Contro il linguaggio dell’umanizzazione, per il linguaggio della dignità: liberazione palestinese e solidarietà a 74 anni dalla Nakba

Prestando una sincera attenzione ai rapporti e alle relazioni dei palestinesi non solo con il mondo ma anche tra di loro, si possono praticare forme di ascolto e di solidarietà che non reiterino l’imposizione di schemi prestabiliti e procedurali di offerta di soluzioni. Possiamo riconoscere, cioè, la piena e complessa agency dei palestinesi, e aprire il tempo della storia alle possibilità della liberazione. A 74 anni dalla Nakba la riflessione di una voce della giovane generazione palestinese.

Gaza, gennaio 2015.
Foto Daniele Napolitano

L’anno scorso, quando gli eventi nel quartiere di Sheikh Jarrah a Gerusalemme e nell’intera Palestina storica ad aprile e maggio sono emersi all’attenzione globale,1 il mondo sembrava accorgersi per la prima volta delle strutture oppressive israeliane sulle vite dei palestinesi, e i media mainstream – per un periodo sufficiente a cavalcare l’onda dei trend e dei trending topics online – si sono dichiarati sorpresi di scoprire che esistevano voci palestinesi capaci di narrare ciò che stava accadendo a Sheikh Jarrah, Gaza e in tutti i territori della Palestina storica. Ci si precipitava, allora, a riconoscere una giovane generazione palestinese che, tuttavia – si doveva specificare sempre – era distante dalle dinamiche e dai toni dei tradizionali partiti palestinesi. Si trattava di una generazione nuova che sapeva parlare i linguaggi “occidentali” e utilizzare i social media per comunicare la propria storia. Si decideva di ignorare così, in questa narrativa, il fatto che i palestinesi parlano e narrano se stessi, e rivendicano la propria esistenza e la propria presenza (il wujud) materiale e culturale, come forma principale di sumud e resistenza da molti decenni, se non da un intero secolo in cui hanno dovuto affrontare molteplici progetti coloniali sulla loro terra.2 Nella loro aspirazione all’autodeterminazione, infatti, i palestinesi si sono trovati a resistere non solo al progetto del movimento sionista, ma anche all’imperialismo britannico, e, negli ultimi decenni, alle dinamiche della globalizzazione politica ed economica e dell’egemonia neoliberale mondiale.

Le voci dei palestinesi della generazione post-Oslo – di coloro che sono nati negli anni ‘90 e 2000, nell’ordine costruito tramite gli Accordi di Oslo a partire dal 1993 – sono sicuramente capaci di articolare il loro proprio linguaggio di rivendicazione politica e di liberazione, che si differenzia nelle forme rispetto ai linguaggi delle generazioni precedenti, ma sono voci posizionate organicamente all’interno della lotta collettiva del popolo palestinese. Se è vero che questa generazione più giovane si confronta criticamente con le generazioni precedenti rispetto alle mancanze di determinati passaggi storici e politici, e rivendica la riappropriazione di un linguaggio della liberazione e della dignità, questo non la distacca né la separa dall’aspirazione collettiva palestinese. Questa generazione si posiziona consapevolmente all’interno delle dinamiche vissute nel presente dall’intero popolo palestinese nella sua frammentazione geografica e politica, e rivendica l’unità tra spazi, tempi e posizionamenti, nonché le molteplici memorie della resistenza palestinese, proprio come forma di lotta e di riappropriazione della narrazione e della conoscenza di se stessi.

Prestando una sincera attenzione ai rapporti e alle relazioni dei palestinesi non solo con il mondo ma anche tra di loro, possiamo, allora, praticare forme di ascolto e di solidarietà che non reiterino l’imposizione di schemi prestabiliti e procedurali di offerta di soluzioni. Possiamo riconoscere, cioè, la piena e complessa agency dei palestinesi, e aprire il tempo della storia alle possibilità della liberazione. Per muovere in questa direzione, è innanzitutto fondamentale comprendere come i palestinesi significano la loro esperienza collettiva storica e presente.

