Nove anni fa, nel 2013, padre Paolo Dall’Oglio veniva rapito dallo Stato Islamico in Siria. Era passato più di un anno da quando il regime siriano l’aveva bandito dal paese, dove aveva vissuto per trent’anni e dove aveva fondato il Monastero di Mar Musa al-Habashi, vicino a al-Nebk, nella Siria centrale. Ad oggi, il destino di padre Paolo rimane ignoto.
Prete appartenente alla Chiesa cattolica siriaca, era conosciuto per le sue attività umanitarie e la sua lotta nonviolenta per la pace, oltre che per i numerosi cicli di incontri, scambi e riunioni organizzati agli inizi della rivolta siriana con lo scopo di riconciliare opinioni, mediare fra le parti, aiutare la rivoluzione a raggiungere i suoi obiettivi, ovvero libertà, dignità e una transizione democratica e pacifica.
Alla fine del 2012, Wassim Hasan ha incontrato padre Paolo ai margini di una conferenza dell’opposizione siriana e ha registrato con lui una conversazione di cui, fino ad ora, erano state pubblicate soltanto alcune parti. Oggi pubblichiamo l’intero dialogo, diviso in sezioni, in ciascuna delle quali padre Paolo Dall’Oglio risponde a una domanda sulla Siria.
Sulla scelta di vivere in Siria
Prima di tutto, bisogna ricordare che la Siria è parte integrante della Terra Santa. Per me, tutto il Mediterraneo orientale è il teatro in cui si svolgono la vita di Gesù, la nascita della Chiesa e la sua diffusione. In Siria, non potrei mai non sentirmi in Terra Santa. E per di più, questo paese ha un suo proprio lato spirituale e mistico. Guarda a Gerusalemme con devozione e, nello stesso tempo, attraverso la sua terra è testimonianza del valore dell’umanità e della civiltà. Quella civiltà che ogni persona di cultura e sensibilità mistica è in grado di creare. Perciò ho considerato questo paese come l’asse geografico, storico, culturale e religioso tra Mediterraneo e Asia, tra Nord e Sud, tra cristianesimo e islam. E vi è inclusa anche un’importante presenza ebraica, che un giorno avrà bisogno di pace, riconciliazione e ritorno alla verità e giustizia, con la reintegrazione di questo fratello sotto la tenda di Abramo. Per me la Siria è la Siria di Abramo, la Siria dei profeti. Mi sento davvero bene qui, insomma, sono trent’anni che questo paese fa parte della mia vita.
Sulla diversità confessionale ed etnica in Siria
Diversità, differenza, pluralità: questo è il destino del mondo intero. Non esiste paese che possa svilupparsi, modernizzarsi, aprirsi e affermarsi senza il pluralismo, i colori, le forme e l’intesa di persone di tradizioni diverse. Questo è il destino della civiltà e della modernità. E in tal senso, la Siria è stata simbolo di civiltà e modernità per tre millenni. Era plurale già prima di Cristo, in quanto paese dell’incontro culturale, della mescolanza, grazie a commerci, viaggi, prossimità e vicinanza. La Siria è stata pioniera. E chi la considera monocromatica non è altro che un traditore della patria.
Sulla Siria e l’Occidente
Sono almeno vent’anni che dico che l’avidità e l’immoralità dei regimi capitalisti occidentali hanno fatto sì che si compromettessero con regimi dittatoriali per seguire i propri interessi e nel totale disprezzo del diritto dei popoli alla libertà, alla democrazia e alla crescita politica. Accampare scuse è troppo facile. Come dico sempre in questi casi: vergognatevi, voi che collaborate con questi regimi nello sfruttamento dei loro popoli, mentre bevono il sangue di questi ultimi per poi vomitarlo nelle vostre banche. E pure gli aiuti internazionali per lo sviluppo, nella maggior parte dei casi, finiscono nelle tasche di funzionari che li riversano poi nelle banche occidentali. Questa logica ci ha impedito di avanzare, mentre i regimi dittatoriali hanno tratto profitto dalla cospirazione capitalista per consolidare e rafforzare il loro controllo sui popoli. Ne è la prova il fatto che, a dispetto di ogni ragionevolezza, i siriani non abbiano ancora potuto ottenere la libertà: il regime ha dispiegato tutti i mezzi possibili per creare una fortezza inespugnabile contro i diritti del suo popolo, e questo è stato possibile solo grazie alla cospirazione internazionale. E non intendo quella, ridicola, di cui parla Bashar al-Asad, ma la cospirazione vera, fatta di interessi comuni tra il regime e chiunque abbia collaborato al suo sistema di sfruttamento.
