Contro tutto e tutti, la perseveranza della Palestina

Se la questione palestinese sembra essere scomparsa dall’agenda diplomatica occidentale e araba, resta però ben radicata all’interno della realtà regionale e nella memoria dei popoli. Non si può sopprimere così facilmente l’aspirazione all’emancipazione.

Manifestazione contro la creazione di nuovi insediamenti a Beit Dajan, a est di Nablus, 5 agosto 2022.
Jaafar Ashtiyeh/AFP

La visita del presidente Joe Biden in Medio Oriente nel luglio 2022 non ha cambiato in alcun modo la strategia degli Stati Uniti nella regione. L’obiettivo principale era quello di ridurre i costi dell’energia a seguito della guerra in Ucraina che sta minacciando l’economia mondiale. Al di là di un sostegno puramente formale alla soluzione dei due Stati, Joe Biden ha ignorato la questione della Palestina, relegando più che mai ai margini il popolo palestinese.

Joe Biden non ha rimesso in discussione le concessioni fatte da Donald Trump a Israele, né c’è stata alcuna condanna ufficiale nei confronti degli insediamenti israeliani. Per ora il consolato statunitense a Gerusalemme Est resta chiuso, sancendo in questo modo le pretese israeliane sulla città contesa. Resta chiuso anche l’ufficio dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) a Washington. Gli Stati Uniti non hanno avanzato proposte relative a nuovi negoziati. È vero che Biden ha ristabilito gli aiuti ai palestinesi, ma ciò non farà altro che far sopravvivere un’Autorità Palestinese (AP) corrotta e inconcludente.

Sebbene una simile indifferenza sia insita da sempre nella politica estera statunitense nella regione, oggi riflette la sempre minore rilevanza della Palestina nel mondo arabo. Negli ultimi dieci anni, la percezione della causa palestinese è cambiata all’interno del nuovo ordine regionale nel mondo arabo. E questo, mentre l’opinione pubblica in tutta la regione resta fortemente filo-palestinese, e il sostegno agli Accordi di Abramo e alla normalizzazione delle relazioni con Israele è a dir poco tiepido. La solidarietà non si traduce necessariamente in mobilitazione.

La questione palestinese non ha più lo stesso impatto che aveva in passato sulle politiche nazionali. I palestinesi hanno pagato le conseguenze del declino delle ideologie transnazionali, tanto il nazionalismo arabo quanto l’islamismo che incoraggiavano il sostegno all’autodeterminazione palestinese. Inoltre, dal punto di vista economico e politico, sono molti i paesi che hanno vissuto conflitti o transizioni tumultuose dopo le Primavere arabe. Oggi le società dei paesi arabi si concentrano più su questioni economiche e lotte locali per la dignità e la giustizia che su questioni regionali come la Palestina.

Sul piano sociale, la repressione e la frammentazione di molte società civili ha inoltre impedito una mobilitazione di massa contro l’aggressione israeliana. Le manifestazioni filopalestinesi si sono quindi ridotte in termini numerici e d’entità, con la sola eccezione forse della Giordania data la sua vicinanza geografica. Gli eventi che un tempo avrebbero suscitato forti reazioni popolari, come i recenti droni lanciati da Hezbollah su Israele, sono a malapena menzionati nell’opinione pubblica.

Infine, in termini geopolitici, la questione palestinese non determina più l’agenda regionale, visto che è scomparsa a favore di altre ricomposizioni. Il vecchio sistema interarabo basato su un ampio consenso sotto il coordinamento dalla Lega degli Stati arabi praticamente non esiste più.

Spinte alla normalizzazione

Tuttavia, la nuova fase di normalizzazione inaugurata con gli Accordi di Abramo rappresenta più un nuovo assetto delle dinamiche regionali che una fortuita convergenza di interessi. A ogni tappa, c’è stata una nuova spinta alla normalizzazione.

La prima è venuta dall’alleanza controrivoluzionaria. Sospinta dall’Arabia Saudita e dagli Emirati Arabi Uniti (UAE) durante la Primavera Araba, la controrivoluzione ha cercato di svuotare di senso ogni ideologia, tanto quella del nazionalismo arabo e dell’islamismo quanto quella del liberalismo e dell’attivismo democratico. L’obiettivo è stato quello di consolidare i regimi autoritari impendendo ogni forma di mobilitazione popolare. Più tardi, c’è stata una seconda spinta alla normalizzazione riconducibile alla politica estera statunitense dell’amministrazione Trump. L’“accordo del secolo” ha dato l’opportunità agli alleati di lunga data degli Stati Uniti di rafforzare la loro caratura geopolitica e ai nuovi alleati di guadagnare terreno a Washington facendo leva su posizioni filo-israeliane.

