Comprendere Gerusalemme Est: una lettura sociale

Il funerale della giornalista palestinese Shireen Abu Akleh a Gerusalemme è diventato un atto di ribellione collettiva rispetto a un’escalation che ha raggiunto il punto di rottura. Per comprendere la realtà di Gerusalemme Est bisogna guardare alle strategie militari israeliane e a come hanno impattato sulla psicologia sociale palestinese da una prospettiva storica. Per decenni si è combattuta una battaglia sullo spazio, sull’espressione, sull’esistenza, che è necessario ripercorrere.

Gerusalemme, vista della Spianata delle Moschee dalla città vecchia, 2018
© Cecilia Dalla Negra

Era il 13 maggio, un venerdì. Le campane della città vecchia di Gerusalemme suonavano a lutto. Le telecamere riprendevano migliaia di palestinesi in marcia dalla Porta di Jaffa verso quella dei Leoni. Era un momento storico di dolore per una voce: quella di Shireen Abu Akleh, giornalista di Gerusalemme che ha viaggiato da una parte all’altra del paese, per un decennio, documentando il trauma collettivo palestinese. Era conosciuta come una narratrice gentile, empatica e intelligente, ed è stata uccisa in Cisgiordania. Ma la scena imponente dei suoi funerali a Gerusalemme non riguardava solo lei: era un atto di dimostrazione collettiva rispetto a una serie di eventi - un’escalation degli ultimi decenni - che aveva raggiunto il punto di rottura.

Per comprendere la realtà di Gerusalemme Est bisogna guardare alle strategie militari israeliane e a come hanno impattato sulla psicologia sociale palestinese da una prospettiva storica. Per decenni si è combattuta una battaglia infinita sullo spazio, sull’espressione, sull’esistenza. Per spiegarla, diamo uno sguardo a come le cose sono cambiate negli ultimi anni.

Il boom demografico palestinese “inverso” nel centro di Gerusalemme

Nei primi 15 anni che sono seguiti all’annessione israeliana di Gerusalemme Est del giugno 1967, ha preso corpo una trasformazione urbanistica. I residenti palestinesi del centro cittadino sono stati spostati in massa verso più moderni e spaziosi complessi abitativi in vendita o in affitto, in modo particolare nei sobborghi a nord di Beit Hanina, Al Ram e Dahyeh, sulla strada verso la Cisgiordania. Insegnanti, medici, personale alberghiero, proprietari di ristoranti, impiegati, mercanti hanno tutti cercato di affittare case in quelle aree.

Ricordo nitidamente quando da bambina andavo con mia madre in visita da amici e parenti che vivevano lì. Spesso facevamo un tour delle case. Ricordo le grandi verande, i salotti spaziosi, i bagni moderni e i parcheggi confortevoli, tanto da sembrare un altro mondo rispetto alle case del centro storico di Gerusalemme.

In seguito alla prima Intifada e agli Accordi di Oslo, all’inizio degli anni Novanta, i palestinesi hanno capito che l’intenzione delle autorità israeliane era di nominare quelle aree “Cisgiordania”, e di costruire un muro di separazione. Questo avrebbe significato che le persone residenti in quelle zone nel lungo periodo avrebbero perso il loro diritto di vivere o di visitare Gerusalemme come parte di una politica israeliana volta a minimizzare il numero di residenti non-ebrei in città. Si è trattato di misure inaspettate per molte famiglie palestinesi che avevano investito in quelle abitazioni. Come reazione, alla fine degli anni Novanta e dopo il 2000 c’è stato un massiccio ritorno da quei sobborghi spaziosi verso il centro di Gerusalemme.

