le divisioni comunitarie: la protesta contro la crisi dei rifiuti nel 2015 (Tale‘ rihetkon/You Stink, “puzzate!”) è stata esemplare; e si è poi trasformata, in vista delle elezioni amministrative e politiche successive, con la fondazione di movimenti come Beirut madinati (Beirut è la mia città) e altri con un connotato più esplicitamente politico, come quello fondato dall’ex ministro del lavoro Charbel Nahhas: Muwatinun wa muwatinat fi Dawla (Cittadini e cittadine nello Stato). Questi gruppi si concentrano su questioni trasversali legate allo sviluppo e all’uso delle risorse: sostenibilità ambientale, gestione dei rifiuti, distribuzione dei servizi di base come acqua ed elettricità, pianificazione urbana e degli spazi vedi, crisi climatica, qualità delle infrastrutture, inclusività, e altro.

Queste iniziative si sono saldate nell’autunno del 2019 con l’improvviso (e imprevisto) momento di protesta popolare scaturito dalla notizia dell’innalzamento di nuove imposte indirette di fronte al deterioramento della situazione socio-economica e al disastro ambientale provocato dal malgoverno statale durante gli incendi boschivi nella regione dello Shuf nei giorni precedenti le proteste.

Proprio il carattere ibrido (trasversale, locale, elitario e subalterno) di questi moti di protesta ha dato alla sollevazione di due anni fa un carattere inedito, almeno nella sua prima fase: una capillarità locale priva sia di un centro geografico specifico e senza una connotazione confessionale e ideologica particolare. A esser messo per la prima volta fortemente e trasversalmente in discussione è stato tutto il sistema di egemonia politica basato sulla logica della spartizione clientelare-confessionale.

La comunità occidentale sostiene lo statu quo attuale

In questo scenario la comunità occidentale appare sempre più priva di mezzi. Un limite che non è apparso solo dopo il 2019 ma che è risultato evidente già dopo il 2006. Le cancellerie occidentali, che a parole si dicono favorevoli a contribuire a un processo di sviluppo sostenibile e inclusivo della società libanese, in realtà adottano la stessa strategia di altri attori dominanti nella regione. Insistono, per esempio, nel voler rafforzare la “sovranità nazionale” del Libano: puntellano la tenuta precaria dell’esercito nazionale libanese e finanziano azioni molto spesso cosmetiche e comunque molto limitate di potenziamento della capacità statale di controllare l’unico confine internazionalmente riconosciuto, quello con la Siria.

Non si interviene invece nelle fault lines urbane, lungo quei punti di contatto dove gli scontri avvengono periodicamente e dove si sono verificati lo scorso 14 ottobre. Come testimoniato direttamente da Tayyune, la presenza dell’esercito nella zona prima e durante gli scontri era pressoché simbolica. E non corrisponde alla densità di aiuti giunti in questi anni e in questi mesi dai paesi occidentali alle forze armate libanesi, descritte da più parti in Libano - non senza un velo di ipocrisia - come l’unica istituzione realmente imparziale nel paese e dunque garante dell’“unità nazionale”.

In un’ottica più ampia e nel lungo periodo, la comunità internazionale nel suo complesso dovrebbe concentrare i propri sforzi nel sostenere segmenti delle istituzioni e della società libanese nell’affrontare il tema delle responsabilità della guerra civile, insistendo con iniziative, anche indirette e laterali, di rafforzamento di pratiche di riconciliazione, in modo da superare la logica dell’amnesia formalizzata con la legge sull’amnistia generale del 1991 sui crimini della guerra civile.

Gli incidenti di Tayyune, al contrario del conflitto civile del 1975-1990 che in molti hanno riportato alla memoria, non sembrano invece aver innescato nessuna sterzata improvvisa alle dinamiche regionali in corso e agli equilibri mediorientali in cui sono coinvolti gli stessi attori libanesi e i loro sponsor stranieri. Né sembrano aver attivato la comunità internazionale e, soprattutto quella occidentale, a rivedere la propria visione di lungo periodo sulla questione libanese.

Nella dimensione locale libanese, l’esposizione della violenza armata è servita a mandare un nuovo e più esplicito messaggio contro il proseguimento da parte del giudice Bitar dell’indagine in corso sull’esplosione del 4 agosto del 2020. Ma l’attuale spaccatura in seno al governo libanese del premier Najib Miqati e la crisi tra il Libano e l’Arabia Saudita, durata più di un mese tra ottobre e dicembre, non sembrano foriere di mutamenti improvvisi e radicali degli equilibri regionali.

Dentro e fuori il Libano si stanno tutti preparando per le elezioni legislative e, poi, presidenziali, del 2022. Per tornare di nuovo a spartirsi le rispettive quote del sistema egemonico locale, una risorsa di altissimo valore sia su scala regionale che globale.

1Così chiamata in gergo occidentale. In gergo locale è appunto khatt at-tamas, linea di contatto.

22019, I.B. Tauris, Londra.

3Intervista a Hayatayn, 12 settembre 2021: https://www.youtube.com/watch?v=nAK5qU9hHjA

4Theodor Hanf (2015), Coexistence in War-time Lebanon: Decline of a State and Decline of a Nation, I.B. Tauris, Londra.