Reportage

Il Kurdistan iracheno diviso e in un vicolo cieco

Cinque anni dopo la clamorosa vittoria del “sì” al referendum per l’indipendenza, il governo regionale del Kurdistan (GRK) arranca, stretto nella morsa di un’economia in difficoltà, e risente delle fratture politiche che scuotono la nazione irachena, oltre che delle ingerenze di Turchia e Iran. Orient XXI ha raccolto le opinioni di importanti figure politiche curde e irachene, nonché di alcuni esperti.

Un meeting del PDK a Erbil, un anno dopo il referendum per l’indipendenza.
Laurent Perpigna Iban/Hans Lucas

Dal nostro inviato speciale a Erbil.

Per molti curdi d’Iraq, la data del 25 settembre avrebbe dovuto essere scritta a lettere d’oro nella mitologia del loro popolo. Il referendum per l’indipendenza, organizzato quel giorno e mantenuto malgrado i ripetuti avvertimenti della “comunità internazionale”, era solo la realizzazione di un vecchio progetto. E il momento scelto dal suo architetto, il leader del Partito Democratico del Kurdistan (PDK), Massoud Barzani, non era casuale: la capitale della regione autonoma, Erbil, si era infatti affermata come città internazionale, accogliendo per diversi anni un incessante viavai di diplomatici e vertici militari provenienti da ogni parte del mondo.

L’Organizzazione dello Stato Islamico (Daesh), allora alle porte della regione autonoma del Kurdistan iracheno, era unanimemente percepita dagli attori regionali come una minaccia esistenziale e preoccupava ben oltre i confini mediorientali. Bagdad, considerata troppo instabile, aveva finito per crescere nell’ombra della capitale del Kurdistan iracheno.

Tuttavia, il contraccolpo fu pari all’audacia delle élite curde: solo pochi giorni dopo l’annuncio dei risultati (92,7% a favore del “sì”), Bagdad imponeva una stretta di bilancio alla regione autonoma. Ma soprattutto, il 16 ottobre 2017, lo Stato iracheno invadeva i territori contesi. Quell’ampia striscia di terra a sud della regione autonoma, passata militarmente in mano ai curdi grazie alla vittoria della guerra contro Daesh, non era una mera questione simbolica: la riconquista di Kirkuk, importante snodo petrolifero al centro dell’Iraq, da tanti anni agognato dai curdi, rappresentava di per sé una feroce punizione.

Nell’arco di 48 ore, il GRK perdeva quello che aveva conquistato in diversi anni. E le colonne di veicoli di civili – curdi per la stragrande maggioranza – in fuga da Kirkuk all’arrivo dei combattenti sciiti delle Forze di mobilitazione popolare, avrebbero a lungo illustrato agli occhi del mondo il carattere disastroso di quell’iniziativa.

Una produzione petrolifera in picchiata

Cinque anni dopo, le conseguenze del referendum per l’indipendenza sono geografiche ed economiche: amputato dei territori contesi, il Kurdistan iracheno ha dovuto rinunciare alla quasi totalità delle risorse della regione di Kirkuk. Una perdita di profitto colossale dal momento che i curdi, tra il loro ritorno nel 2014 e la loro partenza improvvisa nel 2017, ne esportavano spesso il petrolio in maniera indipendente, in genere senza che Bagdad incassasse niente.

Peggio ancora, all’inizio dell’anno 2022, una sentenza della Corte suprema federale irachena ordinava al governo regionale del Kurdistan (GRK) di consegnare al governo centrale il petrolio prima della vendita. Queste pressioni si sono concretizzate all’inizio dell’estate con la rescissione di ben quattro contratti stipulati tra la regione autonoma e alcune compagnie straniere.

Il futuro non sembra molto roseo: secondo alcuni documenti governativi rivelati dalla Reuters, la produzione di petrolio nel Kurdistan iracheno potrebbe dimezzarsi entro il 2027 “se non vengono rapidamente realizzati degli investimenti”. Uno scenario a dir poco negativo, mentre il debito del GRK ammonta a circa 38 miliardi di dollari (39,22 miliardi di euro) e le esportazioni di petrolio rappresentano l’85% del budget della regione.