Molte famiglie hanno iniziato a spostarsi dalle proprie case di 4-5 stanze per trasferirsi in piccoli appartamenti a Gerusalemme Est. Lo spazio si è gradualmente ridotto, e hanno iniziato ad emergere conflitti abitativi tra famiglie. Parallelamente, in quelle stesse aree sovrappopolate e affollate, si espandevano in quelle stesse aree sovrappopolate e affollate gli insediamenti coloniali sionisti. Molti abitanti palestinesi di Gerusalemme Est hanno iniziato a costruire nelle vicinanze dei complessi abitativi per assicurarsi di avere almeno un tetto per tutta la famiglia sotto il quale vivere. Israele ha iniziato a porre come condizione imprescindibile il rilascio di particolari permessi per costruire, il più delle volte negati agli abitanti palestinesi. Molte famiglie hanno cercato di aggirare queste politiche, costruendo complessi abitativi come soluzione provvisoria, e la gran parte di queste strutture è stata demolita con la forza. Secondo l’Ong israeliana B’tselem, solo nel 2021 le autorità israeliane hanno demolito 160 strutture a Gerusalemme Est, di cui 96 erano abitazioni1.

Alcuni palestinesi hanno deciso di emigrare all’estero in questo periodo. E ancora una volta, le autorità israeliane hanno iniziato a proibire alle famiglie di Gerusalemme Est che vivevano all’estero di fare ritorno, spesso creando difficoltà con le procedure per i visti. Come risultato, la densità abitativa nel centro di Gerusalemme Est è aumentata. Ma allo stesso tempo questa politica ha messo a rischio l’esistenza storica di alcune minoranze etniche e cristiane, il cui numero è crollato a causa delle revoche dei permessi abitativi. Alcune famiglie di Gerusalemme Est si sono rivolte ai tribunali per ottenere passaporti israeliani. Un processo costoso, e che richiede spesso fino a 5 anni di attesa, aumentato notevolmente dopo gli anni Duemila. A un primo sguardo potrebbe sembrare che questo significhi rinunciare alle convenzioni internazionali relative allo status dei palestinesi a Gerusalemme Est. In realtà, per alcune famiglie si tratta dell’unica possibilità per preservare i propri diritti di residenza nella città, così come l’accesso all’assicurazione sanitaria. Altri si sono rifiutati di compiere questo passo per ragioni ideologiche, credendo che li avrebbe isolati dagli altri palestinesi residenti all’interno del paese.

Sostengo quindi che se la politica di revoca delle residenze non esistesse, e se ai palestinesi fosse stato permesso di restare a vivere in sobborghi come Al-Ram o Dahyeh negli anni Ottanta, e di viaggiare all’estero senza timore di vedersi revocare il proprio permesso di residenza, il centro della città di Gerusalemme non avrebbe raggiunto il punto di pressione e di densità abitativa a cui si assiste oggi.

Pressione in aumento e spazio pubblico come luogo di conflitto

Durante gli anni della mia adolescenza, negli anni Novanta, crescendo a Gerusalemme ricordo che molti amici dicevano di voler vivere sotto uno Stato israeliano, ma diverso rispetto a quello reale. Ciò che gli interessava era poter vivere in libertà, dignitosamente, con opportunità economiche e la possibilità di essere liberi dalla paura e dal razzismo. Questo è cambiato negli ultimi anni: c’è un senso generale di frustrazione, le persone sentono che il loro territorio, il loro spazio, la loro libertà di espressione e la loro stessa esistenza sono sotto costante minaccia.

Le colonie israeliane e le forze armate sono sempre più aggressive verso gli abitanti palestinesi di Gerusalemme Est, ed hanno trasformato lo spazio pubblico in una zona di conflitto.

