COP27

Gli attivisti climatici del Nord Africa chiedono un’altra transizione giusta

Durante la Cop27, i leader europei hanno garantito una transizione giusta tra Nord e Sud del mondo, promettendo di finanziare la decarbonizzazione. In Nord Africa, però, gli attivisti vogliono sfruttare la transizione energetica per mettere in discussione l’autoritarismo.

Pannelli solari
Arianna Poletti

“La transizione energetica non deve lasciare indietro nessuno” è un mantra che è rimbalzato dagli striscioni degli attivisti climatici del Sud globale alla platea delle sale da conferenza di Sharm El-Sheikh, in Egitto, durante la Cop27. A pronunciarlo, infatti, non è stata la voce di uno dei rappresentanti delle zone MAPA (Most Affected People and Areas) - ombrello che include le aree più colpite dalle conseguenze della crisi climatica - ma la prima ministra italiana Giorgia Meloni1 il suo discorso del 7 novembre, ai margini del quale ha incontrato prima il presidente egiziano Abdel Fattah Al-Sisi, poi il presidente algerino Abdelmadjid Tebboune per parlare degli accordi sul gas. Le dichiarazioni di Meloni, sostenitrice di una “transizione energetica equa” che stringe però la mano ai principali fornitori nordafricani di energia fossile, possono apparire contraddittorie, ma non lo sono. Si fondano sull’equivoco volontario che ha permesso a buona parte dei leader europei di appropriarsi dell’espressione “transizione giusta” (in inglese just transition), svuotandola del significato datole da chi per primo l’ha rivendicata per reinterpretarla come una richiesta semplice: più fondi per la decarbonizzazione del Sud del mondo, che non ne ha abbastanza.

È questo il senso del Just Energy Transition Plan, un’iniziativa sostenuta dall’Unione Europea che vuole aiutare i paesi del Sud globale a ridurre le proprie emissioni tramite finanziamenti mirati all’industria green. In cambio, però, a quei paesi è richiesto di continuare a fornire energia a chi paga per la loro transizione. “Il Sud del mondo ha risorse in abbondanza. Ecco perché l’Unione Europea sta firmando nuove partnership per l’idrogeno con l’Egitto, la Namibia e il Kazakistan”, ha affermato durante la Cop27 Ursula von der Leyen2 dopo aver elencato i finanziamenti già accordati dall’UE. E ha concluso: “Percorreremo questa strada insieme”. Ma fuori dalle sale da conferenza di Sharm El-Sheikh, c’è chi rivendica un’altra idea di transizione e contesta precisamente questo meccanismo, che non farebbe che riprodurre i rapporti di subalternità tra un Nord che finanzia e un Sud che fornisce. A cambiare sarebbero sì le fonti di produzione di energia, ma non le politiche di dipendenza che hanno reso decine di Stati del Sud del mondo incapaci di far fronte alle conseguenze sempre più violente della crisi climatica.

Democrazia energetica

Non è un caso che i primi sulla lista per i nuovi finanziamenti europei a sostegno della transizione energetica siano i paesi del Nord Africa, particolarmente attrattivi per la loro vicinanza geografica e per la loro integrazione sempre maggiore al mercato europeo dell’energia. Di conseguenza, nei mesi precedenti alla Cop27 nordafricana, in Marocco, Tunisia, Algeria, Egitto si sono levate le voci di associazioni e organizzazioni della società civile. Passando sopra le rivalità e le divisioni politiche regionali in nome di un interesse collettivo - come sta accadendo non solo nell’ambito dell’energia, per esempio con il North African Network for Food Sovereignty - gli attivisti climatici della regione hanno dato vita ai primi gruppi di lavoro detti per la Democrazia Energetica. Tra settembre e ottobre, in centinaia si sono ritrovati in Tunisia, dove Greenpeace e l’associazione locale Stop Pollution, che dal 2011 lotta contro l’inquinamento causato dai fumi del Gruppo Chimico Tunisino nella città di Gabes (Sud-Est della Tunisia), hanno organizzato due Climate Camp in vista della Cop27. La questione energetica è stata al centro di panel e assemblee dove gli attivisti della regione hanno avuto l’occasione di confrontarsi sulle politiche energetiche del proprio Stato di provenienza.

