Festival

Cittadinanza mediterranea: una nuova storia da costruire e celebrare

Dal 2 al 5 giugno si è tenuto a Catania il Festival dei cittadini e delle cittadine del Mediterraneo, un punto di incontro per giornaliste/i, artiste/i, e attiviste/i provenienti da diversi paesi che si affacciano sulle sue sponde, per discutere come ritrovare e valorizzare una cittadinanza e identità comune, tra diritti umani, femminismi, movimenti di persone e di idee, giornalismi, e cultura.

Concerto di Mariam Saleh e Zeid Hamdan al Palazzo della Cultura di Catania, 4 giugno.
© Daniele Vita

Nel cortile del Palazzo della Cultura di Catania, a pochi passi dal Duomo e dalla piazza dell’Elefante, la scrittrice Rasha Abbas legge il suo racconto breve “Come nuotare a dorso con un missile Shilka”: la sua protagonista si tuffa in acqua trascinando con sé un giovane ragazzo, ma la fuga a cui aspira è un tuffo in una piscina da cui non si può veramente scappare. Al primo piano nella sala di teatro, nel frattempo, la formatrice e artista Samar Zughool fa prove di danza con Matteo Russo, giovane rapper di Catania, dopo essersi conosciuti al workshop di Samar di arte comunitaria. Accanto al loro, nell’auditorium del Palazzo, la giornalista e scrittrice Paola Caridi modera un incontro sui prigionieri politici in Siria, Egitto e Palestina e ricorda al pubblico della staffetta di digiuno1 in solidarietà dell’attivista e pensatore Alaa Abdel al-Fattah, in sciopero della fame da quasi 70 giorni nelle carceri del suo paese.

Questi nomi andrebbero accompagnati dalle cittadinanze di ognuno: siriana, giordana, italiana, egiziano-britannica. Ma tra la sala e il cortile non compaiono volutamente: perché una sola è la cittadinanza che accomuna le loro parole, danze, versi e appelli. Ed è quella Mediterranea. Tutto questo infatti si è intrecciato dal 2 al 5 giugno al Festival dei cittadini e delle cittadine del Mediterraneo2, con dibattiti, performance artistiche, film e laboratori, nella città dell’Elefante in Sicilia, al centro di quel mare di mezzo che da spazio fisico, geografico, liquido si veste di un desiderio comune, per un nuovo concetto di cittadinanza.

Compagnia Zappalà danza in Instrument Jam e standing ovation nel pubblico (3 giugno)
© Daniele Vita

Fallimento o destino comune?

Era il 1995 quando la Dichiarazione di Barcellona3 pronunciò la volontà politica di pensare uno spazio mediterraneo “di pace e sicurezza”, recuperando quella vocazione originaria che nei secoli ne ha fatto luogo di scambio e trasmissione di conoscenze, lingue, culture, popoli. Proprio a partire dagli stessi anni invece, il Mediterraneo ha iniziato progressivamente e tragicamente a trasformarsi in un cimitero, dove la mobilità umana è soffocata dal regime delle frontiere europee e intra-arabe e dove la dignità della vita umana è schiacciata da conflitti, democrazie fragili o inesistenti, collasso ecologico e fortissime diseguaglianze. Tutti fenomeni che riguardano in misure diverse entrambe le sponde, prova ne è stata nel 2011 l’ondata di proteste sfociate nelle rivoluzioni arabe, ma anche amazigh e curde, e il cui riverbero si è sentito in diversi paesi che si affacciano sullo stesso mare.

A fronte dell’irreparabile violenza scaturita in molti dei contesti rivoluzionari e di una sicurezza frontaliera mortifera che non guarda alla pace, sono i protagonisti delle rivoluzioni e della società civile a fare ancora oggi da tramite ai sogni di questi movimenti straordinari. Tra i 180 invitati al Festival, che vede il supporto del programma Med Dialogue4 e l’organizzazione di Sabir Fest, South Media, Associazione musicale Etnea, e casa editrice Mesogea, per potenziare questa società civile mediterranea, ci si chiede: esiste un comune destino del Mediterraneo?