Sulla violenza e l’auto-difesa
È un dilemma e una contraddizione molto dolorosa. A riguardo mi sono state rivolte le accuse più dure, durante più di un’assemblea e in diversi paesi. Ma se osserviamo la questione da vicino, non c’è contraddizione nel focalizzarsi da un lato sulla necessità di iniziative basate sulla teoria della nonviolenza, alla quale credo; di iniziative diplomatiche che non stagnino, come è successo negli ultimi mesi al comitato diplomatico sulla questione siriana, di iniziative umanitarie che cerchino di alleviare le terribili conseguenze del movimento e del conflitto in corso; e dall’altro lato, sul diritto di un popolo a difendersi. Quello siriano ha attraversato delle fasi che rappresentano dei punti di non ritorno nella sua ricerca di libertà e dignità. È una sua scelta ed è suo diritto difendersi. Si tratta di qualcosa che leggi celesti, filosofia, scienza e logica riconoscono, perché, se non fosse così, la resa alla tirannia diverrebbe una regola universale. E questo non è ammissibile. Insomma, perfino Gandhi non lo avrebbe accettato. Tuttavia, per difendersi, il popolo deve disciplinarsi moralmente, perché non possiamo seguire gli stessi metodi del regime. Non abbiamo il diritto di torturare, né di rapire né di uccidere su base identitaria. Una guerra per i diritti non è come una guerra per l’oppressione. E ora noi chiediamo – e questo come parte della rivoluzione – la formazione di commissioni giudiziarie contro i crimini di guerra e crimini contro l’umanità.
Sulla guerra civile
Ho messo in guardia sul pericolo di una guerra civile sin dal giugno 2011. Mi aspettavo che accadesse prima e ho allertato i diplomatici. Il regime si è organizzato basandosi sul controllo delle minoranze attraverso l’intimidazione, facendo credere loro che la sola alternativa ad esso fosse l’islam fanatico, estremista e takfiri. Ed è esattamente quello che è successo. Le persone sono diventate ostaggi del regime, ancora oggi, e ci si sbarazza di loro con ogni mezzo possibile. La maggior parte lascia il paese. I cristiani hanno scelto di emigrare. Per gli alawiti, è più difficile perché non hanno connessioni all’esterno; e così, ritornano sulle loro montagne, ma per quanto tempo?
Fanno riparare le loro famiglie nei villaggi e continuano a lottare fino all’ultimo respiro. È questo che ha fatto al-Asad e di questo ne risponderà davanti al tribunale della Storia.
Come mezzo per imbrigliare la nazione, il regime si è appoggiato sulla solidarietà tra comunità e villaggi alawiti, creando una cerchia decisionale ristretta. Questo non significa la presenza dei soli alawiti al potere: è risaputo che vi erano sunniti, cristiani, drusi, e così via. Ma la cerchia di solidarietà era limitata alle minoranze, pur essendo molto evidente l’esistenza di una cricca di affaristi comprendente anche i sunniti.
C’è stato un tempo in cui la struttura autoritaria esercitava il suo dominio sulla maggior parte dei siriani, che, in un modo o nell’altro, erano costretti ad accettarla. Ma ora è giunto il momento della rivoluzione e della liberazione. Il tempo della libertà per i siriani è arrivato e stiamo pagando un prezzo altissimo. Accettiamo il nostro destino, che altro possiamo fare?