La Nakba non è un evento del passato, ma un processo nel presente

Il 1948 è considerato un momento spartiacque nella storia contemporanea palestinese. Il 15 maggio di quell’anno ha profondamente segnato le vite di molteplici generazioni, istituendo confini politici e spaziali che hanno determinato le possibilità di movimento e di vita in cui i palestinesi hanno vissuto nei decenni a partire da questa data. Per questo motivo, i palestinesi compiono un grande e diversificato sforzo, ogni anno, nelle loro diverse posizioni nel mondo – dentro e fuori la Palestina – per ricordare e affermare il significato di quest’ultima. La loro narrazione degli eventi del 1948, ma anche e soprattutto della condizione palestinese nel presente, costituisce un contro-canto rispetto alla narrazione egemonica sulla Palestina negli ultimi decenni. Ricordare la Nakba e raccontare le sofferenze, le storie, memorie e i sentimenti delle generazioni precedenti e attuali, e costruirne il significato assieme nonostante la frammentazione e la dispersione, sono azioni attraverso le quali i palestinesi rivendicano e si riappropriano della narrazione di loro stessi, del proprio mondo e del tempo, di fronte alle violenze dell’occupazione e della colonizzazione israeliana che incedono incessantemente nelle loro vite. In questo senso, la data del 15 maggio è un momento politico che può dispiegare il suo potenziale di emancipazione solo se non viene intesa solo come tempo “commemorativo”, unicamente simbolico, chiuso nel passato, terminato, ma come un tempo “vivente”, testimone dei rapporti di potere materiali e simbolici che attraversano e costruiscono le realtà palestinesi e il contesto della Palestina oggi.

Se, infatti, il 15 maggio del 1948 è stato un momento cruciale della Nakba (la “catastrofe”) palestinese, esso va inteso all’interno di un processo che ha preso avvio nei decenni precedenti al 1948 e che continua nel presente: la strutturadel colonialismo d’insediamento sionista-israeliano. È all’interno di questa struttura di dominio politico-economico e di colonizzazione della terra che i palestinesi sono stati espulsi da quest’ultima, controllati o uccisi su di essa, reclusi nei campi profughi, o dispersi nel shataat (“dispersione”) in giro per il mondo, nel passato come nel presente. Ed è a questa struttura di negazione della loro esistenza e presenza (materiale e culturale), che hanno resistito prima del 1948 e nei decenni successivi, come continuano a fare nel presente.

La Nakba palestinese è stata solitamente indicata, per diversi decenni, sia nel campo storiografico sia nello spazio della ricostruzione e rivendicazione delle memorie dei palestinesi, come il momento storico tra il 1947 e il 1948 che ha visto l’espulsione di centinaia di migliaia di palestinesi dalle loro case e dalle loro terre, e la distruzione di centinaia di villaggi e di decine di città per mano di milizie armate sioniste. Questo preciso momento ha rappresentato una vera e propria “catastrofe” per la collettività palestinese: la fine del mondo e la sua distruzione irreparabile. In essa i palestinesi sono stati spinti verso condizioni di dispersione, precarietà e negazione di riconoscimento che si sono cristallizzate e sono divenute permanenti. La persistenza di queste condizioni, e il loro aggravamento, dimostrano come la Nakba sia, per i palestinesi, una ferita aperta e costantemente prodotta dal processo coloniale. Questa “catastrofe” si è rivelata ai palestinesi, nel corso dei decenni successivi al ‘48, come un processo continuativo e ininterrotto in cui si moltiplicano, sul calendario e nell’esperienza individuale e collettiva, le forme dell’espulsione dalla vita e dal mondo e quelle della distruzione materiale e sociale della Palestina. La Nakba viene perciò oggi significata e percepita dai palestinesi come un processo che essi vivono nel presente, e non come un evento del passato da ricordare.