Tutto questo in un contesto già rovente sin dal referendum per l’indipendenza. La situazione economica si è deteriorata. All’aumento del prezzo del carburante e delle derrate alimentari va aggiunto un tasso di disoccupazione particolarmente elevato (17,4% nel 2021), soprattutto nel settore privato. Le cose non vanno meglio nel pubblico, dove si registrano importanti ritardi nel pagamento degli stipendi.

Lacune che le autorità curde giustificano con ritardi nei pagamenti provenienti da Bagdad. Tuttavia, il quadro sembrerebbe più complesso, come spiega il ricercatore indipendente Ariz Kader:

  Ci sono le ritenute budgetarie applicate in risposta a contratti stipulati indipendentemente dalla regione, e poi c’è il fatto che il Kurdistan iracheno annovera più funzionari rispetto alla media nazionale, il che fa aumentare il volume di budget richiesto. Inoltre, la regione continua a rivendicare il 17% del budget nazionale, un calcolo stabilito dalla Costituzione del 2005, sebbene la popolazione sia aumentata solo lievemente rispetto al resto del paese, che ha conosciuto invece un vero e proprio boom demografico1.

Altro elemento aggravante, la corruzione che incancrenisce l’economia: “La corruzione non fa semplicemente parte del processo, ma è quasi l’intero processo a essere basato sulla corruzione, spiega Ariz Kader. I profitti di questi partenariati sono spesso oscuri. Si pensi per esempio al contratto “segreto” cinquantennale firmato con la Turchia per l’utilizzo dell’oleodotto di Ceyhan, che permette di esportare le risorse dal Kurdistan iracheno verso i mercati esteri”.

Per completare il quadro, Human Rights Watch ha denunciato le autorità curde per aver condannato a sei anni di prigione nel 2021 sei uomini (giornalisti e attivisti) che nell’autunno 2020 avevano coperto o partecipato a manifestazioni contro i ritardi nel pagamento degli stipendi dei funzionari.

L’accentuarsi della pressione turca

Oltre a queste difficoltà di ordine interno, il Kurdistan deve affrontare delle minacce esterne e in particolare quelle della Turchia. Partner storico del PDK, Ankara ha intensificato la lotta contro le migliaia di combattenti del Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK) trincerati sul territorio curdo-iracheno. Disseminati tra i Monti Qandil e in una serie di basi vicino alla frontiera turca, sono ormai bersaglio fisso di Ankara da diversi decenni.

Una strategia di intimidazione che dal 2019 ha assunto una nuova dimensione: una “guerra di logoramento” condotta in privato, lontano dagli sguardi e, a quanto pare, con la tacita approvazione del PDK. Secondo fonti irachene, la Turchia possiederebbe ormai quasi un centinaio di punti di appoggio militari sul territorio del Kurdistan, con la presenza permanente di un contingente di almeno 4000 soldati.

Interrogato a tal proposito, Falah Mustafa, pezzo grosso delle relazioni internazionali del GRK e consigliere personale agli affari esteri del presidente Netchirvan Barzani, è stato chiarissimo:

Vogliamo avere buoni rapporti di vicinato con la Turchia e coltiviamo un partenariato incentrato sul rispetto e sui vantaggi reciproci nel quadro dei nostri scambi. Non siamo mai stati una minaccia per la Turchia e di conseguenza non vogliamo che il nostro territorio sia utilizzato come tale. Il problema è la presenza del PKK nella nostra regione, e questa è anche la scusa e la motivazione che la Turchia usa per compiere attacchi sul nostro territorio. Il PKK è un problema interno turco che si è riversato in Kurdistan, divenendo così un problema anche per noi.