Tour guidato «esplorando l’identità multi-religiosa» (2 giugno)
© Daniele Vita

“Per molti secoli l’idea di un Mediterraneo come spazio comune ha mosso mercanti, scrittori, popoli… esiste un’identità mediterranea, una matrice comune? O è solo un sogno utopia irrealizzabile?” dice Gianluca Solera, uno degli ideatori del Festival, mentre l’illustratore e fumettista Yorgos Kostantinou lo ritrae insieme agli altri invitati del panel. “Non è solo una visione ma anche una necessità: le sfide e le crisi che interessano i popoli del Mediterraneo non possono che avere soluzioni comuni. Costruendo spazi e opportunità insieme possiamo risolvere queste crisi. Siamo qua per manifestare una volontà e un desiderio, ma anche per farne una questione di necessità”.

Alle suggestioni della direttrice artistica Catherine Cornet rispetto agli “elefanti nella stanza” di questo tempo, lo scrittore, giornalista e attivista per i diritti umani Khaled Mansour, in esilio dal suo Egitto, risponde facendo riferimento a una “comune umanità in uno spazio comune che vede però una proliferazione di violazioni di diritti umani. Come possiamo agire in un breve, medio e lungo termine? Lavorando sull’intersezione delle somiglianze e sull’empatia che non è ereditata, ma che dobbiamo creare”. E conclude invitando a spingere per una ri-organizzazione del diritto internazionale ma anche con un appello alla liberazione dei prigionieri politici.

L’arcivescovo di Catania Luigi Renna ricorda alcune delle figure che nei diversi secoli hanno attraversato il mondo uno e molteplice del Mediterraneo – Clemente Alessandrino, Federico II, Giorgio La Pira – mentre è la ricercatrice Marie Ruyffellaere dell’Università Libera di Bruxelles a portare la riflessione sul fallimento della Dichiarazione di Barcellona. “La prima criticità della Dichiarazione è che è stata costruita su iniziativa della riva nord del Mediterraneo che ha visto nel sud la minaccia della migrazione e del terrorismo, con le diseguaglianze alla base di queste minacce percepite” spiega al pubblico. “In secondo luogo, la Dichiarazione non è stata seguita da altre iniziative. Il suo eurocentrismo, unito al sistema politico-economico liberale e a un pensiero a breve termine, ne mostra il fallimento. Però al contempo nel 1995 la Dichiarazione è stato un documento abbastanza nuovo e unico ai tempi, quindi si può lavorare a rinnovarlo piuttosto che eliminarlo”.

Femminismi mediterranei

Tra i temi cari ai cittadini mediterranei come ambiente, economia, democrazia, spiccano nel programma gli incontri dedicati alla lotta alla discriminazione e violenza contro le donne e alla presenza delle donne nella sfera pubblica. Eva Abu Halaweh da oltre vent’anni lavora in Giordania come avvocata per i diritti umani e delle donne, conducendo battaglie legali per portare dei cambiamenti nei codici di legge (come la legge del 2008 sulla violenza domestica per esempio), facendo consulenza e proteggendo legalmente le donne dai casi di violenza. “Dal 1998 la nostra organizzazione Mizan for Law ha trattato 17.000 casi, circa 80.000 persone perché ogni caso comporta il coinvolgimento di uno o più familiari, un padre, un fratello, un cugino, un marito, ma anche sorelle, madri, e noi li incontriamo uno per uno” dice al panel al tema dedicato, mentre Yorgos Kostantinou continua a disegnare. “Ma non basta la parte legale, lavoriamo molto insieme sul pensiero delle donne, sulla mentalità patriarcale. E posso dire che questo è il cambiamento più grande che si può vedere nei decenni. In 25 anni per esempio sono diminuiti drasticamente i casi di violenza da parte di padri nei confronti delle figlie. Significa che il cambiamento nella comunità avviene”. Le fa eco Samar Zughul che riporta l’origine di molte leggi discriminatorie alla storia coloniale e la violenza di genere ai regimi autoritari “perché non si possono separare” come non si può scindere “la violenza contro le donne da quella contro le persone LGBTQ+”, in una prospettiva femminista intersezionale che abbraccia tutte le dimensioni di generi e discriminazioni e che Samar propone nel suo lavoro con l’arte comunitaria e performativa.