Anche gli abitanti di Gerusalemme Ovest hanno testimoniato un senso di frustrazione crescente, sebbene in modo diverso. Alcuni israeliani a Gerusalemme si sentono ancora indifferenti rispetto alla situazione, e sono più concentrati sull’avere una vita tranquilla, sicurezza, stabilità economica. Attorno al primo decennio degli anni Duemila molti israeliani gerusalemiti hanno iniziato a trasferirsi a Tel Aviv. Molti ebrei ortodossi rifiutano ancora di servire nell’esercito e gli combattono contro. Alcuni gruppi della destra ultra-nazionalista ritengono di combattere contro i palestinesi una minaccia esistenziale, e così provocano, aggrediscono, deportano e trasferiscono forzatamente i palestinesi, tentando di impadronirsi dei loro punti di riferimento. I governi israeliani che si sono succeduti negli anni hanno spesso assecondato questi gruppi nazionalisti, creando uno “stato di emergenza” permanente per ottenere i loro voti e assicurarsi di restare al potere. Una politica che ha esacerbato il conflitto, portando ad una escalation e alla costante violazione dei diritti fondamentali dei palestinesi, esponendo il patrimonio storico di questa terra a gravi pericoli. Ed ha finito per terrorizzare anche gli israeliani, esponendoli al trauma.

Dal 2000 molti bambini e adolescenti palestinesi hanno vissuto in case anguste insieme alle loro grandi famiglie, in costante bisogno di spazio. Soldati e coloni israeliani armati nei quartieri di Gerusalemme creano uno stato di ansia permanente tra i ragazzi che vanno a scuola o giocano per strada. Scontri e arresti di adolescenti sono comuni, e questa politica prosegue. A maggio 2022, secondo le stime dell’organizzazione per i diritti umani Addameer, i bambini detenuti nelle carceri israeliane sono 1702. Arrestare bambini ha conseguenze non solo su di loro, ma sulle loro famiglie e sui loro amici.

La seconda Intifada palestinese è scoppiata nel 2000, provocata dalla passeggiata di Ariel Sharon sulla Spianata delle Moschee a Gerusalemme, scortato dall’esercito israeliano. I palestinesi l’hanno considerata come una diretta invasione dei loro sacri confini. A questo, si è aggiunta la rabbia per una colonizzazione continua in violazione degli accordi di pace.

All’epoca ero una studentessa universitaria, poi un’impiegata che doveva spostarsi quotidianamente in Cisgiordania per lavoro. Il Muro e i check point, che ostacolano il percorso da Gerusalemme ai territori occupati, sono diventati sempre più difficili da attraversare. Le punizioni collettive sono state praticate lì sempre più spesso. Se un palestinese commetteva un qualsiasi attacco contro Israele, era l’intera comunità ad essere colpita per questo. Ma soprattutto, ogni cittadino palestinese di Gerusalemme sulla sua strada per l’università o il lavoro ne pagava il prezzo. Costretti a volte ad aspettare ore, a volte bloccati, bullizzati, arrestati, uccisi.

Dopo il 2001, molte organizzazioni politiche e culturali palestinesi sono state chiuse dalle autorità israeliane. Per i palestinesi di Gerusalemme Est questo ha significato non avere più nessuno che esprimesse la loro identità: costantemente repressi, sospettati, messi sulla difensiva, hanno finito per essere considerati niente più che potenziali terroristi.

A causa delle condizioni impossibili imposte dai check point e dal Muro, molti di coloro che lavoravano in Cisgiordania hanno abbandonato il lavoro dopo il 2000, creando una moltitudine improvvisamente disoccupata, in cerca di possibilità di impiego o di studio sul lato israeliano.

Alcuni sono riusciti a trovare buoni posti di lavoro e salari degni. Altri, hanno vissuto una realtà fatta di discriminazioni e sotto-retribuzione. Il sistema legale israeliano ha preso spesso posizioni di parte contro i palestinesi nei tribunali, dando ai cittadini di Gerusalemme Est l’impressione di vivere una “nuda vita”, per citare la terminologia di Giorgio Agamben3.