Ora, i nostri fratelli e sorelle alawiti stanno vivendo una terribile lacerazione. Qualunque nostro stimato fratello alawita finito in prigione e marginalizzato dal governo e dal regime in quanto in disaccordo con queste politiche, si ritrova preso tra due fuochi: da una parte, viene vilipeso per essere parte integrante – anche se suo malgrado – di una famiglia, di una fazione che si ritiene abbia mosso la guerra contro il popolo siriano; dall’altra è un oppositore di questo stesso regime. Dunque, è necessario l’auto-controllo da parte dei rivoluzionari. È necessario l’aiuto degli arabi e della comunità internazionale. Questa ha trascurato le proprie responsabilità, così come la comunità araba. La Russia e l’Iran hanno attaccato il popolo siriano, invece di aiutare gli alawiti ad accettare una ragionevole via d’uscita, all’interno di un ragionevole programma in una ragionevole agenda, per una transizione democratica capace di mantenere le specificità geografiche. Qual è il problema se, per esempio, il governatorato di Latakia o Tartus mantiene un’amministrazione locale a predominanza alawita? Se la provincia di Hasaka ne mantiene una a predominanza curda? Deir ez-Ezor una a maggioranza beduina, e as-Sweida una drusa? Qual è il problema? Insomma, sono molti i paesi sviluppati ad aver adottato il federalismo.
Sulla competizione inter-islamica
Attualmente osserviamo una frattura, una competizione, e direi anche del movimento politico, tra i musulmani stessi. Il progetto islamico è molto variegato al suo interno. C’è il progetto di Erdogan, quello di Morsi, il progetto libico, tunisino, algerino, maliano, e ancora, quello di Khartum e Hamas e via dicendo. Sono tutti musulmani. I palestinesi di Fatah sono musulmani ma il loro concetto di islam e di Stato è diverso da quello dei nostri fratelli di Hamas. E io credo che, all’interno di un regime democratico pluralista, le diverse correnti islamiche abbiano l’occasione di elaborare le loro esperienze, di provare e applicare sul terreno i loro progetti, le loro richieste, attese e desideri, di fronte però a una valutazione. Le elezioni ogni quattro o cinque anni rappresentano il giudizio popolare. Uno potrebbe dire: questa interpretazione del Corano ci va bene, e se Dio vuole, ci porterà al successo. Un altro potrebbe dire: no, questo concetto preso dalle fonti della sharia non sta al passo coi tempi, non risponde alle nostre richieste e alle nostre aspirazioni. Optiamo dunque per un’altra interpretazione. Se fossimo capaci di consolidare la democrazia, il dibattito tra i musulmani potrebbe avvenire senza colpo di spada. Non vogliamo tornare alla battaglia del Cammello . Ogni volta che siamo in disaccordo, dovremmo forse ucciderci? No, basta così. Le situazioni di conflitto sono diventate letali, le conseguenze terribili. Non è che ci si fa la guerra per tre o quattro giorni e poi si giunge a un accordo. Non è così che vanno le cose.
Sui cristiani
I cristiani sono dispersi in ogni parte della Siria. Nella regione di Homs, per esempio, alcuni vivono tra sunniti e alawiti, e altri accanto ai beduini. Ogni volta che scoppia una tensione confessionale, fra sunniti e sciiti, o sunniti e alawiti, la comunità cristiana dovrebbe essere l’artefice della riconciliazione e della fratellanza, l’elemento di unione. Era lei che aveva questo compito. Purtroppo, non siamo riusciti a farlo in Iraq, in Iran o in Libano, forse perché il cambiamento è estremamente complesso e oltrepassa le nostre capacità, non abbiamo la cultura per riuscire a farlo. Di fatto, la maggior parte dei cristiani sta emigrando dalla Siria. La rivolta è stata estremamente lungo e le perdite estremamente gravi. Tutto ciò ha provocato l’emigrazione di un gran numero di cristiani.
