In Sudan, “due progetti che non hanno nulla a che vedere con la democrazia”

Dopo due anni e mezzo di guerra civile, il Sudan appare oggi diviso in due: l’ovest è sotto il controllo delle Forze di sostegno rapido e il resto del Paese è nelle mani dell’esercito. I due governi paralleli recentemente insediati mancano tuttavia di legittimità, malgrado l’apparente facciata democratica.

Manifestanti con bandiera del Sudan, in mezzo a fumi di incendi e tensione.
Manifestazioni in commemorazione del colpo di stato, 25 ottobre 2022.
© Augustine Passilly

Completo blu e spilla con i colori del Sudan, Mohamed Hamdan Dagalo, detto “Hemetti”1 ha prestato giuramento domenica 30 agosto come presidente del Consiglio presidenziale dell’alleanza Tasis (“Fondazione”, in arabo), realizzando così in parte la profezia che alcuni sudanesi avevano formulato nei primi mesi dopo l’insediamento del governo guidato dall’economista Abdallah Hamdok, all’indomani della rivoluzione del dicembre 2018. “Hemetti diventerà presidente”, mormoravano per le strade di Khartoum i cittadini che avevano finalmente rinunciato alle loro speranze di libertà, pace e giustizia.
All’indomani del rovesciamento del presidente Omar al-Bashir, a capo di una dittatura militare-islamista durata trent’anni, civili e militari si sono divisi il potere nel corso di una laboriosa transizione democratica. Purtroppo, i generali Abdel Fattah al-Burhan e Hemetti, che allora ricoprivano rispettivamente la carica di presidente e vicepresidente del Consiglio Sovrano del Sudan, hanno preso le redini dello Stato durante il colpo di Stato del 25 ottobre 2021. Ma l’alleanza di circostanza tra il primo, capo delle Forze armate sudanesi (SAF), e il secondo, capo delle Forze di Supporto Rapido (RSF), è andata in frantumi, e i due generali hanno precipitato il loro Paese in una guerra di portata senza precedenti dall’indipendenza, nel 1956.

Dopo due anni e mezzo di combattimenti accaniti, due governi paralleli si fronteggiano. A 800 chilometri a est di Khartoum, Port Sudan, il principale sbocco marittimo della nazione, ospita le autorità filo-esercito denominate “Amal” (“speranza”). A ovest, nell’immensa regione del Darfur, il “governo di pace” di Tasis (che ha accolto con favore l’attacco con droni perpetrato il 9 settembre dalle RSF contro Khartoum...) ha temporaneamente sede a Nyala, capitale dello Stato del Sud Darfur. Per il momento è stata annunciata la nomina di tre ministri: il ministro degli Affari esteri, dell’Interno e della Sanità. Due entità che hanno in comune il fatto di ridurre i civili a facciate destinate a conferire potere politico a dei signori della guerra assetati di potere e di ricchezze presenti in questo territorio aurifero.

Civili presi in ostaggio da entrambe le parti

Le linee del fronte rimangono mutevoli, ma la separazione si è cristallizzata dalla riconquista di Khartoum da parte delle truppe regolari, nel mese di marzo 2025. Mentre gli uomini di Hemetti avevano conquistato la maggior parte dei quartieri della capitale storica sin dallo scoppio del conflitto, l’esercito ha lanciato una controffensiva alla fine del 2024, costringendo le RSF a ritirarsi nella loro roccaforte del Darfur. Queste ultime controllano anche gran parte della vicina regione del Kordofan, dopo il patto siglato con Abdelaziz al-Hilou, un politico navigato che regna incontrastato su un vasto territorio collinare, i Monti Nuba, che si estende sugli Stati del Kordofan del Sud e del Nilo Azzurro. È anche un fervente sostenitore di un Sudan laico che ha prestato giuramento il 30 agosto, come vicepresidente di Tasis.

“I due governi paralleli consolideranno la divisione de facto che è una realtà ormai da mesi”, chiosa il ricercatore sudanese Hamid Khalafallah. “Le autorità filo-SAF non forniscono più servizi alle zone conquistate dalle RSF. Da parte loro, i paramilitari impediscono il trasporto di merci nei territori controllati dall’esercito. Le due fazioni puniscono così i civili che vivono nelle regioni che sfuggono al loro controllo”, conclude lo specialista di governance inclusiva e mobilitazione in Sudan. Le autorità di Port Sudan sono arrivate al punto di lanciare una nuova moneta, destinata al nord, all’est e al centro del Paese. Inoltre, per gli abitanti della zona ovest del Sudan è impossibile rinnovare il passaporto, sostenere gli esami scolastici e universitari, ottenere un certificato di nascita o di morte.