Nel presente segnato dalla normalizzazione politica ed economica israeliana nella regione araba, avvenuta attraverso la firma degli Accordi di Abramo nel 2020, i palestinesi affrontano una delle fasi più complesse, violente e pericolose dell’ultimo secolo. Gli Accordi di Abramo – come gli Accordi di Oslo (1993) trent’anni fa – infatti, espropriano i palestinesi della loro capacità di agire e di decidere per loro stessi. Li espellono dall’equazione della pace in Medio Oriente, decentrando le questioni politiche e storiche alla radice della condizione palestinese oggi per perseguire, invece, una “pace economica” israeliana con i paesi della regione. Se gli Accordi di Oslo hanno permesso la liberalizzazione dell’economia palestinese e la sua subordinazione e dipendenza rispetto alle strutture economiche, di occupazione e di colonizzazione israeliane, gli Accordi di Abramo fungono, oggi, alla promozione dei rapporti economici e politici israeliani con i paesi del Golfo, nonché alla normalizzazione internazionale della colonizzazione della terra, sopra le vite dei palestinesi. Allo stesso tempo, le voci dei palestinesi e di chi sostiene la loro causa vengono sempre più criminalizzatenel continente europeo e in quello nord-americano.

Proprio nell’urgenza di questa situazione complessiva, i palestinesi rimangono, oggi, molto attivi nel rivendicare il loro ruolo e la narrazione della loro esperienza. La loro consapevolezza della Nakba come processo e delle strutture che la producono, sta al centro dei modi in cui essi ridefiniscono il modo in cui il mondo conosce e si rapporta con la loro causa di liberazione e con la Palestina.

Rispetto a questo sforzo collettivo e al quadro politico in Palestina, come è possibile porsi in ascolto delle voci palestinesi e praticare la relazione con queste voci in forme che non reiterino la negazione dell’esistenza palestinese, ma che agiscano, invece, al suo riconoscimento e al sostegno delle rivendicazioni di giustizia e libertà? Come possiamo porci in ascolto e in rapporto con i palestinesi praticando la solidarietà come relazione orizzontale in cui impariamo e pratichiamo assieme il miglioramento del mondo, invece di imporre modelli del/la “buon/a palestinese” che servono fondamentalmente a influenzare e predeterminare le possibilità stesse in cui si muovono i palestinesi nella loro lotta di liberazione?

L’antropologa palestinese-americana Lila Abu Lughod formulava nel 2002, in un suo potente saggio femminista sul tema dell’imperialismo americano e delle donne in Afghanistan intitolato “Do Muslim Women Really Need Saving?”, una domanda radicale rispetto all’agency delle persone con cui decidiamo di porci in solidarietà: “Dobbiamo chiederci che tipo di condizioni possiamo contribuire a realizzare in modo che i desideri popolari non vengano sovra-determinati da uno sconvolgente senso di impotenza di fronte a forme di ingiustizia globale. Quando tentiamo di essere attivi negli avvenimenti che interessano luoghi lontani, possiamo farlo nello spirito del supporto per coloro, all’interno di queste comunità, che hanno lo scopo di rendere le vite delle donne (e degli uomini) migliori? Possiamo utilizzare un linguaggio più egualitario di alleanze, coalizione e solidarietà, invece del linguaggio3 della salvezza?”.

Sumud e liberazione palestinese: la solidarietà come relazione orizzontale

Gli eventi degli ultimi giorni in Palestina ci parlano dell’instancabile rivendicazione palestinese della capacità di narrare la propria storia e il proprio rapporto con la terra. L’uccisione da parte dell’esercito israeliano di Shireen Abu Aqleh, giornalista di Al Jazeera, nel campo profughi di Jenin, dove si era recata assieme ad altri colleghi per riportare le notizie dei raid nel campo, è un episodio che dà prova del costante tentativo israeliano di mettere a tacere le voci palestinesi e di limitare la loro possibilità di trasmettere e comunicare al mondo ciò che avviene nelle loro vite e nei loro contesti.