Un discorso che contrasta nettamente con quello dell’altro organo fondamentale della politica curdo-irachena, l’Unione patriottica del Kurdistan (UPK), espresso dal parlamentare Karwan Gaznay:

Stando alle leggi internazionali, la sovranità dell’Iraq deve essere uguale a quella di ogni altro Paese. È terribile veder scorrere sangue curdo a causa di bombardamenti turchi. Nessuno può negare che questi attacchi costituiscono una minaccia diretta per la stabilità della regione e devono essere fermati.

L’attacco attribuito alla Turchia nella stazione balneare di Zakho nel nord del Kurdistan iracheno lo scorso luglio, che ha provocato nove vittime civili, non ha fatto che versare benzina sul fuoco, gettando il PDK in una situazione critica. “È facile dire che è l’Iraq a essere attaccato e che quindi sta all’Iraq difendersi e adottare misure per evitare simili escalation. Per me questo è un chiaro segno di debolezza da parte del GRK” osserva Arthur Quesnay, ricercatore all’Università Paris-I Panthéon-Sorbonne.

D’altra parte, nemmeno a Bagdad la risposta è stata molto franca, e il primo ministro Mustafa Al-Khadimi sembra essersi trincerato dietro un atteggiamento lassista. “In pratica, la sola barriera all’offensiva turca viene dalle PMF2, e in particolare dai gruppi più radicali pro-iraniani come Kataib Hezbollah e Asaib Ahl al-Haq. Ampiamente dispiegati nel Sinjar e nella piana di Ninive, colpiscono di tanto in tanto le basi turche. E d’altronde anche i turchi compiono attacchi con droni contro le basi logistiche di quei gruppi siccome non vedono di buon’occhio un loro avvicinamento sostanzialmente tattico con il PKK presente nella zona” aggiunge Arthur Quesnay.

I pericoli di fratture interne

A ciò si aggiunge il fatto che nel Kurdistan iracheno la distribuzione dei ruoli tra i due grandi partiti, il PDK a Erbil e l’UPK a Sulaymaniyya, ha i suoi limiti, data la frequenza con cui scoppiano tensioni e divergenze tra le due forze politiche.

Uno scenario non nuovo – il PDK e l’UPK si sono già affrontati in una feroce guerra negli anni ’90 – che compromette la stabilità della regione. Il PDK controlla i due terzi settentrionali del Kurdistan iracheno, l’UPK un terzo a sud. Il che spiega la vicinanza politica del PDK con la Turchia e dell’UPK con l’Iran. Inoltre, il GRK non è mai riuscito a unificare le proprie forze armate, i peshmerga, di cui oltre il 70% è posto direttamente sotto il comando della sua formazione politica. “Finché ogni partito avrà le proprie forze armate, ci sarà sempre il rischio che le controversie politiche siano risolte militarmente”, sottolinea il ricercatore franco-iracheno Adel Bakawan. Una questione che sembra del resto preoccupare le cancellerie occidentali: dietro le quinte, si sono infatti tenuti alcuni mesi fa dei colloqui in seno al consiglio consultativo (in presenza di rappresentanti americani, tedeschi, britannici e dei Paesi Bassi) per “nazionalizzare” i peshmerga.

E benché nulla lasci presagire un imminente scontro armato – che i due partiti cercheranno a ogni costo di evitare – la strategia del riavvicinamento a Bagdad orchestrata dopo il flop del referendum ha a sua volta prodotto una serie di complicazioni. Nello specifico, l’implosione dell’Islam sciita iracheno, che ha diviso i rivali curdi in due fazioni opposte. Mentre il PDK si univa al campo sovranista del turbolento Muqtada al-Sadr, l’UPK, storicamente nella sfera d’influenza iraniana, si univa al Quadro di coordinamento, piattaforma politica che riunisce le fazioni sciite pro-iraniane.

In un simile contesto, l’attribuzione della carica di presidente della Repubblica irachena riservata ai curdi diventa un argomento estremamente delicato: l’impossibilità di raggiungere un accordo tra i due partiti potrebbe spingerli a presentare candidati distinti. Cosa che è già successa nel 2018 quando ha vinto Barham Salih dell’UPK, appoggiato dal Quadro di coordinamento.

