Il caso di Joseph Daher: tra diritti negati e crescita autoritaria

La vicenda che ha visto protagonista Joseph Daher, politologo e docente di Relazioni internazionali presso l’Università di Losanna, a cui non è stato rinnovato il contratto, accende una luce sulle gravi limitazioni accademiche e alla libertà di parola in Europa rispetto alla solidarietà con la popolazione palestinese. Orient XXI lo ha raggiunto.

L'immagine mostra un uomo con capelli corti e una barba leggera, che indossa una giacca blu e una camicia bianca. Si trova di fronte a uno sfondo rosso. L'uomo appare in un contesto di colloquio o discussione, con un'espressione attenta e coinvolta.
Joseph Daher ospite della trasmissione 19h30 sull’emittente RTS, maggio 2023.
Fotogramma

Il professor Joseph Daher, politologo, docente di Relazioni internazionali presso l’Università di Losanna ed autore di numerosi testi sulla rivoluzione siriana, la Palestina e il partito di Dio libanese, avrebbe apprezzato un trattamento differente da parte dell’istituzione accademica in cui si è formato e ha insegnato fino a poche settimane fa. Visiting professor dall’agosto 2020 e consulente di molteplici organizzazioni internazionali, tra cui UNICEF e UNESCWA, lo scorso 31 gennaio Daher ha ricevuto una lettera in cui si comunicava che il suo contratto non sarebbe stato rinnovato, sebbene l’insegnamento del suo corso - “Storia delle Relazioni internazionali post-1945” - fosse già stato programmato per il primo semestre del 2025. Tuttavia, l’insolita tempistica con cui la comunicazione è avvenuta, il suo supporto alle manifestazioni studentesche e le precedenti frizioni con l’ateneo per il suo attivismo a sostegno della Palestina fanno sembrare la semplice conclusione di un rapporto professionale un’ipotesi assai debole.

Avrei preferito che qualcuno mi contattasse per discutere faccia a faccia la decisione anziché ricevere un’algida comunicazione per iscritto, ma così non è stato. Non mi è stata data l’occasione di chiarire la mia posizione, né di potermi difendere.

riferisce Daher a Orient XXI.

La vicenda di Joseph Daher

Lo scorso ottobre, l’istituto ha aperto un’indagine disciplinare nei confronti di Daher per aver prestato il suo tesserino universitario ad una studentessa nel maggio 2024, nel pieno dell’occupazione dell’ateneo svizzero per chiedere il boicottaggio accademico delle università israeliane. Un comportamento che se da un lato non rispetta le regole sulla sicurezza dell’ateneo, dall’altro è più comune di quanto si possa pensare. Una petizione online firmata da colleghe e colleghi dell’università svizzera sostiene infatti che si tratti di “un’irregolarità minore di cui molti colleghi sono certamente colpevoli e che non giustifica in alcun modo la reazione sproporzionata dei vertici accademici”1.

Più recentemente, il Consiglio di facoltà di Scienze politiche e sociali ha votato all’unanimità l’approvazione di una risoluzione che condanna la procedura arbitraria del “presunto mancato rinnovo” del contratto del professore2. Come se non bastasse, l’indagine non sarebbe stata condotta in maniera trasparente e quando i legali di Daher hanno richiesto di estenderla, così da poter raccogliere le testimonianze dei colleghi e degli studenti, l’università si è limitata a respingere l’istanza e a comunicare al diretto interessato che non sarebbero stati presi provvedimenti, ma che il suo contratto in scadenza alla fine di gennaio non sarebbe stato rinnovato. Contattata dal giornale online The New Arab per chiarire la sua posizione, l’università non ha rilasciato commenti che offrissero maggiori dettagli sull’episodio3.

Ho appreso questa decisione attraverso una lettera di uno studio legale, a cui l’università si è rivolta per comunicarmi che avevo commesso una grave violazione nel posto di lavoro ed ero venuto meno ai miei obblighi professionali.

spiega il docente svizzero-siriano.

Fin dallo scoppio della “guerra” a Gaza, in cui hanno perso la vita 48.348 persone4, ma con stime riportate sulla rivista scientifica Lancet che arrivano fino a 186.000 decessi5, Daher ha attivamente sostenuto le iniziative promosse dai gruppi studenteschi dell’ateneo per chiedere il boicottaggio accademico, la fine delle ostilità e il ripristino dei diritti inalienabili del popolo palestinese alla luce di un clima globale prevalentemente sordo alle loro richieste. Preso di mira dagli organi di stampa francesi e svizzeri, nel marzo 2024 il docente sarebbe stato segnalato ai vertici dell’istituto affinché verificassero la sua competenza per parlare e intervenire pubblicamente sul tema della Palestina.

