Il soft power iraniano e la sua rete di milizie

La relazione tra l’Iran e la sua rete ha cambiato pelle nel corso degli ultimi 40 anni. L’“Asse della Resistenza”, un modello decentralizzato e dispersivo a guida iraniana, tiene insieme soggetti diversi ma uniti da una “narrativa di resistenza”. Le cellule di Hezbollah, o in certa misura degli Houthi, agiscono quindi in modo indipendente, accomunate però da obiettivi strategici simili o connessi. Houthi, Hamas ed Hezbollah e le loro milizie “vincono non perdendo”, mentre Israele specularmente “perde non vincendo”.

L'immagine mostra un incontro tra tre uomini. Due di loro sono seduti su un divano, mentre il terzo, che indossa un abbigliamento tradizionale, è seduto di fronte a loro. Sul muro si trova un ritratto e, accanto, è presente una bandiera iraniana. L'atmosfera sembra formale e il gruppo appare impegnato in una discussione.
Incontro dell’ayatollah Ali Khamenei con Ismail Haniyeh e Al-Nakhaleh di Hamas. 31 luglio 2024
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Il governo israeliano ha letto l’attacco di Hamas contro Israele del 7 ottobre 2023 come espressione di una più ampia “minaccia iraniana”, indicando in Teheran la “mente” stessa dell’operazione, di cui il movimento palestinese, che da quest’ultima viene finanziata, sarebbe stato il “braccio” esecutore.

In realtà, già dal successivo novembre l’agenzia Reuters, citando alcuni funzionari iraniani1, riportava come le autorità della Repubblica islamica non fossero state messe al corrente dai palestinesi dell’attacco, e che anche per questo motivo la Guida Suprema Ali Khamene’i, accogliendo Ismail Haniyeh – il capo del Politburo di Hamas, assassinato qualche mese dopo da Israele proprio a Teheran - , gli avrebbe ribadito il suo sostegno, senza però entrare direttamente in un conflitto che gli iraniani non avevano messo in conto.

L’operazione militare israeliana su Gaza ha in questi mesi stimolato le “reazioni in solidarietà” ai palestinesi di diversi attori non statali: dapprima la stessa Hezbollah, che già dall’8 ottobre ha iniziato a colpire il nord di Israele; poi gli Houthi in Yemen, che da metà ottobre hanno preso di mira le navi che passavano per il Golfo di Aden, ponendo il cessate il fuoco a Gaza come condizione per interrompere gli attacchi; ed infine le milizie sciite irachene, impegnate a partire dalla fine di novembre in uno sporadico lancio di razzi verso le basi americane in Iraq.

Come riportato da Politico2 lo scorso febbraio, tuttavia, sono gli stessi funzionari della CIA ad aver espresso dubbi sulla attuale capacità iraniana di tenere sotto controllo le azioni di queste milizie. Anche secondo Washington, Teheran finanzia, fornisce armi e addestramento a queste milizie, avendo quindi una certa capacità persuasiva, ma nella gran parte dei casi non ha un ruolo nella decisione delle azioni militari da intraprendere, e quindi una modesta capacità di dissuasione.

Questa capacità è ulteriormente diminuita con l’assassinio nel 2020 di Qassem Soleimani, che aveva una propria capacità di “richiamare all’ordine” le varie milizie. Dalla sua morte, il controllo iraniano soprattutto su quelle irachene sembra ridotto. Come funziona, quindi, la relazione tra l’Iran e quei movimenti in Siria, Iraq, Yemen e Libano, che sono note, forse non del tutto propriamente, come sue proxies?

Il posizionamento dell’Iran all’indomani del 1979

All’indomani della rivoluzione islamica del 1979, il posizionamento internazionale dell’Iran dell’Ayatollah Ruhollah Khomeini cambia in modo repentino: da “isola di stabilità” - come lo definì il presidente americano Jimmy Carter in visita a Teheran, pochi mesi prima dell’inizio dei tumulti di piazza contro lo Shah, fedele alleato statunitense – a fervente Repubblica islamica, fondata in parte sull’antagonismo a Stati Uniti ed Israele.