Gabes
© Arianna Poletti

Una transizione decentralizzata

A unire i presenti, una rivendicazione comune: assicurarsi che le risposte necessarie e urgenti alla crisi climatica non riproducano il modello estrattivista dell’industria fossile e mineraria. Per decenni, infatti, il fiorente mercato dell’Oil & Gas ha sacrificato i bisogni delle comunità dei paesi di estrazione favorendo i profitti di élite oligarchiche vicine ai vertici dello Stato (Tunisia, Marocco) o, nel caso di contesti centralizzati come l’Algeria o l’Egitto, di élite che coincidevano con l’apparato di sicurezza dello Stato. Proprio contro coloro che negli anni si sono spartiti le fette dell’economia dei paesi nordafricani - identificati con il “sistema corrotto”, l’issaba in dialetto algerino – si sono scagliati i movimenti di protesta del 2011 e del 2019. In Algeria, per esempio, una delle richieste principali dei manifestanti del movimento dell’Hirak, scesi in piazza contro il quinto mandato di Abdelaziz Bouteflika, è stata quella di una maggiore redistribuzione della rendita petrolifera, da cui dipende un terzo del PIL del paese. Dopo aver represso violentemente il movimento di giustizia sociale, quella stessa classe politica algerina continua a rafforzarsi oggi, mentre il paese promette di sostituirsi alla Russia per le forniture di gas all’Europa.

In Nord Africa, le rinnovabili non costituiscono solo una percentuale da raggiungere entro il 2030, ma un’occasione di riflessione sul processo di democratizzazione delle società della regione. Possono quindi trasformarsi nel barometro delle future riforme economiche e sociali. È questa la funzione che hanno avuto in Marocco, dove, malgrado la repressione, giornalisti e militanti della società civile continuano a scagliarsi contro un modello di transizione energetica considerato ingiusto perché troppo accentrato. Eppure, il Marocco viene spesso presentato come modello virtuoso ed efficiente: il paese produce effettivamente circa il 20% della propria elettricità a partire da fonti rinnovabili, più di molti Stati europei. Ma le modalità tramite le quali questa percentuale è stata raggiunta - ovvero la costruzione di immense centrali solari, che tra l’altro consumano grandi quantità di acqua di raffreddamento in piena siccità - vengono ormai contestate non solo dalle comunità rurali che abitano accanto ai pannelli, ma anche da un organo costituzionale del Regno, il Consiglio Economico, Sociale e Ambientale (CESE), che nel 2020 ha pubblicato un rapporto sulla transizione energetica criticando le scelte degli ultimi anni, sia perché queste hanno escluso le richieste dei cittadini, sia perché non hanno portato i benefici sperati. Proprio la malagestione delle finanze delle più importanti centrali solari del paese sarebbe costata il posto al direttore della Masen, l’Agenzia Marocchina per l’Energia Sostenibile3.

Nel 2011, contro l’estrattivismo

Seppur si tratti di due paesi che provengono da contesti diversi e hanno preso direzioni diverse, in Marocco e Tunisia l’evoluzione dei movimenti sociali racconta quanto le riflessioni sulla transizione energetica giusta, che oggi tornano al centro del dibattito a causa della crisi del gas e del passaggio sempre più urgente alle rinnovabili, siano attualissime ma non nuove. Raccontate dalla stampa estera come generiche richieste di riforme politiche e di giustizia sociale, già dietro le rivendicazioni della rivoluzione tunisina e del movimento del 20 febbraio marocchino di inizio 2011 si nasconde una sapiente critica al modello estrattivista, o meglio a quel sistema economico che è andato costituendosi nei decenni a partire dai Piani di aggiustamento strutturale del Fondo Monetario Internazionale e dai sempre più frequenti interventi della Banca Mondiale, che hanno orientato le economie dei paesi a Sud del Mediterraneo verso la produzione per l’esportazione.

Non è un caso, infatti, che la storia di Mohamed Bouazizi, giovane che si è immolato a Sidi Bouzid aprendo la stagione delle proteste che hanno incendiato il mondo arabo, sia una storia di espropriazione. Raccontato semplicemente come “un venditore ambulante povero”, Bouazizi in realtà era stato privato dei propri terreni familiari, sua unica fonte di reddito, da un grande imprenditore della città costiera di Sfax. La questione dell’uso delle terre agricole (private e demaniali) sta tornando centrale con l’installazione di mega progetti di centrali solari, per esempio, come è accaduto in Marocco con la costruzione della centrale “Noor”, 3.000 ettari in un’area rurale.