Dopo la partenza di Trump, siamo entrati in una terza fase. Gli Stati arabi si sono liberati delle vecchie alleanze e, di fronte al declino dell’egemonia americana, oggi agiscono nel proprio interesse. Realizzare una pace separata con Israele è vantaggioso per ogni “normalizzatore” da diversi punti di vista, e nessuno di questi vantaggi scaturisce davvero dalle solenni promesse degli Accordi di Abramo, che, secondo i suoi ideatori, avrebbero dovuto innescare un periodo senza precedenti d’integrazione economica e di prosperità in tutta la regione.

Nel Golfo, ad esempio, gli Emirati Arabi Uniti considerano Israele un alleato nel quadro di accordi di sicurezza reciproca per contrastare l’Iran, che avvertono come una minaccia alla propria esistenza. Inoltre, gli Emirati considerano le connessioni in campo tecnologico e finanziario israeliane vitali per l’entrata economica sul mercato africano. Dal canto suo, il Marocco considera Israele un partner prezioso di fronte ai progressi dell’Algeria in alcuni settori militari. Anche i leader sudanesi “sono saliti sul carro” della normalizzazione perché ha consentito di essere cancellati dall’elenco statunitense degli Stati che sostengono il terrorismo, spianando così la strada all’apertura verso la cooperazione economica e militare con l’Occidente.

La fine delle alleanze permanenti

La questione palestinese è stata quindi trascurata, non nell’ambito di una nuova concertazione regionale, ma proprio per il fatto che non esiste più alcun ordine regionale. Le alleanze tradizionali sono state sostituite da uno scenario di conflitti in continua evoluzione e da alleanze ad hoc, dove ogni Stato considera il sistema regionale come un grande buffet da cui attingere, assumendo posizioni in apparenza contraddittorie. Ci sono più alleanze temporanee che equilibri permanenti. Sono modelli di cooperazione di stampo utilitaristico, non basati su alcun accordo ideologico, ma piuttosto su convergenze temporanee di interessi che si sovrappongono.

Per fare un esempio, la Turchia sta cooperando con la Russia per rendere più agevole il passaggio del grano attraverso il Mar Nero, ma, allo stesso tempo, ha accettato, dopo molte insistenze da parte americana, di consentire a Finlandia e Svezia l’adesione alla NATO. Inoltre, la Turchia partecipa a incontri trilaterali con Iran e Russia, continuando al tempo stesso a vendere droni militari all’Ucraina. Il Marocco rimane filo-occidentale nel suo orientamento economico-politico, ma ha scelto di non condannare la Russia per l’invasione dell’Ucraina. Inoltre, il nuovo “Grande gioco” per i giacimenti di gas naturale nel Mediterraneo orientale ha innescato nuove partnership e tensioni tra Libia, Turchia, Cipro, Egitto, Israele e Grecia, che negoziano indipendentemente rispetto alle ulteriori pressioni regionali.

Sono quattro gli Stati arabi del Golfo che devono ancora accettare la normalizzazione con Israele: Arabia Saudita, Kuwait, Oman e Qatar. Per l’Arabia Saudita, c’è la tutela dei luoghi santi della Mecca e Medina a bloccare la normalizzazione. Tollerare la pressione coloniale di Israele sulla Palestina significherebbe abbandonare simbolicamente Gerusalemme, che ospita il terzo luogo sacro dell’Islam, la moschea di Al-Aqsa. Il Qatar non vuole la normalizzazione per preservare la sua posizione di mediatore neutrale, pur mantenendo la sua influenza grazie al suo soft power. La normalizzazione priverebbe Doha della sua posizione privilegiata, al di sopra delle parti nelle controversie regionali.

Man mano che le configurazioni geopolitiche nella regione si moltiplicano e diventano più complesse, in Israele si è creata un’efficiente divisione dei compiti tra Stato e coloni. L’establishment politico israeliano normalizza i rapporti con il maggior numero possibile di Stati arabi, rendendo così l’unico “Stato ebraico” un fatto compiuto. Intanto, i coloni operano una pulizia etnica, continuando a occupare le terre palestinesi. Dal momento che i coloni non agiscono secondo le direttive ufficiali dello Stato, il governo israeliano può ufficialmente negare il proprio sostegno alle loro azioni. Da parte sua, la comunità internazionale finanzia questo accordo tenendo la testa dell’agonizzante Autorità Palestinese appena fuori dall’acqua. Si tratta di un sistema simile a quello dell’apartheid, in cui lo Stato e la società israeliana lavorano per schedare, separare e amministrare i palestinesi come semplici sudditi.