Esiste questo regolamento interno per cui si possono rilasciare dichiarazioni pubbliche in qualità di docente dell’ateneo solo se si è competenti in quel ramo di studi. Nessun membro della direzione accademica mi ha contattato per riferirmi questa segnalazione, che ho scoperto solo grazie ad alcuni colleghi che avevano preso parte ad una riunione con il responsabile del Dipartimento di scienze politiche e ricerca sociale.

Ben oltre il “caso isolato”

Quello del professor Daher non è un caso isolato, ma è, semmai, indicativo di un fenomeno discriminatorio più ampio che ha riguardato molteplici figure professionali e individui a tutte le latitudini. Stando all’ultimo rapporto pubblicato dal CAIR, il Council on American-Islamic Relations, nel 2023 le discriminazioni sofferte dalla comunità musulmana negli Stati Uniti hanno raggiunto il picco più alto dall’inizio delle rilevazioni con 8.061 casi – la metà dei quali registrati negli ultimi 3 mesi del 2023 – a fronte dei 5.156 dell’anno precedente. Il 15% delle segnalazioni ha riguardato le discriminazioni sul posto di lavoro, il secondo valore più alto, con numerosi casi di uomini e donne licenziati per aver espresso solidarietà nei confronti del popolo palestinese6.

In Australia, la Federazione Sionista (ZFA) ha segnalato Mary Kostakidis, giornalista della SBS, alla Commissione sui Diritti Umani australiana per aver violato, a suo dire, la legge sulla discriminazione razziale dopo la condivisione di un post7. In Gran Bretagna, Richard Medhurst è stato il primo giornalista ad essere stato arrestato, ed accusato, in base all’articolo 12 della legge britannica sull’anti-terrorismo, per cui rischia sino a 14 anni di carcere8. In Germania, la scrittrice palestinese Adania Shibli non ha potuto prendere parte alla Fiera del Libro di Francoforte, in cui avrebbe dovuto ricevere il premio LiBeraturpreis per il suo romanzo Un dettaglio minore9. Mentre l’opera dell’artista palestinese Mohammed al-Hawajri, Guernica Gaza, esposta durante la quindicesima edizione della mostra d’arte contemporanea documenta, è stata pesantemente contestata perché trasmetterebbe un messaggio antisemita10. Recentemente, la Frei University di Berlino e la LMU di Monaco hanno cancellato degli incontri in cui sarebbe dovuta intervenire la Relatrice Speciale ONU sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati dal 1967, Francesca Albanese, adducendo come motivazione l’attuale clima d’insicurezza e la rigida polarizzazione sul tema11.

Questi ed altri casi ancora mostrano la trasversalità di un fenomeno repressivo, legittimato ai più alti livelli istituzionali, che mina il pluralismo e aggredisce qualsiasi forma di contestazione delle politiche israeliane, dal genocidio in corso all’espansione del progetto coloniale nei territori occupati. Soprattutto, mettono a dura prova il carattere democratico dei modelli liberali occidentali, sempre più orientati verso una difesa a oltranza delle procedure democratiche anziché preoccuparsi delle pratiche diffuse all’interno delle società contemporanee che, invece, rivelano un lato decisamente più autoritario. Il segnale di questa regressione è stato colto dal rapporto annuale V-Dem sulle democrazie, da cui emerge un notevole peggioramento dei livelli di libertà d’espressione nel mondo. Oltre ad un aumento delle aumento delle autocrazie chiuse, passate da 22 a 33 nell’arco di un decennio, il rapporto rileva anche un incremento dei paesi che hanno intrapreso un processo di trasformazione in senso maggiormente autoritario – tra cui alcuni membri UE come Grecia, Ungheria e Polonia12.

Analogamente, i rapporti pubblicati dalla relatrice ONU per la protezione della libertà d’espressione, Irene Khan, da Amnesty International e dallo European Civic Forum restituiscono una fotografia allarmante in cui le manifestazioni sono represse brutalmente, i post online vengono cancellati per l’utilizzo di termini sgraditi come “Gaza” o “genocidio”, e la libertà accademica e d’espressione risultano compromesse dal continuo tentativo di associare le contestazioni al sionismo con l’antisemitismo13.