“Affetto da tutti i mali che affliggono l’Iraq”

Insomma, a cinque anni di distanza dal referendum, il Kurdistan iracheno è in grado di delineare una propria traiettoria? “Ad oggi non sappiamo che intenzioni ha il GRK” prosegue Adel Bakawan. Nel 2017 organizzava un referendum per l’indipendenza e pochi mesi dopo tornava in modo spettacolare a Bagdad. Una volta difende l’identità curda, un’altra quella irachena di fronte alla presenza iraniana. Detto altrimenti, l’assenza di una politica chiara costituisce una grande debolezza e il corpo diplomatico del GRK risente delle divisioni tra Erbil e Sulaymaniyya. In pratica, il Kurdistan è affetto da tutti i mali che affliggono l’Iraq”.

Ciononostante, la base elettorale dei due colossi della politica curda è rimasta intatta, e anzi la loro popolarità ha fatto sì che si affermassero nelle ultime due elezioni legislative come i due principali schieramenti a livello nazionale.

Intanto, col senno di poi, quel 25 settembre 2017 genera delle letture profondamente diverse: “Avremmo potuto attendere e ascoltare la comunità internazionale, soprattutto quando questa garantiva una fine della proroga. Con quel referendum il Kurdistan è tornato indietro di diversi anni, soprattutto per quanto riguarda i rapporti diplomatici della regione con i membri della comunità internazionale” ribatte Karwan Gaznay. Nelle file del PDK, Falah Mustafa punta il dito contro la totale mancanza di cooperazione con Bagdad, sia prima che dopo il referendum:

Quando è stato deciso il referendum, di fatto non volevamo cambiare niente, era chiaro che non avremmo dichiarato l’indipendenza dall’oggi al domani. Volevamo avviare con Bagdad dei negoziati sani e pacifici, e la popolazione curda ci aveva incaricato di farlo. Purtroppo, però, Bagdad non era pronta al dialogo e ha scelto di utilizzare la forza per risolvere le divergenze politiche.

Insomma, esiste o no una soluzione per il futuro? Falah Mustafa prosegue:

Siamo nati con l’identità curda nel cuore e nella mente, abbiamo scelto un Iraq federale e abbiamo fatto del nostro meglio per viverci. Il federalismo implica la condivisione del potere e delle ricchezze ma purtroppo Bagdad non sembra pronta per questo passo. Se le cose non cambiano, probabilmente la leadership curda ripenserà la propria posizione e propenderà a favore del confederalismo3. Nel frattempo, ci auguriamo che Bagdad si renda conto che questa fase è un’opportunità per intavolare un dialogo costruttivo con Erbil.

Conclude così Karwan Gaznay:

In quanto curdi noi abbiamo, come ogni altro popolo di questo pianeta, tutto il diritto ad avere un passaporto curdo, ma per questo dobbiamo assolutamente impegnarci. È un vecchio sogno che non si realizzerà mai se prima non gettiamo le fondamenta: un tenore di vita elevato per il popolo e poi l’istituzione di uno Stato.

1Tra l’invasione americana nel 2003 e oggi, la popolazione irachena è passata a livello nazionale da 23,9 a 34,9 milioni

2Forze di mobilitazione popolare.

3I partiti curdi affiliati ideologicamente al PKK militano per il confederalismo, a cui aggiungono l’aggettivo “democratico”. Il confederalismo, soprattutto se è davvero democratico, lascia più spazio all’espressione di opinioni contrastanti e tiene conto delle differenze etniche, religiose, di genere ecc. Sono state le esperienze della Comune di Parigi, dei consigli operai in Europa e specialmente in Russia negli anni 1918-1920, o ancora l’esperienza della guerra civile spagnola del ’36 a spingere Abdullah Öcalan ad abbandonare qualunque idea di Stato accentratore.