L’immagine dolorosa del corpo esanime di Shireen e del suo volto insanguinato, e quelle del corteo funebre colpito dalla violenza delle forze di polizia israeliane, spezzano il cuore di chi – palestinese e non – l’ha ascoltata raccontare gli eventi in Palestina negli ultimi 20 anni con costanza, onestà e grande impegno. Proprio di fronte a questo sentimento di forte scandalo tornano alla mente le parole del giovane poeta gerosolomitano Mohammed El Kurd, nato e cresciuto nel quartiere di Sheikh Jarrah, che nella sua prima raccolta poetica scrive: “Avendo vissuto negli Stati Uniti per quattro anni, mi rendo conto di quanto molto di ciò che denuncio sia già ben evidente. L’indifferenza nei confronti della vita palestinese esiste nonostante la moralità e i ’diritti umani’. L’umanizzazione, spesso, fa l’esatto opposto di ciò che dichiara [di fare]. Non sento più la responsabilità di dare occhi agli esseri umani per vedere l’umanità”4.

Al meccanismo dell’umanizzazione, il giovane poeta contrappone quello della celebrazione della dignità del suo popolo, ponendo al lettore una domanda di trasformazione radicale nel modo di rapportarsi con la causa palestinese oggi. Rimanere bloccati nella logica della dimostrazione dell’umanità del/la palestinese è un meccanismo fondamentalmente asimmetrico e violento, che parte dal presupposto che non tutti i palestinesi siano umani, e che permette, così, di categorizzare i “buoni” e i “cattivi”: quelli che meritano la nostra compassione e solidarietà e coloro che possono cadere nell’oblio, perché non assomigliano a chi concede la solidarietà e il riconoscimento. E infine coloro che possono essere addirittura criminalizzati e disprezzati, considerati “incivili” e meritevoli della violenza coloniale che attraversa le loro vite.

Mohammed e la sorella Muna sono divenuti, l’anno scorso, due volti noti internazionalmente. Ai due è stato assegnato, nelle tipiche logiche narrative dei grandi mainstream media e delle istituzioni e delle organizzazioni per i diritti umani, una specie di ruolo di narratori privilegiati della storia del quartiere gerosolomitano che lotta da molti anni contro le mire dei coloni. Nei confronti di questo ruolo, loro stessi hanno spesso espresso fastidio. Come loro hanno fatto, molti altri volti ci hanno parlato della causa collettiva del popolo palestinese, e nei loro confronti abbiamo provato sentimenti di vicinanza e di affetto, abbiamo spesso pianto per le loro sofferenze, che erano le nostre, e gioito per le loro vittorie, che ci hanno riempito il cuore d’amore. I volti dei sei prigionieri palestinesi che si sono liberati dalla prigione di Gilboa per alcuni giorni nel settembre del 2021; quello del prigioniero-bambino Ahmad Manasra che lotta contro la sofferenza psicologica, oltre che fisica, nelle carceri israeliane; quello della giovane Ahed Tamimi alcuni anni fa, o dell’infermiera Razan Najjar, uccisa a Gaza nel corso della Grande Marcia del Ritorno nel 2018, sono tutti parte di una costellazione del sumud palestinese, di quell’azione collettiva di reintegrazione delle presenza e dell’esistenza palestinese di fronte a ogni violenza catastrofica agita contro i singoli individui, contro la terra e contro il popolo nel suo complesso. Si tratta di un’azione collettiva di ricostruzione del mondo e dell’orizzonte che permette ai palestinesi di continuare ad esistere e vivere – e non solo sopravvivere – all’interno della fitta rete delle strutture coloniali che minacciano continuamente la loro vita. Si tratta di un campo di azione profondamente diverso da quello della “resilienza”. Rapportarsi con la costellazione del sumud ha a che fare con il riconoscimento della piena agency dei palestinesi, della loro capacità di pensare e agire nel mondo e dei loro sentimenti ed emozioni.