Il regime islamico si ritrova così a dover gestire due imperativi, apparentemente in contraddizione l’uno con l’altro: da un lato la necessità di far fronte all’indebolimento del suo esercito e dei suoi sistemi d’arma, tutti di produzione americana, per via dello stop ai pezzi di ricambio da parte di Washington; dall’altro la volontà di esportare la rivoluzione oltre i confini dell’Iran, anche nell’ambizioso tentativo di promuovere una “terza via” rispetto ai due blocchi della Guerra Fredda.

Due imperativi che si scontrano subito con la guerra contro l’Iraq di Saddam Hussein, che attacca l’Iran nel 1980. Il conflitto è per l’Iran una “palestra di realtà”: getta una luce sulla postura sempre più ostile dei suoi vicini, allarmati da un eventuale ampliamento dell’afflato rivoluzionario di cui la Repubblica islamica è portatrice (poiché in grado di minacciare i poteri costituiti, cioè le autocrazie militari della regione), e rende subito evidente l’isolamento internazionale di Teheran, che negli 8 anni di guerra incontra molte difficoltà nel reperire all’estero i sistemi di difesa necessari a far fronte ai missili iracheni, e subisce anche le sanzioni americane.

Un simile contesto fa fermentare, in un paese appena emerso da una rivoluzione popolare, alimentata dall’idealismo e dall’auto percezione di irriducibilità tipiche di queste fasi, la convinzione di avere pochi alleati, e dover quindi sviluppare una dottrina strategica sui generis, per proteggere i propri interessi di sicurezza nel turbolento contesto regionale.

L’inferiorità militare rispetto ai vicini, e ancor più rispetto ad Israele e agli Stati Uniti, esemplificata dai traumi della guerra con l’Iraq, spinge quindi Teheran verso due direttrici che caratterizzeranno il successivo quarantennio, volte ad esercitare un certo livello di deterrenza nei confronti dei nemici, ed in particolare contro i propositi – talvolta espliciti, talvolta impliciti – di “regime change” manifestati dalle varie amministrazioni americane.

La prima è lo sviluppo, a partire soprattutto dagli anni ’90, di un proprio programma di missili balistici, a cui poi si affiancherà un programma nucleare, percepito come ambiguo da una parte della comunità internazionale; la seconda è invece l’intelaiatura di una serie di capacità asimmetriche.

Non potendo competere con i propri rivali sul piano della forza militare convenzionale, Teheran investe sulla sua “esternalizzazione” diffusa. Sul sostegno, addestramento e finanziamento di una serie di attori militari non statali nella regione, attraverso cui esercitare la propria deterrenza in modo imprevedibile e decentrato, mantenendo un margine di deniability, la possibilità, cioè di non assumersi la piena responsabilità delle loro azioni, proprio per via del loro grado di autonomia.

Una “rete di reti orizzontali”

Più che delle proxies, le varie milizie filo iraniane sono per dei veri e propri alleati, o talvolta attori che con l’Iran condividono unicamente un nemico comune, nonché una narrativa di “resistenza”. Messe insieme, danno luogo ad una “rete di reti orizzontali”, o a quelle che Andreas Krieg3 del King’s College di Londra ha definito “eterarchie”, sistemi in cui gli elementi costituenti non hanno un rapporto gerarchico, e possono essere classificati alla luce di diverse categorie.

Nei primi anni dopo la rivoluzione, coincidenti con la guerra Iran-Iraq, i khomeinisti al potere erano più concentrati sull’esportazione della rivoluzione, e quindi sulla creazione di milizie prettamente sciite, che condividessero la loro cosmologia. Sul piano operativo, è in questi anni che appaiono quelli che più in avanti verranno conosciuti come “foreign fighters”: migliaia di afghani sciiti di etnia hazara vengono reclutati dai generali iraniani per andare a combattere in Iraq, spesso in cambio di denaro o di un permesso di residenza premio. Gli afghani verranno poi richiamati a combattere trenta anni dopo in Siria, inquadrati nelle brigate Fatemiyoun, dirette da Ali Reza Tavassoli, ucciso nel 2015.