Come la detenzione politica ha portato ad una più ampia politicizzazione

Mi sono chiesta spesso cosa ha guadagnato Israele dall’arresto politico di migliaia di palestinesi, bambini inclusi. Le autorità israeliane applicano inoltre la politica della detenzione amministrativa, in base alla quale una persona ritenuta sospetta può essere arrestata senza prove a carico né processo. Ci sono attualmente circa 450 prigionieri politici palestinesi di Gerusalemme Est nelle carceri israeliane, secondo i dati di Addameer4.

Un palestinese può essere arrestato per un post su Facebook, per essersi unito a un partito politico, per aver criticato Israele, organizzato un evento sociale, protestato contro un colono, difeso un sito religioso. O anche per nessun motivo. Forse Israele fa tutto questo con l’intento di portare i palestinesi a vivere in uno stato di costante paura, per spingerli alla de-politicizzazione, per reclutare informatori ed essere aggiornati sulla politica interna. Ma ancora una volta, avviene invece un processo psicologico inverso. Nella cultura palestinese una persona che viene arrestata diventa un’icona, un modello capace di incarnare la resilienza e il sacrificio dell’individuo per la collettività. Le carceri sono per la gran parte spazi politici simbolici, che riscrivono l’identità palestinese. Gli scioperi della fame, organizzati dai prigionieri politici, ricordano al popolo l’ingiustizia collettiva che subisce e la lotta per spezzare le catene. Le foto e i nomi dei prigionieri sono condivise come simboli di resistenza.

Spesso parenti e amici dei prigionieri vengono arrestati dalle autorità israeliane, che credono così di esercitare pressione per ottenere confessioni o informazioni politiche. Nel lungo periodo, la detenzione politica sta invece portando ad una più vasta politicizzazione della coscienza palestinese, basata sulla sensazione di una sofferenza collettiva, di ansia e vulnerabilità, di solidarietà verso i prigionieri e le loro famiglie. In molti casi, come quello del prigioniero Majd Barbar nella primavera del 2021 e di Shadi Shurafa nel 2022, le autorità israeliane hanno prolungato la detenzione proprio il giorno del loro rilascio, liberandoli poi definitivamente un paio d’ore dopo. Un gesto volto a fare pressione sulle loro famiglie e sulle loro fazioni politiche, per impedirgli di celebrare il loro rilascio – cosa che spesso avviene con l’urgenza di esprimere pubblicamente le emozioni – portando bandiere palestinesi o cantando canzoni.

I muri e i check point garantiscono la sicurezza israeliana?

Ogni volta che emerge il tema del Muro di separazione, viene giustificato sul fronte israeliano come misura necessaria per garantire la sicurezza. Ma in realtà il Muro ha avuto un effetto inverso. Ci si potrebbe persino chiedere se nella Striscia di Gaza sarebbero stati sviluppati missili capaci di raggiungere Gerusalemme, se non fosse stata posta sotto assedio. I check point israeliani e il Muro non proteggono necessariamente gli israeliani dalle bombe. Ciò che fanno, invece, è imprigionare i palestinesi e imporre confini geografici. Essere chiusi da un Muro ha portato i palestinesi a sviluppare armi capaci di valicarli, creando un effetto “palla di neve” sull’escalation del conflitto.

Un esempio sono gli eventi del maggio 20215. I coloni e l’esercito israeliano hanno cercato di sequestrare le case di numerose famiglie palestinesi nel quartiere di Sheikh Jarrah a Gerusalemme, e di cacciare i residenti reclamando l’area come storicamente appartenente agli israeliani. In risposta, sono state organizzate mobilitazioni e proteste da parte degli abitanti del quartiere, che hanno portato a scontri più vasti in tutto il paese. In reazione, Hamas ha lanciato dei razzi dalla Striscia di Gaza assediata contro obiettivi israeliani a Gerusalemme.