Malaka Shwaikh, studiosa palestinese nata e cresciuta a Gaza, e ora ricercatrice e insegnante a Edimburgo, sottolinea come l’attribuzione della resilienza a un popolo o a un gruppo avvenga da una posizione paternalistica e di potere, in cui all’oppresso si attribuisce una capacità maggiore, acquisita nel tempo, di sopportare il dolore e la perdita rispetto a chi vive nel privilegio. A chi deve affrontare il colonialismo, la guerra, la povertà, la deprivazione, l’oppressione da più tempo si attribuisce la resilienza, come la si nega – altrettanto arbitrariamente – a chi si trova nella condizione di profugo per la prima volta (si veda la situazione ucraina). Si tratta di una divisione del mondo, e delle sofferenze, manichea, come direbbe Frantz Fanon. Il dolore e la morte dei primi non ci scandalizzano: fanno parte della figura del palestinese, del profugo “nero”, dei contesti del Medio Oriente. Le sofferenze degli altri vengono narrate e mobilitate per articolare discorsi bellici e imperialistici e per giustificare interessi geopolitici in Europa come nella regione mediorientale e nel mondo. In entrambi i casi, la solidarietà non viene praticata come una relazione orizzontale e reciproca, ma come un rapporto di potere che permette che alcuni soggetti determinino le condizioni di vita degli altri.

Liberare lo sguardo sul/la palestinese dalla lente della “resilienza” e riconoscere le possibilità generative e creative del sumud è un primo passo con cui possiamo riconoscere pienamente la vita e l’esistenza dei palestinesi. I volti della costellazione del sumud palestinese ci muovono allora non perché ci parlano di un popolo “sovrumano” ed “eroico” che può e deve sopportare ogni sopruso, ma perché ci mettono in relazione con tutti quei volti che non vediamo, con tutte le emozioni e i sentimenti dei palestinesi all’interno della loro lotta collettiva, con tutte le contraddizioni e le difficoltà che affiancano la stravolgente e splendente forza con cui essi continuano a pretendere la dignità e la vita e a resistere. La lotta degli oppressi per la liberazione non è basata su concetti astratti di “umanità” e “civiltà”, ma è radicata nella rivendicazione di un’esistenza dignitosa e nel reclamare la propria capacità di stare nel mondo materialmente, simbolicamente e politicamente.

Praticare la solidarietà come relazione realmente orizzontale significa riconoscere nelle azioni quotidiane e collettive, anche quelle che non riusciamo a capire – a causa della differenza delle posizioni e delle esperienze del mondo – le forme in cui il/la palestinese rivendica e pratica il suo rapporto vivente e organico con la terra e con i suoi luoghi. Significa riconoscere la sua capacità di parlare di e per se stesso/a, non solo tramite la parola e la scrittura, ma anche e soprattutto nelle pratiche con cui reclama e afferma la propria esistenza e presenza nel mondo. Significa riconoscere tutti quegli spazi in cui i palestinesi rivendicano la propria emancipazione dal ruolo di “vittima” passiva da salvare, da guidare alla costruzione di uno pseudo-stato, da acquietare e mettere a tacere nell’equazione di una pace capitalistica.

Come sostiene la psicoterapeuta palestinese Samah Jabr, ispirata dal lavoro rivoluzionario di Fanon, è proprio nell’azione stessa della resistenza all’oppressione che l’oppresso si riappropria dell’umanità negata dal processo coloniale.

La liberazione palestinese non è in un futuro che verrà, essa avviene nel presente in cui si mettono in discussione i rapporti ingiusti attraverso cui l’intero mondo moderno è costruito; è nel presente in cui questi rapporti, a partire da quello della solidarietà, vengono ricostruiti e praticati diversamente per realizzare una liberazione radicale di tutte/i.