La serata sarebbe potuta finire male per questi giovani. In una villa della periferia sud di Amman la festa viene interrotta dall’arrivo della polizia. I vicini si sono lamentati del rumore e della presenza di un gran numero di invitati festanti, di gran lunga superiore al limite imposto dalle autorità a causa della crisi sanitaria. Tre giovani escono per discutere con i poliziotti. Colpo di fortuna, uno di loro riconosce uno degli agenti, di poco più grande, suo vicino a Jerash, nel nord del paese. Dopo aver discusso un po’, la polizia riparte senza constatare alcuna infrazione. Questo genere di interazioni, in cui si fa appello alle proprie relazioni per ottenere un trattamento di favore, è detto wasta, un meccanismo fondamentale nella società giordana, così come in altri paesi del Vicino Oriente. Per estensione il termine sta ad indicare anche l’intermediario, un ruolo socialmente apprezzato. La wasta è dunque una forma di corruzione non monetaria che opera tanto nel clientelismo quanto nel favoritismo o nel nepotismo.
Una pratica di origine tribale
Retaggio di un sistema tribale precedente alla creazione dello stato giordano, questa pratica era diffusa tra le tribù che popolavano le rive del Giordano per facilitare la risoluzione dei conflitti, facendo ricorso a degli intermediari. La wasta è sopravvissuta alla creazione da parte dei britannici dell’emirato della Transgiordania nel 1921, e poi all’indipendenza del regno hashemita di Giordania nel 1946, e ha anche permesso al re Abdallah I di ottenere la fedeltà delle tribù, che resta ad oggi uno dei pilastri fondanti della monarchia. Neppure l’evoluzione dell’apparato anti-corruzione, con la creazione nel 2006 della Commissione giordana anti-corruzione (Jordanian Anti-Corruption Commission, JACC), e potenziata dopo il 2011 in seguito all’ondata di proteste sulla scia delle rivoluzioni arabe, l’ha fatta scomparire. E mentre nel 2019 la proporzione di popolazione giordana che aveva usato tangenti negli ultimi dodici mesi era del 4% (uno dei tassi più bassi della regione), la percentuale di quelli che avevano fatto ricorso alla wasta era del 24%.1 La pratica della wasta però si è evoluta. Oggi essa è presente tanto nell’istruzione quanto sul mercato del lavoro, per l’accesso ai servizi pubblici o alla giustizia. Può servire ad ottenere un posto di lavoro, una promozione, o l’iscrizione ad una scuola o un’università, anche senza i diplomi richiesti, o può permettere di accedere a un servizio in un ospedale. Nel complesso è una pratica ampiamente accettata a livello sociale, nonostante la sua natura poco etica ed iniqua.
Palestinesi fuori dai giochi
In teoria, tutti possono accedere alla wasta o essere un intermediario. Ma la vitamina waw,2 come viene comunemente chiamata, è una risorsa suddivisa in modo ineguale. Prima di tutto si delinea una frattura tra i/le palestinesi e il resto delle/i giordane/i, pur minoritari nei numeri (secondo la Piattaforma delle ONG francesi per la Palestina il 60% della popolazione giordana è di origine palestinese). Dal momento dell’abbandono nel 1988 da parte della Giordania di ogni rivendicazione sulla Cisgiordania, le/i palestinesi hanno uno status ambiguo. Alcune/i hanno mantenuto la piena cittadinanza giordana, altri hanno perso il loro numero di identificazione nazionale (necessario per accedere al lavoro e ai servizi pubblici),3 altri peggio ancora sono stati semplicemente privati della loro nazionalità. Questi status differenti limitano l’accesso alla giustizia, all’esercito o alla polizia. Trattandosi di un meccanismo che opera essenzialmente in questi settori, la wasta è più limitata per la popolazione originaria della riva ovest del Giordano, rafforzando così la sua marginalizzazione nell’apparato statale. L’assenza di una battaglia concreta contro la wasta in un paese che non ha smesso di rafforzare questa distinzione tra giordani/e e palestinesi non fa che peggiorare la situazione. Le disuguaglianze legate alla wasta non risparmiano neppure le disuguaglianze di genere. Rebecca Miles, ricercatrice all’università della Florida, osserva che le famiglie giordane prediligono l’uso della wasta per i propri figli maschi piuttosto che per le figlie femmine. Più grave ancora, fare appello ad un intermediario è pratica altrettanto corrente nel ricorso alla giustizia in seguito ai delitti d’onore, come i femminicidi frequenti in Giordania. Questi sono spesso lasciati impuniti, e i loro autori talvolta condannati a pene minime, soprattutto nei contesti tribali, che sono più conservatori. Ancora di più, la disuguaglianza nell’accesso alla wasta si sovrappone alle disuguaglianze socio-economiche. Il suo utilizzo favorisce l’immobilità sociale. Per le classi più agiate, essa garantisce ai giovani il successo scolastico e una buona condizione professionale. Al contrario, per gli studenti appartenenti alle classi svantaggiate rappresenta un soffitto di cristallo. Non solo questi ultimi troveranno difficoltà nell’iscriversi all’università, ma il loro accesso al mercato del lavoro sarà inoltre frenato dalla mancanza di connessioni. Andando contro l’uguaglianza di opportunità e il mito meritocratico la wasta contribuisce a rafforzare un senso di ingiustizia sociale.