Sul piano più politico, il neonato Ufficio dei movimenti di liberazione, precursore di quelle che poi diventeranno le Forze Quds dei Guardiani della Rivoluzione (Irgc-Qf), investe negli anni ‘80 anzitutto nei paesi - come l’Iraq o il Libano - con cui l’Iran può vantare relazioni secolari, grazie alle connessioni con le rispettive comunità sciite. Il soft power iraniano, in questa dimensione geografica, fa leva soprattutto sulla comune appartenenza religiosa, sulle “convinzioni e sulla fede”, come disse lo stesso Khomeini. In Asia centrale invece, l’Iran farà leva soprattutto sulla comune lingua e sulla comune appartenenza all’Iranzamin, allo spazio ancestrale della civilizzazione persiana.

Negli anni ’80 vedono quindi la luce l’organizzazione irachena Badr, fondata in territorio iraniano nel 1982 dall’ayatollah Mohammad Baqir Al Hakim, come braccio militare del Supremo Consiglio islamico iracheno, per poi diventare nel 2003 un vero e proprio partito politico iracheno; ed Hezbollah, milizia e dal 1992 partito sciita libanese, la cui relazione con l’Iran è forse la più stretta in assoluto.

La nascita di Hezbollah

Hezbollah nasce, ad inizio degli anni 80, per respingere l’invasione israeliana del sud del Libano, un’area a grande maggioranza sciita. Ufficiali khomeinisti tornano nella valle della Beqaa per addestrare nuove milizie locali, ad immagine dei Guardiani della Rivoluzione iraniana, che pochi anni prima avevano scacciato lo Shah proprio dopo aver svolto addestramento nella stessa valle, in piena guerra civile, in compagnia delle neonate milizie dell’altro movimento sciita - cugina ed allo stesso tempo “incubatrice” di Hezbollah - di Amal. Hezbollah, dopo aver respinto gli israeliani due volte, di cui l’ultima nel 2006, nel tempo manterrà la sua mission statement di “difensore del sud del Libano. Tuttavia, secondo lo schema elaborato in un report4 di Rand Corporation, il “partito di Dio” all’interno del network iraniano ricade anche nel variegato sottoinsieme di “milizie deterrenti”, cioè quelle che di tanto in tanto “molestano” e dissuadono i rivali regionali dell’Iran dal creare un equilibrio di potenza ad esso sfavorevole.

Vengono chiamate in causa in situazioni che rischino di coinvolgere direttamente l’Iran, per alleggerirne le responsabilità ed evitare l’escalation. La partecipazione alla guerra in Siria ha trasformato Hezbollah da un punto di vista militare, accrescendo a dismisura sia il suo arsenale che le proprie capacità di combattimento, rendendola oggi la più potente e militarmente preparata milizia del mondo.

Ciò gli ha permesso attorno al 2015 di vedersi delegare dei compiti dall’Iran: è il meccanismo “train the trainer”, grazie a cui l’addestramento ed il trasferimento di armi ai ribelli yemeniti Houthi è stato gestito non da Teheran ma proprio da Hezbollah.

Il partito libanese, rispetto agli anni 90, ha anche sviluppato negli ultimi anni dei canali autonomi di approvvigionamento, ed a parere dell’analista Sanam Vakil la sua esistenza prescinde dal “padrino” iraniano, essendosi ormai integrato nel contesto politico libanese, ed avendo ormai una capacità di influenza transnazionale.

Così come l’invasione americana aveva aperto all’Iran le porte dell’Iraq, terreno fertile per il nutrimento di varie milizie unite dall’obiettivo di spingere al ritiro gli statunitensi, la primavera araba gli ha aperto le porte dello Yemen: i ribelli Houthi esistono dal 1992 e con l’Iran non condividono nemmeno lo sciismo duodecimano - essendo questi ultimi soprattutto zaiditi - ma sicuramente condividevano l’ostilità ad Israele e quella all’Arabia Saudita, che per securizzare quello che percepiva come il proprio “cortile”, ha condotto senza successo una lunga campagna di bombardamenti in Yemen.

Gli Houthi sono forse il soggetto ideologicamente, militarmente, economicamente e politicamente più autonomo, e meno controllabile dall’Iran. Che può anche in questo caso persuaderli con l’invio di armi ma raramente dissuaderli da azioni funzionali al raggiungimento dei loro obiettivi, primo tra tutti il loro riconoscimento come attori local e regionali.

