Il Cairo secondo Al-Sisi: una faraonica rivoluzione urbanistica che rischia di calpestare la storia

L’ambizione di Al-Sisi di ridisegnare l’Egitto prevede un radicale cambiamento della capitale, che rischia di cancellare o alterare le tracce di millenni di storia.

Il vecchio cimitero del Cairo, dopo il passaggio dei bulldozers, luglio 2020.

Un grandioso mausoleo di un sultano mamelucco abbandonato in una distesa di sabbia lasciata dai bulldozer prima della preghiera del tramonto, alla fine dell’ormai rituale giornata di lavoro e di demolizioni, tra le tombe della città dei morti del Cairo, cittadella nota come al-Qarafa. È l’immagine fino ad ora più iconica e anche più triste dell’evoluzione urbanistica della capitale egiziana, una città cresciuta a dismisura sulle sponde del Nilo e ora pronta a traslocare - poca anima e molto corpo - nella nuova capitale che sta sorgendo nel deserto, a oltre 30 km da piazza Tahrir. Un progetto letteralmente faraonico che dovrebbe diventare realtà nel 2050, sperando così di liberare l’attuale capitale da un traffico asfissiante, grazie anche a una serie di progetti infrastrutturali che già in molti stanno definendo uno scempio urbanistico, storico e sociale.

Quanto sta succedendo alla Città dei morti – dove da agosto decine di tombe del cimitero monumentale sono state rase al suolo per fare spazio a una nuova superstrada – è particolarmente allarmante, considerata la rilevanza storica e culturale di quello che non è solo uno dei cimiteri più importanti del Nord Africa, ma anche una vera e propria città nella città che oltre ai morti ospita tantissimi vivi. Non esiste un censimento ufficiale, ma in questa necropoli che si estende a nord e a sud della Cittadella fortificata da Saladino nel XII secolo, vivono centinaia di migliaia di persone. Un’aristocrazia cimiteriale, si legge in alcune riviste specializzate, composta da custodi delle tombe, becchini e loro familiari che da decenni qui si svegliano e qui crescono i figli passeggiando tra le tombe di sultani, illustri studiosi, esponenti politici e intellettuali che hanno fatto la storia dell’Egitto. E anche i cantanti, come la celeberrima Umm Kulthum, storia della musica mediorientale diventata ormai una icona senza confini che con i suoi occhiali da sole e i suoi capelli raccolti compare tanto sulle pochette delle adolescenti che sui fumetti, tanto in voga tra i giovani arabi.

Una zona del Cairo - la città dei morti - ignorata dai turisti e dai giornalisti spesso frettolosi, ma non dall’Unesco che già nel 1979 l’ha inserita nella lista dei siti considerati patrimonio dell’Umanità. Motivo che ha portato storici e architetti, avvertiti dell’arrivo dei bulldozer, a prendere carta e penna per scrivere una petizione online contro le demolizioni in corso, molto spesso annunciate alle famiglie dei seppelliti anche solo con un giorno di preavviso, costringendole ad affannarsi per mettere in salvo il possibile dei resti dei loro familiari.

Le autostrade tagliano la piana delle piramidi di Giza

I progetti faraonici di Al-Sisi rischiano di avere un’eco che va ben oltre la Città dei morti e rischia di farsi sentire anche al parco archeologico di Giza, visitatissimo dai turisti che vogliono farsi una foto sullo sfondo delle piramidi di Cheope e di Chefren, che ora rischiano di essere separate da due grandi autostrade a otto corsie - una in direzione Nord e l’altra in direzione Sud - che dovrebbero tagliare in tre una delle piane più fotografate del mondo, dove gli archeologici giurano ci sia ancora da scavare tantissimo. O almeno ci sarebbe da scavare se una delle due autostrade non passasse, o passerà, a 2,5 km dalla piramide di Cheope e l’altra nei pressi di quella a gradoni di Saqqara, un luogo di incessanti scoperte per gli archeologi che a settembre vi hanno trovato una trentina di sarcofagi. Solo lo scorso anno, sempre qui era stata rinvenuta la tomba di un funzionario vissuto 4400 anni fa, un reperto peraltro di straordinaria bellezza, i cui motivi decorativi si sono conservati con una sorprendente luminosità. Una bellezza che difficilmente sarebbe venuta alla luce se trent’anni fa Mubarak fosse riuscito in un’impresa molto simile a quella di Al-Sisi, resistendo alle proteste internazionali e dell’Unesco che allora invece impedirono al deposto presidente di alterare la zona archeologica di Giza.

Trent’anni dopo, la pandemia del secolo pare stia aiutando (e non solo in campo archeologico) il nuovo ra’ìs a portare avanti il progetto senza creare troppo rumore, visto che Al-Sisi è riuscito finora a tenere quasi top secret il suo piano, approfittando del lockdown per fare comparire le ruspe in quei siti archeologici dove una volta c’era una media di 50 comitive all’ora.

