Abdelaziz Baraka Sakin inizia a scrivere negli anni ’80, all’epoca in cui il Sudan è governato dal presidente Gaafar al-Nimeyri ed il peso della censura si fa sentire fortemente sugli intellettuali. Trasferitosi in Egitto per motivi di studio, vi pubblica i suoi primi libri che riscuotono immediatamente un gran successo presso il pubblico sudanese. Una volta rientrato nel suo paese natale, lo scrittore esercita svariate funzioni nella pubblica amministrazione, ma viene poi licenziato a causa del suo rifiuto di svolgere il servizio militare. Comincia allora a lavorare nel campo umanitario, in seno ad alcune organizzazioni internazionali. In questo periodo è inviato nel Darfur per formare, sui diritti umani, le truppe della NATO e dell’Unione Africana (UA), incaricate di osservare la guerra in corso (2003-2009) tra l’esercito governativo – appoggiato da mercenari arabi chiamati janjawid – e le tribù locali definite «ribelli» da Khartum e composte essenzialmente da tribù dette «africane».1
Ritornato a Khartum, l’autore racconta questa esperienza nel suo romanzo più celebre, tradotto poi in svariate lingue, Il Messia del Darfur. Tutte le sue opere vengono sequestrate e le ripetute minacce ricevute lo obbligano a lasciare il paese. Si trasferisce prima in Austria, dove diventa rifugiato politico e, molti anni dopo, in Francia, dove vive ancora oggi. Il Messia del Darfur racconta la storia di una giovane donna la quale, dopo aver assistito al massacro della sua famiglia in uno dei villaggi del paese distrutto dalle milizie janjawid, durante la guerra che ha devastato questa regione, decide di attribuirsi il nome (maschile) di Abdel Rahman e di arruolarsi nelle truppe «ribelli» per vendicare la sua famiglia. Attraverso questa narrazione a più voci, la parola della protagonista cede il posto: prima al suo compagno Shikiri, giovane del Darfur obbligato dallo Stato ad arruolarsi nelle truppe governative e quindi catturato dai ribelli, poi a Ibrahim Khidr, discendente dalla schiava nera Bakhira detta «color di fuliggine», la quale – offerta in dono ad un commerciante arabo che l’aveva messa incinta – aveva avuto un figlio, Ibrahim, dalla pelle leggermente più chiara di quella dei suoi compaesani, ma che nonostante ciò non era mai stato riconosciuto come un «arabo»; ed infine, alla «zia» Kharifiyya che aveva accolto e adottato la giovane Abdel Rahman dopo che quest’ultima aveva subito numerose violenze sessuali da parte dei janjawid.
«ARABI» CONTRO «AFRICANI»: UNA DISTINZIONE DI CLASSE
La questione che occupa un ruolo centrale nel romanzo è il conflitto tra «arabità» e «africanità» in Sudan.2 Questo conflitto è reale oppure è stato creato di sana pianta ? In questa regione che, per secoli, ha rappresentato una delle più grandi riserve di schiavi del continente africano, le tribù dette «arabe» e quelle dette «africane» sono legate inestricabilmente da secoli di matrimoni misti e abitudini comuni. La parola «arabo» è usata allo stesso tempo in riferimento a una presunta discendenza nobile dalla famiglia del profeta dell’islam, e come termine dispregiativo per definire i beduini poveri ed incolti, con in più il paradosso che alcune tribù dette «arabe» sono tribù che non parlano l’arabo. L’aggettivo «africano» è ugualmente problematico, poiché è praticamente impossibile distinguere coloro che appartengono a quest’ultima categoria da quelli che appartengono alla precedente. Durante il periodo coloniale, due grandi tribù «arabe» della valle del Nilo, i Djaaliyyin e i Danaqla, si sono imposte soprattutto grazie al traffico di schiavi, uno dei commerci più fiorenti della regione. Dopo l’indipendenza del paese, una elite proveniente da queste tribù e da quelle che gravitavano attorno a queste ultime ha assunto il controllo del paese. Il Darfur, territorio estremamente povero e trascurato dal centro situato intorno alla valle del Nilo, si è trovato d’un tratto popolato, all’inizio del XXI secolo, da gruppi di individui definiti – in opposizione ai potenti di Khartum e agli arabi che costituivano il loro braccio armato nel Darfur – come degli «africani» che bisognava addomesticare, ridurre al silenzio o sterminare.