Le relazioni tra Iran e Hamas

Se non fosse per la travagliata relazione tra Iran ed Hamas, nonché per l’assenza di un concreto rapporto di subalternità a Teheran, anche le azioni di quest’ultima - incluso il 7 ottobre - potrebbero ricadere nel sottoinsieme dei “deterrenti”, interpretate quindi con le lenti che individuano un “burattinaio iraniano”. Teheran ha invece relativamente da poco riallacciato relazioni con la costola palestinese della Fratellanza Musulmana, a cui nel 2015 aveva tolto i finanziamenti per via delle opposte posizioni nel conflitto siriano e in quello yemenita – con Hamas che ha sostenuto da una parte i ribelli e dall’altra il governo filo-saudita, mentre l’Iran ha appoggiato Bashar al Assad e gli Houthi. Diverso il discorso per il Jihad islamico palestinese, il cui braccio armato delle Brigate al Quds è stato quasi integralmente messo in piedi dall’Irgc.

Gradualmente, a partire dagli anni 90 e ancor più dopo l’11 Settembre 2001, la volontà di esportare la rivoluzione lascia il posto al pragmatismo e alla necessità di far fronte all’isolamento, “raggruppando” quindi dei partner con cui proteggere interessi comuni. In questo periodo Teheran investe sul suo soft power, più in un’ottica di antagonismo rivoluzionario che non di messianismo religioso.

Al di là delle fondazioni religiose, degli enti caritatevoli, delle imprese di (ri)costruzione, delle scuole e degli ospedali, che rafforzeranno in diversi paesi l’idea delle milizie filo iraniane come fornitori di un discreto livello di welfare, spesso in assenza di uno Stato centrale efficiente, Teheran inizia ad investire su una miriade di canali radio televisivi in tutta l’area MENA, tradotti in decine di lingue, che veicolano la sua visione del mondo.

All’indomani dell’invasione statunitense dell’Iraq, Teheran mette ad esempio in piedi Al Alam tv, in lingua araba, che non solo alimenta una narrazione ostile all’intervento Stati Uniti ma vede per la prima volta la comparsa locale del citizen journalism: decine di telefonini e videocamere vengono distribuite da Teheran ai giovani iracheni, per permettergli di registrare qualunque evento di cronaca, connesso all’invasione americana, che potesse mettere Washington in imbarazzo. In un discorso del novembre 2006 è proprio Ali Khamene’i a parlare di “soft power”, citando anche il fondatore dell’espressione, il politologo Joseph Nye, nell’ambito di un più ampio discorso sulle “guerre culturali” che l’Iran deve fronteggiare, contro quella definita come una “Nato culturale”.

Tra “targeters” e “milizie stabilizzatrici”

Secondo lo schema sopracitato, nel network iraniano vi sono poi le milizie irachene che assolvono la funzione di “targeters”, cioè che hanno come obiettivo il ritiro delle truppe statunitensi dall’Iraq e compiono azioni per sollecitarlo, o per rendere più alto il costo della permanenza. In questo sottoinsieme ricadono Asaib ahl al Haq (AAH), guidata da Kais Al Qazali, e Kataib Hezbollah (KH), guidato da Abu Mahdi al Muhandis, fino al suo assassinio nel 2020. Entrambe le formazioni sono scissioniste del movimento sadrista, fondato da Muqtada al Sadr. Da una costola di AAH è poi nata nel 2013 Harakat Hezbollah al Nujaba, la prima milizia irachena a combattere a fianco di Bashar al Assad in Siria.

Nel sottoinsieme delle “milizie stabilizzatrici” ricadono invece le milizie che più sono dipendenti dall’Iran, costituendone di fatto dei reparti inquadrati nell’Irgc: le già citate brigate Fatemioun, formate da afghani, e quelle Zeinabioun, formate da pakistani sciiti, entrambe utilizzate con funzioni di “stabilizzazione” in Siria.

Ufficialmente motivati dalla necessità di proteggere i santuari sciiti dalla furia dell’Isis e dei movimenti qaedisti, i combattenti di queste brigate erano in realtà mossi soprattutto da motivazioni politiche ed economiche. Anche il PUK, l’Unione Patriottica del Kurdistan, è stato usato per funzioni simili in Iraq, ed è importante segnalare come quest’ultimo sia l’unico movimento ad avere buoni rapporti sia con gli Stati Uniti che con l’Iran.