Le limitazioni alla libertà di parola in Europa

In nome della sicurezza e dell’ordine pubblico, in paesi come Francia, Germania, Italia, Belgio, Polonia e Paesi Bassi, sono state proibite bandiere, disegni, slogan, indumenti ed altri simboli riconducibili alla Palestina. In alcuni casi, secondo Amnesty International, sono state comminate delle sanzioni ai genitori dei minori coinvolti in proteste e manifestazioni, soprattutto quelli musulmani. In altri casi, come in Francia, sono state approvate leggi che proibiscono preventivamente le manifestazioni a favore della Palestina, contravvenendo a quanto stabilito dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani e dalla Convenzione Internazionale sui Diritti Civili e Politici, secondo cui la libera circolazione di idee è garantita senza interferenze, tranne nei casi in cui inciti alla discriminazione e alla violenza.

Secondo l’Anti-Defamation League (ADL), nel 2023 i casi di antisemitismo negli Stati Uniti hanno raggiunto il picco mai registrato dal 1979 con 8.873 incidenti, a fronte dei 3.698 dell’anno precedente (+140%). I principali incidenti si sono manifestati sotto forma di attacchi fisici, vandalismo, intimidazioni e minacce, ma il rapporto evidenzia anche che gli aumenti più significativi si sono verificati in Francia (+1000%), Canada (+800%) e Australia (+738%)14. Figure apicali dell’esecutivo israeliano, a cominciare dal primo ministro Benjamin Netanyahu, hanno sottolineato la minaccia rappresentata da un crescente sentimento d’odio verso gli ebrei, sui quali verrebbero gettate accuse false e infamanti non per ciò che fanno, ma per il semplice fatto di essere ebrei15. Analogamente, la Commissione per l’immigrazione, l’assimilazione e la diaspora ha proposto l’adozione di una legge che imponga sanzioni economiche a chi diffonde l’antisemitismo, nonché la promozione del sionismo all’interno delle università di tutto il mondo come un valore da proteggere.

Sebbene i dati pubblicati da ADL dipingano uno scenario assai preoccupante, Shane Burley e Naomi Bennet hanno condotto una revisione completa del rapporto e hanno concluso che solo la metà degli 8.873 incidenti registrati negli Stati Uniti nel 2023 sono da considerare come antisemiti16. Rafael Medoff, direttore del David S. Wyman Institute for Holocaust Studies, ha altresì osservato la distanza tra l’FBI e ADL nel categorizzare un incidente. Come nel caso di Eddie Manuel Nunez Santos, un cittadino peruviano accusato di aver inviato 150 allarmi bomba a sinagoghe, scuole, ospedali, aeroporti ed altre istituzioni pubbliche nel settembre 202317. Secondo gli investigatori, l’uomo avrebbe agito spinto dalla vendetta dopo aver chiesto invano alcune foto sessualmente esplicite a delle studentesse conosciute in rete e non avrebbe nulla a che vedere con l’antisemitismo. Per ADL, invece, la matrice antisemita del gesto non è mai stata messa in discussione e il caso è stato inserito nel computo finale degli episodi di antisemitismo registrati annualmente18.

Le responsabilità mediatiche e la “frattura empatica”

Se numeri e dati non sempre favoriscono la comprensione dei fenomeni sociali e la loro esatta dimensione, appare sempre più evidente che la diffusione di una narrazione mediatica ingessata, che interpreta la solidarietà per la Palestina come il sintomo di una crescente ondata di antisemitismo, stia contribuendo alla produzione di posizioni sempre più rigide e polarizzate, che ostacolano la ricerca di una soluzione duratura e giusta. Una soluzione che, se mai dovesse profilarsi all’orizzonte, avrebbe più chance di essere condivisa se accompagnata da un impegno concreto per una nuova sintassi storica fondata sul riconoscimento empatico dell’altro.

Nel libro Olocausto e Nakba. Narrazioni tra storia e trauma, Amos Goldberg e Bashir Bashir hanno osservato come la condivisione empatica del trauma altrui abbia l’effetto di introdurre un elemento di disgregazione in una narrazione nazionale traumatizzata. Questo non significa che la guerra dei cent’anni in Palestina, per dirla con il titolo di un libro di Rashid Khalidi, possa essere risolta da una frattura empatica, “ma piuttosto che la narrazione storica di questi traumi debba essere interrotta empaticamente al fine di de-feticizzare le narrazioni nazionali di tipo tradizionalmente redentivo”19.

Rimane da capire come si possa coltivare una sincera condivisione empatica se una delle due storie traumatiche è spesso delegittimata, oscurata e criminalizzata. Non risolverà il “conflitto” tra israeliani e palestinesi, ma darebbe un senso compiuto all’espressione “mai più”.

19Olocausto e Nakba. Narrazioni tra storia e trauma, p.53