Le pie illusioni del re
Anche se la monarchia hashemita ha avviato delle timide riforme democratiche, la wasta funge ancora da strumento politico, soprattutto nell’ambito delle elezioni. Nel 2011 la Giordania non sfugge ai movimenti delle rivolte arabe. La wasta e il favoritismo sono denunciati dai manifestanti nelle piazze. Il re Abdalla II deve allora sostenere una riforma costituzionale e appoggiare le “trasformazioni democratiche necessarie”, riducendo leggermente il potere del re a vantaggio del parlamento, mentre vengono anche create una corte costituzionale e una commissione elettorale indipendente. Ma la wasta interferisce anche nel processo elettorale. La sua pratica alimenta uno scambio clientelare che permette di offrire dei favori così da assicurarsi l’elezione. È molto più diffusa nelle regioni rurali, che sono le più rappresentate in parlamento, e in cui l’appartenenza tribale rappresenta un fattore importante della scelta politica. Le recenti elezioni parlamentari del 10 novembre 2020 ne sono state un esempio. Con un’affluenza scarsa (29%), accentuata dal contesto della pandemia, ciascun voto ha avuto la sua importanza: alcuni deputati sono stati eletti ottenendo poco più di 2000 voti. D’altronde il 15 novembre Jihad al-Momani, portavoce della commissione elettorale, ha annunciato il rinvio davanti alla procura generale di alcuni candidati per “compravendita di voti prima e durante lo scrutinio”. Senza precisarne il numero, il comunicato spiega che tra questi “figurano anche dei candidati che sono stati eletti”.
I timidi risultati nella lotta alla wasta contrastano con le ambizioni reali. Il sito internet del re Abdallah II precisa bene che il monarca “si è dato come priorità quella di lottare contro la wasta [nepotismo] e la corruzione in tutte le loro forme”. Queste ambizioni non sono nuove. Già nel 2005 il sovrano affermava che le giovani generazioni “devono comprendere che la wasta non è un atto onesto”. La sua volontà di lottare attivamente contro questa pratica però è rimasta una pia illusione. La mancanza di azioni concrete fa sorgere delle domande. Secondo Mohamed, studente all’università della Giordana ad Amman, “il sistema non fa niente per fermare [la wasta], il che spinge a rimetterne in discussione tutto il funzionamento”. Per la prima volta nel 2019 Transparency International ha preso in considerazione la wasta nel suo barometro della corruzione nel Vicino Oriente, un segnale che questa pratica suscita un interesse crescente. Se la Giordania vuole progredire nel processo democratico aperto nel 2011 sarà chiamata a rimetterla in discussione.
1Transparency International, Global Corruption Barometer. Middle East and North Africa, 2019.
2La waw (و) è la prima lettera della parola wasta in arabo.
3Shaul M Gabbay, «The Status of Palestinians in Jordan and the Anomaly of Holding a Jordanian Passport», Journal of Political Sciences & Public J Affairs, 2:1, 2014.