Nel sottoinsieme delle milizie “di influenza” - che permettono all’Iran di esercitare influenza politica oltre i propri confini, ancora senza coinvolgimento diretto - ricadono ancora formazioni come AAH, KH, Hezbollah e l’organizzazione Badr, che sono anche attori politicamente integrati nei rispettivi panorami nazionali, gestendo di volta in volta dei ministeri nei governi a cui prendono parte.

Il sostegno iraniano a queste formazioni è forse il più profondo da un punto di vista finanziario e di condivisione d’intelligence, specie nel caso di Hezbollah. Sono le più complesse da fronteggiare non solo per ragioni militari ma proprio perché un conflitto aperto contro di esse, vista la loro integrazione nelle arene politiche nazionali, aumenterebbe il rischio di guerre civili. Dal 2019, per decreto del Primo ministro iracheno Abdul Mahdi, le milizie irachene sono state integrate ufficialmente all’Esercito nazionale: ciò ha fatto aumentare il margine di deniability dell’Iran.

L’“Asse della Resistenza”: vincere non-perdendo

Se da un punto di vista strategico il network punta alla decentralizzazione, sul terreno l’”Asse della Resistenza” a guida iraniana si riflette nel tentativo di controllare una fascia geografica continua, da Teheran a Beirut, che passi da Ahwaz, per il sud di Baghdad, per Basra, Kerbala e Najaf in Iraq, per il sud di Deir Ezzor e per Damasco in Siria, fino all’Anti Libano e alla Valle della Beqaa.

La relazione tra l’Iran e la sua rete ha cambiato pelle nel corso degli ultimi 40 anni, con velocità sempre maggiore a partire dall’11 Settembre 2001 e poi dall’inizio del conflitto siriano, percepito a Teheran come l’anticipazione di una sempre più vicina minaccia militare ai suoi confini. A maggior ragione dopo il famoso discorso sull’”Asse del Male”, tenuto da G.W. Bush nel 2002, che ha fatto maturare in Iran la convinzione che l’Isis e le formazioni qaediste – che per “forma mentis” sono anzitutto anti-sciite – fossero usate dagli Usa contro di esso.

Il modello decentralizzato e dispersivo messo in piedi dall’Iran, di cui è in qualche modo “garante” e “primus inter pares”, tiene insieme soggetti diversi ma uniti da una “narrativa di resistenza”, fornendo agli iraniani anche una “profondità strategica”. Sempre secondo Andreas Krieg, essi avrebbero tradotto il concetto occidentale di “mission command”, portandolo dal livello operativo a quello strategico, appaltando talvolta la loro intera politica di sicurezza a questo network.

Le cellule di Hezbollah, o in certa misura degli Houthi, agiscono quindi in modo indipendente, accomunate però da obiettivi strategici simili o connessi: come visto nei mesi successivi al 7 ottobre, possono colpire il nemico in modo simultaneo, da luoghi diversi, senza il consenso iraniano, e con unità sufficientemente piccole da esser difficilmente neutralizzabili con la pura forza militare.

Se Tel Aviv si affida alla potenza di fuoco, movimenti come Houthi, Hamas ed Hezbollah non misurano le proprie performances in termini di perdite o avanzamento sul terreno. In questo senso, come spesso viene ricordato, queste milizie “vincono non perdendo”, mentre Israele specularmente “perde non vincendo”: se il network impone dei costi e delle perdite sostanziose, l’esercito israeliano non può costruire una narrativa “vincente”.

Evocando altri ambiti, questo network funziona come una blockchain, un registro di blocchi concatenati, nella misura in cui la sua decentralizzazione garantisce contro la manipolazione esterna, che non può quindi minacciarne la struttura eliminando un “blocco”. Ed è anche per questo che gli assassini di diversi generali iraniani, di comandanti di Hezbollah come Fouad Shoukr o nel decennio passato di Imad Mughniyeh e Mustafa Badreddine, o dei leader o comandanti palestinesi come Saleh Al Arouri, e di politici come Ismail Haniyeh, non hanno modificato le capacità, gli obiettivi e la resilienza di questo network.