Sul suo ruolo nel movimento rivoluzionario
Gioco un ruolo intellettuale e militante. Mi sta a cuore la pace civile. Sono pronto a servire la pace civile. Sono pronto a immergermi nel fiume Assi e a stare sott’acqua finché o annego o mi tirate fuori dopo essere riusciti a giungere a un accordo tra di voi. Non avrei nessun problema a farlo. Gli alawiti mi stanno a cuore, così come i drusi e pure i ragazzi che hanno combattuto con Bin Laden. Li considero tutti figli miei, ci tengo a loro. Vogliamo sottrarli al fuoco della violenza, portarli dal crogiolo della violenza al paradiso dell’armonia e della comprensione. Ho consacrato la mia vita a questo. Tra le mie priorità non faccio differenza tra la riconciliazione tra i cristiani e quella tra i musulmani stessi.
Non possiamo fare distinzioni quando si tratta dell’amore reciproco. Mi sta a cuore persino la riconciliazione tra la Corea del Nord e la Corea del Sud. Se potessi andare a riconciliare i coreani tra loro, lo farei. Ma non possiamo essere dappertutto. È una posizione politica o religiosa? Per me, questa è la religione stessa.
Su socialismo, democrazia e mafia
C’è stato un tempo in cui la comunità alawita era la garanzia militare della presidenza di Hafez al-Asad, con una struttura settario-religiosa che aveva ancora un’ambizione socialista. C’era un progetto di sviluppo della società tramite il socialismo. Possiamo dire che allora non aveva alcun valore settario. Ma non è più così. Con la caduta del muro di Berlino, dovevamo prendere la via dei diritti democratici senza perdere ciò che avevamo conquistato con il socialismo. E invece, abbiamo perso il socialismo e la democrazia, e ci siamo ritrovati con le mafie, col pretesto che questa sarebbe stata la libertà liberale. Ma questa non è la libertà liberale. Siamo invece di fronte a un controllo militare usato per assicurarsi il controllo capitalista sul paese, attraverso l’alleanza tra la presidenza e quelle parti della società che beneficiano della situazione. Il paese è diventato una mafia. Questo sistema è mafioso: capitale e forza militare.
Sull’arabismo
Ripongo ancora fiducia nei siriani, per la profondità della loro civiltà, per il loro concetto di islam e cristianesimo, di civiltà araba come civiltà dell’armonia. Per me, l’arabismo è un tetto, un rifugio. Non riesco a pensarlo come un elemento contro i curdi, i berberi o chiunque altro. Per me l’arabismo è una posizione aggregativa associata al sacro Corano. Intendo dire che l’arabismo non è in conflitto con le culture locali. Questo è ciò che ha permesso all’anello arabo di espandersi dall’oceano fino al Golfo. E questo in quanto non nega, non ignora e non distrugge il tessuto e i valori locali. Lo stesso vale per i curdi che sono sempre stati un elemento di una società islamica matura. Ed è per questo che sono convinto che la Siria si riunirà per diventare una matura Siria democratica e pluralista, e sarà l’inizio di un processo più ampio. A quale enorme sacrificio sono stati chiamati i siriani! Un sacrificio così grande che sarebbe irragionevole pensare che ne gioverebbero soltanto loro. Solleveranno l’intera regione: l’Iraq, così che non venga completamente disintegrato; l’Iran, per un riavvicinamento sciita-sunnita; il Golfo, attraverso la riconciliazione; il Libano, così che non venga frammentato ulteriormente; la Palestina, così che potremo giungere alla giustizia e all’armonia fra i popoli per l’intera regione. Penso che abbiamo lo slancio culturale e spirituale per farlo.
Su ciò che attende la Siria
Tutte le difficoltà possibili l’attendono al varco, dal momento che la comunità occidentale non ha voluto negoziare sul serio con Iran e Russia per trovare una soluzione ragionevole, e che l’Iran è ancora intestardito a pretendere la sua parte di bottino; dal momento che i nostri fratelli curdi vogliono trarre vantaggio da questa opportunità, che Israele non è semplice spettatore e ha interesse in una frammentazione e che i fratelli sunniti stanno cavalcando l’onda che per loro rappresenta una buona occasione per realizzare antiche ambizioni. Ognuno vuole mangiarsi tutta la torta. Ma questa è buona solo quando sa di armonia, amicizia e amore. E solo in questo caso potremo dire: buon compleanno, Siria, sei tornata in vita.