Aladdin Nugud, portavoce di Tasis, spiega che “mancano ogni tipo di servizio, un tempo garantito dalle autorità federali. Ciò include le cure contro il cancro e i vaccini, con il conseguente ritorno di malattie come il morbillo e la poliomielite”. Una situazione che giustifica la necessità di creare nuove strutture amministrative in queste zone, definite da Nugud “uno strumento politico per imporre la pace”. Questo chirurgo è stato uno dei primi rivoluzionari all’interno dell’Associazione dei professionisti sudanesi, punta di diamante della rivolta popolare contro Omar al-Bashir. Nugud è ora una delle poche figure civili ad aver aderito all’alleanza pro-RSF, insieme all’ex ministro della Giustizia sotto Hamdok, Nasredeen Abdulbari, e al politico Mohamed Hassan al-Ta’aishi, appena nominato primo ministro. La maggior parte degli altri membri di Tasis proviene da gruppi armati del Darfur, traumatizzati dalle sofferenze inflitte dagli islamisti dell’era di Omar al-Bashir.

Il gioco d’equilibrio del capo dell’esercito

Spesso passati dal Partito del Congresso Nazionale (PNC), bandito dal governo di Hamdok, sono vicini ai Fratelli Musulmani e hanno iniziato il loro ritorno nei ranghi dello Stato sin dal colpo di Stato. Ora non nascondono più il loro sostegno all’esercito, né la loro volontà di riconquistare il potere, come ha dichiarato al microfono dell’agenzia di stampa Reuters2 il loro leader Ahmed Haroun, ricercato dalla Corte penale internazionale (CPI) per crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Quella di luglio è la sua prima intervista dopo anni. La nomina di ex dirigenti del PCN all’interno del governo con sede a Port Sudan, i cui ministri vengono annunciati a singhiozzo da maggio, fa storcere il naso ad alcuni alleati di Al-Burhan.

“Le dichiarazioni degli islamisti non ci interessano. Alcuni sono pronti a rinunciare al Darfur, ma questa retorica è molto pericolosa”, afferma Mohieldin Gumma, dall’ufficio del vicepresidente del Consiglio Sovrano. “Abbandonando El-Fasher, l’ultimo capoluogo del Darfur che resiste alle RSF, le truppe fedeli al generale Abdel Fattah al-Burhan aprirebbero la strada a un nuovo assalto alla capitale”, avverte il consigliere. Al-Burhan, dopo aver affidato l’11 luglio il ministero della Giustizia a un ex dirigente del PCN e posto il 16 agosto le milizie islamiste sotto il controllo dell’esercito, si è così prestato a un difficile gioco di equilibrio tra sostenitori dalle diverse sensibilità. “Alcuni islamisti hanno anche aderito alle RSF”, precisa tuttavia Mohieldin Gumma, riferendosi in particolare al capo delle operazioni, il generale Osman Mohamed Hamid Mohamed.

Lo stesso Hemetti deve il suo grado di generale al dittatore deposto che ha utilizzato le RSF – ufficializzate nel 2013, dopo aver operato come milizie chiamate “Janjawid” dall’inizio degli anni 2000 – per reprimere la ribellione contro l’emarginazione sociale, politica ed economica del Darfur. Fin dal principio, le milizie hanno commesso ogni tipo di abuso, bruciando interi villaggi e compiendo stupri. Crimini praticati su larga scala nell’ambito dell’attuale conflitto. Gli Stati Uniti accusano inoltre le RSF di aver commesso un genocidio contro il popolo Massalit nel Darfur occidentale nel 2023.

“Il governo delle RSF ha fallito”

“Il governo di Tasis deve affrontare sfide importanti, come l’assenza di un sistema bancario affidabile, le difficoltà finanziarie, la fragilità delle istituzioni economiche e la mancanza di fiducia della popolazione civile in questa autorità”, osserva Salma Abdalla, ricercatrice sudanese in scienze politiche. “Le RSF hanno fallito nel governare tutte le zone che hanno conquistato dall’inizio della guerra”, ricorda inoltre il docente universitario Hamid Khalafallah.

Sin dalla creazione di Tasis, nel mese di febbraio, la comunità internazionale ha condannato ogni tentativo di istituire un governo alternativo. “Organismi internazionali come l’ONU e l’Unione Africana sono composti da Stati membri che rifiutano un precedente che provocherebbe la formazione di un governo con legittimità sulla scena internazionale”, sottolinea Kholood Khair, direttrice del think tank Confluence Advisory. La mancanza di legittimità è evidente anche nelle autorità di Port Sudan, ereditate dal colpo di Stato.

“Di recente, le SAF hanno cercato di reintegrare il Consiglio di pace e sicurezza dell’Unione Africana, ma gli Stati membri non sono favorevoli per lo stesso motivo: non vogliono creare un precedente che riconosca un nuovo colpo di Stato”, aggiunge Kholood Khair. Nel tentativo di guadagnare credito all’estero, Al-Burhan ha nominato il funzionario delle Nazioni Unite Kamal Idris alla carica di primo ministro, incaricandolo di formare un governo di tecnocrati, senza però convincere gli attivisti filodemocratici. “Purtroppo, ogni parte cerca di stabilire un’autorità in grado di legittimare le proprie azioni, e da poter utilizzare nella propria azione militare rafforzando la propria posizione”, si rammarica Jafar Hassan, uno dei leader della coalizione Sumud (“resilienza”).