I regimi arabi denunciano l’occupazione e la colonizzazione della Palestina, ma solo a parole. Ma anche loro giocano su due tavoli: i leader cercano tutti i vantaggi materiali che possono ottenere dalla pace con Israele pur esercitando una maggiore pressione sugli elementi filo-palestinesi all’interno delle loro società civili. Tuttavia, questa strategia è a rischio a causa di due ulteriori sviluppi.

La questione del sacro

In primo luogo, la crisi palestinese è diventata una questione di diritti umani anziché una lotta di liberazione nazionale. Rientra nell’ambito di una difesa universale dei diritti civili e del riconoscimento della dignità. Visto che la soluzione dei due Stati è stata in maniera sistematica resa impossibile dalla destra israeliana, il principale quadro di riferimento per i palestinesi resta quello del rispetto dei loro diritti sotto il dominio israeliano. Lo dimostra il clamore mediatico suscitato dall’omicidio della giornalista palestinese naturalizzata statunitense Shirin Abou Akleh. Lo stesso vale per l’ondata di sostegno internazionale al movimento Boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (BDS) che rende la lotta per la Palestina molto simile alla campagna anti-apartheid contro il Sudafrica.

In secondo luogo, dopo i recenti scontri sulla spianata delle Moschee, l’attenzione si è spostata sulla dimensione religiosa dello scontro a Gerusalemme, vista la sua veste di Città Santa. Il problema di Gerusalemme non riguarda solo il suo status di capitale eterna di Israele o futura capitale della Palestina. La sua sacralità deriva dalla presenza della Moschea di Al-Aqsa e della Cupola della Roccia, e rimanda al racconto del viaggio notturno del profeta Maometto menzionato nel Corano. Una dimensione spirituale estremamente delicata, che coinvolge non solo i palestinesi, ma l’intera comunità musulmana, che era già stata al centro del fallimento dei negoziati di Camp David nel 2001. Messa in ombra negli ultimi anni, di recente è tornata prepotentemente alla ribalta per le reiterate provocazioni dei pellegrini ebrei su quello che ai loro occhi non può che essere il “Monte del Tempio”.

Mentre alcuni politici israeliani si augurano di mettere al sicuro Gerusalemme il prima possibile, altri, consapevoli di questa dimensione sacra, preferiscono perciò occupare la città solo a tappe per ridurre la possibilità di una rivolta di matrice religiosa. Ciononostante, a smentirli ci sono i loro sodali, i coloni che operano in una logica non di stampo politico ma religioso, perfino messianica, inseguendo con zelo il sogno di una “Grande Giudea”.

Questo connubio di politica e religiosità desta preoccupazione nei regimi arabi. Per loro è chiara la logica strategica in atto nell’appropriazione delle terre palestinesi da parte di Israele, ma non sono in grado di gestire il contraccolpo spirituale dell’occupazione di Gerusalemme o della trasformazione della causa palestinese in una campagna globale per i diritti civili. Così il timore del contraccolpo spiega l’avversione dell’Arabia Saudita alla normalizzazione, visto che non può sacrificare Gerusalemme e pretendere al tempo stesso di difendere La Mecca e Medina in nome della umma1 mondiale.

In questa nuova fase, la Palestina ha indubbiamente subito una pesante battuta d’arresto. Tuttavia, la crisi non si risolverà. Oggi i palestinesi si trovano in un vicolo cieco. La storia però dimostra che le lotte per l’emancipazione proseguono di fronte a un colonialismo spietato. L’Irlanda del Nord è la conseguenza dalla colonizzazione inglese dell’Irlanda di 600 anni fa. Eppure, anche l’Accordo del Venerdì Santo non ha risolto del tutto le tensioni religiose e nazionaliste.

Anche la causa palestinese durerà. L’emancipazione è un’aspirazione umana fondamentale, che resisterà a ogni pressione geopolitica e religiosa che oggi la vincola.

1Il termine designa la comunità dei fedeli musulmani. Alcuni movimenti politici utilizzano il termine per tradurre il concetto di nazione, nel senso di nazione araba. Ndt