Al contrario, circa 2 anni fa Israele aveva dato ai palestinesi della Cisgiordania il permesso di entrare a Gerusalemme per le festività musulmane. Vivendo in una Cisgiordania murata, molte persone non avevano mai visto prima Jaffa o la stessa Gerusalemme. Fu notato che un gran numero di questi palestinesi andarono effettivamente a pregare nelle moschee, per poi però girare tra le città e fare acquisti nei negozi israeliani, o scattarsi foto vicino al mare. Alcuni negozi israeliani avevano addirittura assunto personale palestinese per comunicare con questi clienti.

Come uno spazio sacro è diventato un luogo di protesta simbolico

La primavera del 2022 ha rappresentato un punto di svolta per molti residenti di Gerusalemme Est. Molti palestinesi, che erano indifferenti rispetto alla situazione, non hanno più potuto tacere, come se avessero colpito le loro stesse case. Per molti di loro, i santuari religiosi rappresentano un profondo senso di identità. E’ lì che molte attività sociali si svolgono. Sono luoghi simbolici in cui la gente esprime le proprie emozioni represse. Nel mese di Ramadan 2022, quando la gente si è riunita per pregare, si è vista circondata da un pesante schieramento di polizia israeliana. Questo ha creato un clima di tensione e scontri. Le forze armate israeliane hanno fatto irruzione sulla Spianata delle Moschee, sparando proiettili di gomma e lacrimogeni contro i fedeli. Il 27 aprile, oltre 250.000 musulmani si sono riuniti in protesta attorno alla Moschea di Al-Aqsa nella notte di Laylat Al-Qadr.

A Pasqua del 2022, il governo israeliano ha emanato delle istruzioni chiedendo che le chiese locali limitassero il numero di fedeli cristiani ammessi al Santo Sepolcro a 1.000 persone: una riduzione del 90% contrastata dai capi delle chiese ortodosse locali, che non avevano mai testimoniato misure simili nella storia moderna. Molti leader religiosi, conosciuti per le loro relazioni pacifiche con le autorità israeliane, hanno chiesto di riconsiderare questa decisione. Ma le loro richieste non sono state prese seriamente. La reazione israeliana è stata vista come un’umiliazione diretta alle autorità della Chiesa, e il riflesso della mancanza di diplomazia da parte israeliana. Non era la prima volta: già nel 2018 diverse chiese di Gerusalemme si erano unite in un appello di condanna alle politiche repressive israeliane contro il clero, le parrocchie e le loro proprietà. Nel 2022, molti cristiani che vivono a 10 minuti dal Santo Sepolcro sono rimasti scioccati nel vedere le loro strade chiuse dall’esercito israeliano, nel tentativo di impedire loro l’accesso al santuario. Alcuni sono stati picchiati. Per molti palestinesi è stata la violazione di una linea rossa.

La gente non si era ancora ripresa dal calvario di Ramadan e Pasqua del 2022 quando Shereen Abu Akleh è stata uccisa mentre copriva l’invasione israeliana del campo profughi di Jenin in Cisgiordania. Per molti gerusalemiti, Shereen è diventata un simbolo della voce e della resistenza palestinese contro la repressione militare israeliana.

Una via d’uscita?

Il Muro di separazione, i check point, le politiche detentive si stanno ritorcendo contro Israele. Le strategie israeliane per il controllo di Gerusalemme stanno di fatto re-enfatizzando la consapevolezza che i palestinesi hanno della città. Più precisamente, nel loro tentativo di dominare l’assetto demografico palestinese a Gerusalemme, le autorità israeliane stanno violando una regola d’oro della psicologia sociale umana: la deprivazione, la repressione e la militarizzazione risvegliano l’identità e la resistenza collettiva. La via d’uscita da questo circolo vizioso potrebbe allora essere ispirata dai valori più profondi radicati nel cuore della spiritualità ebraica: saggezza, comprensione, umiltà, gentilezza, dignità. E il legittimo diritto alla libertà dall’ingiustizia.

3Giorgio Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Torino, Einaudi, 2005.

5La cosiddetta “Intifada dell’Unità”, Ndt