Una coalizione che deve mettersi alla prova

L’alleanza di civili, guidata da Abdallah Hamdok, ha l’obiettivo di formare un fronte contro la guerra. Tuttavia, la stessa presenza dell’ex primo ministro è associata al fallimento della transizione democratica. Inoltre, nonostante i discorsi su una presunta inclusione, Sumud è guidata principalmente dai leader politici della coalizione delle Forze per la libertà e il cambiamento, che hanno condiviso il potere con i militari dopo il rovesciamento di Omar al-Bashir e il massacro del sit-in rivoluzionario del 3 giugno 20193.

“I leader di Sumud sostengono di voler costruire un’ampia coalizione nazionale per porre fine alla guerra, ma, in realtà, sono impegnati con attori politici esterni, in modo molto opaco”, lamenta Ahmed Elmubarak, membro dei comitati di resistenza. “Questo contribuisce a screditarli e a suscitare sospetti sulle loro motivazioni”. Le sedi locali distribuite su tutto il territorio hanno svolto un ruolo centrale nella rivoluzione e poi nelle manifestazioni contro il colpo di Stato. Oggi hanno sospeso le loro attività politiche, preferendo concentrarsi sull’aiuto alle popolazioni intrappolate dalla guerra, che nutrono e curano volontariamente attraverso la rete delle sale operatorie di emergenza.

“L’approccio migliore consiste nel condurre un’azione politica sincera, coraggiosa e inclusiva, che dia priorità alla giustizia”, secondo Ahmed Elmubarak. “In questo modo, si può porre rimedio alla nostra maggiore vulnerabilità, ovvero l’assenza di un governo civile legittimo. Una debolezza che continua ad essere sfruttata da attori esterni come gli Emirati Arabi Uniti, principali sostenitori delle RSF, che vorrebbero assumere il controllo delle risorse economiche e del futuro politico del Sudan”.

Gli Stati Uniti e l’Unione africana tentano di uscire dall’impasse

“I governi di Port Sudan e Nyala funzionano in modo speculare”, aggiunge Mahdi Berair, uno dei fondatori di Sumud. “Autorità presiedute da criminali di guerra che si ammantano di una apparente facciata democratica. Sono progetti autoritari che non hanno nulla a che vedere con la democrazia. Le ambizioni sfrenate dei due generali hanno già provocato la peggiore crisi umanitaria del pianeta, con oltre 12 milioni di civili costretti a fuggire, di cui 4 milioni rifugiati all’estero.

La metà dei 50 milioni di sudanesi soffre di insicurezza alimentare e 2 milioni sono affetti da carestia o potrebbero esserlo a breve. “Senza un rapido progresso negli sforzi volti a porre fine alla guerra, in particolare i negoziati condotti sotto l’egida degli Stati Uniti e che coinvolgono l’Egitto, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, il Sudan rischia di passare da una guerra aperta a una situazione di stallo prolungato e a una divisione di fatto”, avverte la ricercatrice Shewit Woldemichael in una nota4 per l’International Crisis Group. Dopo il fallimento alla fine del 2023 del processo di Gedda guidato dagli Stati Uniti e dall’Arabia Saudita, Washington sta cercando di rilanciare nuovi negoziati. L’inviato statunitense per l’Africa, Massad Boulos, ha quindi incontrato segretamente Al-Burhan in Svizzera l’11 agosto.

Allo stesso tempo, l’Unione Africana e l’Autorità Intergovernativa per lo Sviluppo (IGAD), che riunisce otto paesi dell’Africa orientale, hanno riavviato in agosto le consultazioni con i civili delle diverse fazioni con l’obiettivo di avviare un dialogo politico. Un’impresa rischiosa, dato che le SAF si dicono pronte5 a continuare la guerra per cento anni. Dal canto loro, i rivali vengono accusati dal laboratorio di ricerca umanitaria della scuola di sanità pubblica di Yale6 di trasformare la città di Al-Fashir7 in una “fabbrica di morte”.

1“Piccolo Maometto”, NdT

2Khalid Abdelaziz, “Insight : Sudan’s Islamists plot post-war comeback by supporting army”, Reuters, 25 luglio 2025

3Patricia Huon, “Au Soudan, les gens pleurent les morts et la perte du sit-in”, Libération, 18 giugno 2019

4Shewit Woldemichael, Sudan’s RSF Proclaims Parallel Government, Raising Threat of Partition, International Crisis Group, 2 settembre 2025

5“Sudanese army rejects negotiations with RSF, vows to fight on”, Sudan Tribune, luglio 2024

6“Human Security Alert : RSF Walls-In El-Fasher’s Population to Prevent Escape”, Yale School of Public Health Humanitarian Research Lab, 28 agosto 2025.

7Al-Fāshir è la capitale dello stato del Darfur Settentrionale, nel Sudan, nel nord-ovest del paese, nella regione del Darfur. NdT

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