Affaccio sul viadotto

Le ricette di Al-Sisi -solo superficialmente dal sapore nasseriano -sembrano comporre un menù dominato da strade, sempre di più, sempre più larghe e sempre più in alto, come il viadotto in costruzione nel governatorato di Giza che sfiora letteralmente le finestre di decine di condomini.

Un progetto che sta già diventando realtà, come mostrano le foto – per alcuni aspetti «fantozziane» - che ritraggono le abitazioni di centinaia di residenti che potrebbero tranquillamente accedere al viadotto uscendo dalle finestre di casa, qualora rischiassero, a lavori finiti, di lasciarle aperte, sfidando l’inquinamento che già senza l’invadente viadotto è insopportabile. A chi ha provato coraggiosamente a mugugnare, rivendicando il diritto all’ora d’aria (certamente non pura, ma almeno non uno scarico di ossido di carbonio) il regime ha risposto che quelle case non avrebbero mai dovuto essere costruite, quindi poco importa se ormai in questi condomini sono cresciute già diverse generazioni di cairoti. Una risposta in linea con la campagna nazionale portata avanti dal Ministero degli interni per demolire le cosiddette costruzioni informali, ovvero quelle sorte illegalmente su terreno statale negli anni di Mubarak, epoca in cui a farla da padrone nel settore edilizio sono stati pochi pesci grossi che sono riusciti ad aggirare tanti ostacoli confidando sulla legge sovrana della corruzione. Un tema, quello della crisi degli alloggi, legato a doppio filo al progressivo mutamento dell’urbanistica non solo del Cairo, ma dell’intero Egitto, come analizzato da Yahia Shawkat nel suo ultimo libro Egypt’s Housing Crisis.1

Secondo quanto riportato dalla testata online MadaMasr, l’unica realmente indipendente in Egitto, nel maggio 2020 il governo ha imposto un divieto di sei mesi per la costruzione di nuovi edifici in diversi governatorati del Cairo, Giza ed Alessandria. E al contempo è proseguita la battaglia contro le costruzioni informali in diverse zone del paese. Basta vedere il video girato nel villaggio di Seriaqous, dove le autorità hanno demolito 22 costruzioni, mentre i residenti lanciavano pietre sui bulldozer in azione. Notizie simili, a settembre, dal governatorato di Port Said: nel giro di 48 ore sono state demolite una quarantina di costruzioni; 28 nel governatorato di Suez, 63 ad Assiut. Visto il clima di generale repressione, molti si sono limitati a borbottare e chi ha osato protestare è molto spesso finito prima in manette e poi davanti a un tribunale militare. Nel tentativo – un po’ goffo – di tendere la mano ai tanti che vivono in abitazioni “fuorilegge”, nell’aprile del 2019 il presidente Al-Sisi ha ratificato una legge che permette una sorta di riconciliazione con i residenti radicati in quelle case che il regime non vorrebbe fossero mai state costruite. Una strategia dai risultati deludenti, visto che solo una persona su dieci ha risposto all’offerta del governo, ritenuta un percorso tutto in salita e per lo più oneroso per le tasche dei contribuenti che guardano sbalorditi al preventivo dei progetti colossali che l’ex generale Al-Sisi vuole realizzare.

Una capitale nel mezzo del deserto, con l’aeroporto più grande del Paese sul nuovo palazzo presidenziale; il teatro dell’opera più grande del Medio Oriente; il grattacielo più alto di tutta l’Africa; un parco che ambisce a fare impallidire Central Park per fare correre quei bambini che in Egitto nascono circa ogni 15 secondi. E poi la nuova cattedrale – già sorta nel 2018, 50 anni dopo quella inaugurata da Nasser e il patriarca Cirillo nell’attuale centro storico. Secondo il presidente sarà la più grande chiesa cristiana del Medio Oriente.

Le ambizioni insomma abbondano, ma non altrettanto si può dire delle risorse che non sono come l’acqua in una cascata (per altro non si sa neanche dove prendere i 650 mila metri cubi di acqua al giorno necessari – sulla carta – a servire la nuova capitale). Chiedere ai cittadini - che dieci anni dopo la rivoluzione di piazza Tahrir si sentono trattati più che altro come sudditi - di stringere la cinghia per portare quello che the Economist ha definito «un elefante nel deserto» non sarà facile, anche perché in un Paese dove un impiegato guadagna in media 70 dollari a settimana viene da chiedersi chi potrà fra qualche anno permettersi case da 700 dollari al metro quadro. “Si rischia la distruzione della classe media” profetizza il celebre politologo dell’università del Cairo Hassan Nafaa che per la sua voce fuori dal coro ha già pagato un caro prezzo.2