Sulla forma e gli strumenti della riconciliazione
Una sola forma non basta, ce ne vorrebbero cento. Dobbiamo proteggere le vittime da loro stesse, in modo che non cerchino vendetta da sé, cosa che a sua volta provocherebbe loro una ferita morale insopportabile. Ci devono essere tribunali internazionale e locali per giudicare i crimini commessi. È necessario, perché la vittima non può arrendersi all’ingiustizia. In seguito, dobbiamo giungere a una qualche forma di perdono per coloro che erano servi sotto il comando di altri, mentre i responsabili devono essere processati e coloro che hanno subito perdite risarciti. Avremo bisogno di comitati per il risarcimento delle vedove, degli orfani, di coloro che hanno visto la loro casa distrutta o saccheggiata. Tutto ciò dev’essere fatto. Dobbiamo lavorare con strutture specializzate nella cura delle vittime di violenza, che hanno subito torture, perso la testa, bambini isolati, vedove e donne violentate. L’intero popolo è vittima, e la Siria deve diventare un ospedale clemente per curare questo paese, per curare la sua gente. Non c’è nessuno oggi in Siria che non sia malato. Dobbiamo prenderci cura l’uno dell’altro.
Sul ruolo degli alawiti nella Siria post-regime
Spero con tutto il mio cuore che si ribelleranno contro Asad nei loro villaggi, che si uniranno alla rivoluzione e che diranno agli altri “eccoci”. Fermi lì. Cominciamo con i tribunali. Mostrateci i dossier, il criminale ve lo consegneremo noi. Allora potrebbero dire: vogliamo un’amministrazione decentralizzata così che possiamo sentirci un’entità riconosciuta nei nostri villaggi. La Siria potrebbe essere di tutti i siriani se lo è per tutti in ogni angolo di questa nazione. Voglio dire, abbiamo una Siria in miniatura nel nord-est, secondo i curdi. Abbiamo la città di Aleppo, che riunisce tutti i tipi di siriani, lo stesso vale per Damasco. In ogni parte della Siria, dobbiamo consolidare la pace civile e il pluralismo democratico, non secondo il modello libanese, per cui tu sei maronita, sunnita, sciita o druso in qualsiasi situazione, pure in una partita di calcio. No. Vogliamo una formula demografica armoniosa. Questo è il modello che fa per noi.
Sui timori dei cristiani in Siria
I cristiani non si sentono al sicuro in Siria. E il fatto che fuggano ne è la prova. In alcuni posti, è estremamente pericoloso. Dove ci sono attacchi aerei o combattimenti in strada, come potrebbe non esserlo? Uno vuole semplicemente salvarsi la pelle, la sua e quella dei suoi figli. Gli sembra che questo conflitto sia fra siriani musulmani e che quindi non lo riguardi. Così, se ne tiene fuori. Il Vaticano attraverso il suo ambasciatore a Damasco ha ben chiarito che non considera questo conflitto una persecuzione contro i cristiani, sottolineando però che questi sono sottoposti a condizioni che nessuno potrebbe tollerare.
Sugli aiuti
Spero, chiedo, pretendo che, questa volta, l’Occidente non ci tratti come ha trattato gli iracheni. Vogliamo che la Siria sia trattata con solidarietà e amore. L’Europa sta attraversando una grave crisi economica, perciò non possiamo aspettarci grandi aiuti materiali da fuori. Spero che i siriani benestanti residenti all’estero ci assisteranno, perché vogliamo un aiuto da ogni amico arabo e siriano benedetto dalla fortuna economica, e da ogni persona di coscienza. Senza una stabile sicurezza democratica per tutti, è dura.