Marcella Rubino. — Lei viene da Kassala, all’est del Sudan. Quali erano i rapporti tra tribù «arabe» e tribù «africane» nella sua città natale?
Abdelaziz Baraka Sakin. — Sono nato a Kassala, ma la mia storia è più complessa. Mia madre era originaria del Ciad. Dopo un pellegrinaggio alla Mecca, la sua famiglia si è fermata in Arabia Saudita, poi si è installata in una città alla frontiera tra la zona chiamata storicamente Abissinia ed il Sudan. Verso la fine della seconda guerra mondiale, a causa dei combattimenti tra truppe italiane e britanniche nella regione, la mia famiglia materna si è trasferita in Sudan, nella città più vicina alla frontiera coll’attuale Eritrea. Per quanto riguarda mio padre, proviene dalla tribù dei Masalit, il cui regno autonomo si trovava tra il Darfur e il Ciad. Kassala è una città composta da tribù molto diverse tra loro: alcune vengono dall’est, dall’ovest e dal nord del Sudan, altre sono tribù provenienti dalla Nigeria e posseggono delle terre. Non ci sono conflitti tra coloro che - altrove nel paese - sono chiamati «arabi» e coloro che sono chiamati «africani». La maggior parte delle tribù di questa regione appartiene al gruppo delle tribù Bedja – presenti anche in Etiopia ed Eritrea – le quali non sono «arabe». Non abbiamo quindi a Kassala il razzismo che troviamo nelle grandi città del Nord e nel Darfur.
M. R.— Qual è la storia di questa distinzione tra «Arabi» e «Africani» in Sudan?
A. B. S.— Gli Arabi sono arrivati in Sudan in varie ondate. Secondo le tradizioni locali, un’ondata importante risalirebbe al declino dell’Andalusia araba al XVIesimo secolo. Se ci si riferisce a questa versione, è da circa sei secoli che le tribù arabe sono impiantate nel Darfur3 e si sono mescolate con le tribù africane locali, come i Masalit, i Fur, i Dajo, gli Zaghawa e altre ancora. I matrimoni misti hanno avuto come conseguenza una mescolanza di queste popolazioni che hanno da secoli in comune le stesse terre e lo stesso colore della pelle, a tal punto che era praticamente impossibile distinguere chi fosse «Arabo» e chi «Africano». Alcune tribù definite più tardi come «arabe» non parlavano neanche l’arabo, ma lingue locali come, per esempio, il farta nella regione del Nilo Blu.
La distinzione tra «Arabi» e «Africani» è apparsa dopo l’indipendenza, con l’ascesa al potere di governi che hanno imposto l’arabizzazione e l’islamizzazione del paese, decretando che l’identità del Sudan si riduceva all’elemento arabo e a quello islamico. Da quel momento, la questione dell’arabità presunta di una parte della popolazione e delle elite al potere è stata legata alla volontà di controllare l’amministrazione e le risorse del paese. La politica di arabizzazione è stata condotta soprattutto attraverso la cooptazione nel Darfur di tribù arabe provenienti dal Niger, dal Ciad e dagli altri paesi del Sahel, che i governi arabo-islamici hanno progressivamente armato e addestrato alla guerra contro coloro che chiamavano ormai con disprezzo gli zurga (neri).
M. R.— La questione razziale in Sudan è legata anche alla storia della schiavitù. Si può dire che esistono ancora oggi dei residui della schiavitù in Sudan ?
A. B. S.— Oggi in Sudan non esiste più la schiavitù propriamente detta. Però le conseguenze di questa pratica sono ancora molto forti. Uno degli elementi distintivi tra le classi sociali si basa sul colore della pelle (tutti sono neri, ma con sfumature date dalle mescolanze eventuali con elementi etnici di pelle «meno nera»). Per esempio, anche se i Masalit non sono mai stati schiavi, a causa del colore «molto nero» della loro pelle sono spesso chiamati ancora oggi ‘abd (schiavi). Il che è paradossale, visto che sappiamo che gli schiavi non erano tutti caratterizzati da una pelle particolarmente scura. Come lo si vede nel Messia del Darfur, molti di loro erano nati da unioni tra donne schiave e padroni «bianchi» (come i turchi ottomani o gli egiziani per esempio). Altro effetto della schiavitù è che gli schiavisti di allora controllano ancora oggi le ricchezze del paese. Il regime al potere ha spesso strumentalizzato questa opposizione tra ‘abd «africano» e hurr (individuo libero) «arabo». La letteratura sudanese parla molto di questo tema perché è fondamentale e, al tempo stesso, complesso. Rappresenta ancora oggi un tabù nella società sudanese.