Sulla stessa onda il giorno dopo, la giornalista di Babelmed, Federica Araco, parla della rete di giornaliste femministe dal Mediterraneo Medfeminiswiya5, ricordando come nella reciprocità delle relazioni si costruisce e trasforma in azione permanente la presenza dei corpi delle donne nello spazio pubblico, abitato e pensato solamente al maschile. “I nomi delle strade, gli orari dei trasporti, le facilitazioni per chi – quasi sempre solo donne – ha un passeggino da portare: tutto va ripensato”, incalza Federica, “perché la mobilità femminile è più complessa e frammentata, perché le donne devono combinare impegni professionali e di cura. Anziché modificare i nostri percorsi, possiamo cooperare per trasformare la realtà”.

Alla sua voce si uniscono quelle di Cheima Ben Hmida che racconta dei femminismi algerini e di come il termine femminismo sia guardato da molti e molte con sospetto; Rehab Moghazy dalla città dell’Alto Egitto Aswan, dove alle donne è vietato lavorare nell’agricoltura; fino a Wissal Sakry che tenta in Tunisia di creare imprese femminili sostenibili: un coro di donne in cui le parole si concretizzano in azioni e lotte, o accompagnamento di lotte, e valorizzano l’esperienza di uno spazio conquistato con battaglie quotidiane.

Città-porti, treni interrotti e sogni di viaggi in macchina

Mohaned Krema ha un visto di soli 6 giorni e alla fine del Festival dei cittadini del Mediterraneo deve tornare dall’Italia in Libia direttamente, senza poter passare da nessun altro paese europeo. “Già tanto che sono riuscito a venire”, racconta alla tavola rotonda basata sulla campagna di advocacy “Our Mediterranean”. “A un invito a Bruxelles l’anno scorso come rappresentante dell’associazione Maydan dopo aver viaggiato tra l’ambasciata italiana a Tripoli e quella belga in Tunisia e aver aspettato, anche bloccato dagli scontri nella capitale che non mi permettevano di tornare a casa, il visto mi è stato negato. Algeria e Tunisia sono gli unici paesi in cui posso andare”. Nonostante la sua associazione sia partner del progetto Med Dialogue, neanche per lui è facile ottenere un visto. “Guardando il Mediterraneo dalle coste libiche, ho capito perché c’è quel desiderio di partire, viaggiare”. Come ex volontario e lavoratore della Croce Rossa Internazionale, Mohaned ha aiutato a recuperare oltre 400 cadaveri di potenziali richiedenti asilo sulle coste del suo paese. Ma continua a credere che dovrebbe essere possibile spostarsi liberamente, qualunque sia il motivo per farlo: “Il mio sogno è di percorrere in macchina tutte le coste del Mediterraneo”. Il tema della mobilità umana è una delle sfide più grandi per pensare un Mediterraneo comune e una cittadinanza condivisa che si prova a immaginare nei giorni del Festival.

Una delle visite guidate organizzate dal Festival (3 giugno)
© Daniele Vita

Alla stessa tavola, Amro Ali di Mashallah News ricorda come anche tra paesi arabi non ci si possa muovere facilmente. “La prima volta che ho incontrato nel 2011 altri attivisti delle rivoluzioni è stato a Copenaghen, non al Cairo”. Amro riporta al valore delle città-porto di cui si è persa memoria e che hanno collegato paesi come i ponti e quanto di quel valore di differenze che si mescolavano stiamo perdendo. “Come una nuova visione politica di mobilità umana può raggiungere le orecchie, i cuori, le teste di chi prende le decisioni?” risuonano tra le domande e le proposte del pubblico, tra cui Samira, che racconta a tutti il suo viaggio in treno dal Marocco all’Europa negli anni Settanta. Quando era possibile.