Altro simbolo ricorrente nei movimenti di protesta marocchino e tunisino sono le miniere. Se da un lato le rivolte del bacino minerario di Gafsa nel 2008 hanno anticipato la rivoluzione tunisina, dall’altro i sit-in dei minatori marocchini hanno bloccato le miniere di metalli preziosi che punteggiano le regioni semi-desertiche del Sud-Est. Dell’oro, dell’argento, del cobalto esportati all’estero da società private vicine al re rimane ben poco alla popolazione locale, che per anni ha costituito un bacino di operai a basso costo e niente di più. “Abitiamo accanto a metalli rari esportati in Europa e nel Golfo, ma abbiamo iniziato anche noi a credere di essere poveri”, riassume Jamal Saddoq, membro dell’associazione marocchina “Attac”4.

L’ambientalismo di ieri e di oggi

Nonostante nel racconto immediato degli eventi del 2011 sia passata in secondo piano, la questione del diritto all’ambiente - strettamente legata a quella dell’accaparramento delle risorse o delle terre - era già presente. È l’accentramento economico, infatti, ad aver favorito quello politico. Undici anni più tardi, è in Stati ancora fortemente accentrati che va realizzata la transizione: «Una transizione rapida è semplice da ottenere in contesti autoritari perché imposta dall’alto a comunità che non traggono alcun beneficio diretto da questi grandi progetti, e che non si oppongono alla transizione in sé, ma alla sua centralizzazione», analizza Benjamin Shütze, ricercatore dell’Università di Friburgo. Proprio per questo motivo, secondo l’esperto, finanziare progetti per la produzione di energia a partire da fonti rinnovabili non è sufficiente, ma è necessaria una riflessione su come questi finanziamenti vengono usati, da chi e con quali obiettivi. In paesi in crisi economica strutturale, lo Stato ha poco margine di intervento: “Buona parte degli attori pubblici a Sud del Mediterraneo sono fortemente indebitati, quindi sono gli attori privati a farsi carico della transizione. In questo modo i profitti restano ai privati, mentre i costi sono pubblici”, spiega portando l’esempio tunisino, dove tutte le recenti gare d’appalto per la costruzione di centrali solari sono state vinte da società private straniere. I sindacati della Società Tunisina dell’Elettricità e del Gas per anni si sono opposti alla liberalizzazione del mercato della produzione di elettricità nel paese, chiedendo “una transizione pubblica e accessibile a tutti”. Senza successo.

Proprio in Tunisia, dove la società civile sta lottando per conservare gli spazi di libertà di espressione conquistati con la rivoluzione, alcuni movimenti di allora oggi rivendicano la definizione di “ambientalisti” e rimettono al centro del dibattito le politiche economiche e sociali, collegandole a quelle ambientali ed energetiche. Molti dei movimenti che lottano contro la crisi climatica in Tunisia non sono nuovi, ma semplicemente frutto di «un’evoluzione e di una presa di coscienza delle dinamiche politico-economiche del paese in questi dieci anni», riassume Leyla Riahi dell’Osservatorio Economico Tunisino5. A raccontarlo, sono gli stessi attivisti di Manish Msab (“Noi non siamo una discarica”), che chiedono la chiusura di una discarica satura e tossica nella regione di Sfax: “Siamo nati nel 2011 come collettivo di artisti, siamo scesi in piazza a manifestare contro la dittatura di Ben Ali. Dieci anni dopo, ci siamo trasformati in uno dei movimenti ambientalisti più influenti della zona. Qui la lotta per il diritto all’ambiente non è una scelta, ma l’unica alternativa che c’è”, spiega il portavoce6.

A far loro eco è Khayreddine Debaya, attivista e membro dell’associazione “Stop Pollution” di Gabes, dove i fumi della lavorazione dei fosfati asfissiano la città: “Durante la rivoluzione eravamo in prima linea. Si dice che gli abitanti di Gabes sopportino meglio il gas lacrimogeno della polizia perché sono abituati all’inquinamento”, spiega. Ambiente e politica, ancora, si intrecciano. Da dicembre 2021, un importante movimento di associazioni e organizzazioni locali si raduna a Tunisi nel tentativo di sottoporre alla presidenza una lista di misure urgenti contro la crisi climatica, frutto di una concertazione popolare dal Nord al Sud del paese. “Vogliamo chiedere alla presidenza di prendere in considerazione la voce delle collettività locali”, riassume Nidhal Attia dell’associazione “Tunisie Verte”. Nel caso dell’energia, quella voce chiede progetti su scala medio-piccola, locali, sostenibili e in grado di portare benefici agli abitanti prima che all’industria o a chi intende esportarle. Un’altra definizione di transizione giusta.