M. R.—Anche se I suoi romanzi parlano di altri argomenti, lei sceglie di trattare cosi spesso di questa opposizione costruita artificialmente tra «arabi» e «africani». Perché?
A. B. S.— La mia esperienza nel Darfur - durante la missione di formazione di cui ero incaricato - ha ispirato il mio romanzo. Volevo mostrare che la guerra - descritta dalla propaganda del governo dell’epoca come un conflitto tra «arabi» e «zurga», tra «bianchi» e «neri», tra pastori e agricoltori - non era altro che un conflitto tra «centro» e «periferia», nel caso del Darfur una periferia lasciata in uno stato di abbandono da decenni. L’altro mio romanzo, I Jango, tratta di un’altra forma di marginalizzazione, quella dei lavoratori stagionali nei campi. Essi sono, al tempo stesso, dei paria della società con centro a Khartum, ed il perno da cui dipende la sopravvivenza di questa stessa società. Senza questa classe operaia sfruttata, il paese – e in particolare il centro più ricco e sviluppato – non avrebbe come alimentarsi. È per questo che li chiamo «i chiodi della terra» (masamir al-‘ard), cioè coloro che la rendono stabile e senza i quali essa si inaridirebbe.
M. R.— Pensa che la letteratura abbia il potere di rettificare questa rappresentazione identitaria fittizia costruita dal potere politico?
A. B. S.— Potrebbe, se fosse accessibile ai più. Ma in Sudan la maggioranza della popolazione non ha accesso all’istruzione, e tra coloro i quali vi hanno accesso pochi si interessano alla letteratura. Nonostante ciò, i miei romanzi hanno lasciato un’impronta forte sulla piccola elite intellettuale ed istruita. Quando ho scritto I Jango, gli intellettuali del paese hanno scoperto l’esistenza dei lavoratori stagionali di cui questo romanzo parla. Oggi, sono oggetto di studi universitari ed alcune associazioni di giovani portano il loro nome. Durante le manifestazioni che hanno condotto alla caduta del regime di Omar Al-Bashir nel 2019, alcuni manifestanti esibivano degli striscioni sui quali c’era scritto: «I Jango, i chiodi della terra», mettendo l’accento sull’identificazione della gioventù rivoluzionaria con questa categoria marginalizzata della società, elevata a simbolo della miseria del popolo sudanese. Il Messia del Darfur ha avuto ugualmente un’eco molto forte in seno a questa elite intellettuale sudanese, la quale ha scoperto, attraverso questo romanzo, che il conflitto in corso nel Darfur non era di natura etnica, ma politica, e che l’elemento etnico vi era stato introdotto per esser messo al servizio degli obiettivi politici, economici e strategici del potere di Khartum. Seppure la letteratura ha avuto una certa influenza, ancorché molto limitata, sulle strutture sociali, culturali e politiche in Sudan, essa resta tuttavia inaccessibile alla maggioranza dei cittadini, in particolare a coloro i quali rappresentano il suo oggetto principale. Il suo ruolo resterà un ruolo minore finché non beneficerà di un largo numero di lettori, di un contesto editoriale efficiente e di una libertà di espressione che, nel Sudan di oggi, resta ancora estremamente ridotta.
1Su questo conflitto, cfr. in particolare Gérard Prunier, Le Darfour: un génocide ambigu, Paris, La Table ronde, 2011.
2Su questa questione dell’identità «araba» opposta a quella «africana» del Sudan, cfr. Francis Deng, War of Visions : Conflict of Identities in Sudan, Brookings Press, 1995.
3Secondo lo storico Gérard Prunier il primo insediamento di tribù arabe in Sudan risalirebbe al XIVesimo secolo.