Giornalismo in pericolo e non dimenticare la Siria

La direttrice artistica del Festival Catherine Cornet ricorda al pubblico l’anniversario dell’omicidio del giornalista libanese Samir Kassir avvenuto nel 2005: da allora la situazione per i giornalisti del Mediterraneo è andata sempre più deteriorandosi in tutti i paesi. “In Turchia non c’è una differenza tra notizie ufficiali e fake news, mentre i social possono essere i nostri migliori amici e peggior nemici” dice Can Dundar, condannato in Turchia a 27 anni di carcere in absentia per avere rivelato nel 2015 sul suo giornale Cumhuriyet la vendita di armi della Turchia a combattenti islamisti in Siria. “Ci sono diversi livelli di minacce, condanne, censure. L’ultimo è quello dentro di te: l’autocensura”. Accanto a Can Dundar, si ricorda la giornalista Shireen Abu Akleh uccisa il mese scorso dall’esercito israeliano, mentre il giornalista investigativo Kostas Zafeiroropoulous allerta sullo stato del giornalismo in Grecia, tra minacce, potere degli oligarchi e assassinii che spesso rimangono poco noti.

In connessione dagli Stati Uniti, Belal Fadl concorda con i colleghi: “Anche se sono uscito dall’Egitto nel 2014, sento continuamente la pressione del regime, per me e per i familiari. Loro controllano tutto, sempre”. È sulla solidarietà e sul lavorare insieme che tutti vedono un punto comune: “Non si può immaginare un giornalismo nel Mediterraneo in cui da una sponda all’altra ci si sostiene a vicenda?” conclude Can.

“Se Paolo in questo momento fosse qua, sarebbe al settimo cielo”, dice il giorno dopo Immacolata Dell’Oglio, la sorella di Padre Paolo, rapito e scomparso in Siria nel luglio 2013, nella sessione di conclusioni. “Perché un’occasione del genere è l’espressione della condivisione, il rischio contrario è l’oblio. Vale per le persone e per le comunità: per la Siria. Non va dimenticata, dobbiamo continuare ad attivarci”. Accanto a lei, Laila Kiki della Syria Campaign, che poco prima in un panel sull’Ucraina aveva menzionato il supporto umano e pratico che molti siriani stanno dando agli ucraini. “Ma non basta documentare le atrocità: in Siria lo abbiamo fatto per un decennio, ne abbiamo abbastanza di prove”, avverte Laila. “Bisogna impedire che avvengano”.

Concerto di Maryam Saleh e Zeid Hamdan al Palazzo della Cultura di Catania (4 giugno)
© Daniele Vita

La sera il cortile esplode della musica della cantante Maryam Saleh che insieme al “re della musica elettronica” Zeid Hamdan riempie di gioia lo stesso spazio in cui Rasha poche ore prima aveva letto il suo racconto breve, ambientato in una Damasco all’inizio della sua rivoluzione, fatta di elicotteri e checkpoint che annunciavano la catastrofe.

Concerto di Maryam Saleh e Zeid Hamdam al Palazzo della Cultura (4 giugno)
© Daniele Vita

Ora Rasha vive a Berlino, ma in quei cortili mediterranei e tra i vicoli di una città siciliana, l’energia rigenerativa di musica, letteratura, riflessioni, nuove e vecchie amicizie, fa pensare che tanti sono i pezzi ancora da mettere insieme e da costruire nel sogno mediterraneo. Del resto, come scrive Alaa Abdel Fattah6, non siamo stati ancora sconfitti.