Mohamed Salama ci guida nella vecchia città di Mosul, l’antica capitale dell’organizzazione dello Stato Islamico (IS) (2014-2017), nel Nord-Ovest dell’Iraq. Lo studente in letteratura stenta a nascondere il suo malessere nel percorrere le arterie fatiscenti del quartiere di Al-Mansurieh. «È la prima volta che torno qui dopo più di un anno» dice. «Rivedere queste strade e gli effetti della guerra mi ricorda l’odore dei cadaveri che hanno appestato l’aria per mesi dopo i combattimenti». A un incrocio, una statua rende omaggio alle persone che hanno rischiato la loro vita per sgomberare le tonnellate di macerie della città dopo la liberazione. “È stata un’attività molto pericolosa, ha fatto più vittime della guerra stessa. I terroristi avevano posizionato migliaia di ingranaggi esplosivi nei luoghi più perniciosi, come nei giochi per bambini o sotto ai cadaveri”, ci spiega Mohamed.
PRIORITÀ AI LUOGHI DI CULTO
Risalendo una strada nel cuore della città vecchia, arriviamo sul piazzale della grande moschea Al-Nuri. L’edificio del XIII secolo non è che il pallido riflesso della sua antica gloria. Negli ultimi giorni della battaglia di Mosul, i jihadisti intrappolati avevano bombardato questo monumento accusando la coalizione internazionale di aver distrutto un luogo di preghiera, sperando di scatenare un sollevamento popolare contro gli assalitori, senza risultato. La moschea è ormai oggetto di attenzione particolare da parte dell’UNESCO. Nell’ottobre del 2020, l’agenzia delle Nazioni Unite ha lanciato un bando per la sua ricostruzione. Nessuno a Mosul sembra esserne al corrente. Interamente chiuso, il sito sembra irraggiungibile. “Mi dispiace, ma è proibito entrare nel recinto senza un’autorizzazione ufficiale”, precisa il guardiano del posto. La base del celebre minareto, propesa verso la moschea soprannominata “La Gobba”, è interamente sigillata con teli e cinghie.
Se l’odore della morte è sparito, le infamie della guerra sono onnipresenti. Attorno alla moschea Al-Nuri, parti di mura crepate, carcasse di macchine arrugginite e tonnellate di macerie. In questo venerdì pomeriggio, giorno di preghiera settimanale per i musulmani, le strade sono quasi deserte, esacerbando l’aspetto di una città fantasma. Tuttavia, i pochi abitanti incrociati nelle viuzze della città vecchia onorano l’ospitalità leggendaria degli iracheni. “Venite a pranzare da noi, insistiamo!” propongono due fratelli che puliscono il loro taxi. Gli domandiamo se una rovina vicina è stata sminata. “Sì, potete andare, non c’è niente di cui preoccuparsi”. Della magnifica casa ottomana con le arcate, non resta altro che una parte di una facciata del cortile. In una stanza, si intravedono le tracce dello Stato Islamico: carcasse di computer, bauli che nessuno osa aprire e opuscoli sulla vita del Profeta. Come in innumerevoli dimore di Mosul, il tempo sembra immobile.
La visita continua fino alla via Faruk, una grande arteria che attraversa il centro città. A un incrocio, due poliziotti, con kalashnikov alla mano, si occupano della circolazione di fronte alla chiesa latina. Questo luogo di culto del XVIII secolo ha ugualmente subito numerosi danni, ma la sua struttura è intatta. L’Unesco si è occupata anche dei suoi lavori di riabilitazione. In questa città in brandelli, l’impazienza della comunità internazionale nel ricostruire i luoghi di culto come priorità lascia gli abitanti indifferenti, talvolta con disapprovazione: “Non abbiamo più niente, né governo, né salario, né servizi”, elenca Marwan Taher Youssef, un abitante di Mosul incontrato avanti alla chiesa latina. “Ciononostante, si ricostruisce la Moschea Grande e le chiese... Non lo capisco”, conclude. Nel 2018, a pochi mesi dalla liberazione di Mosul, il Kuwait aveva organizzato una conferenza internazionale per raccogliere cento miliardi di dollari (82 miliardi di euro) per la ricostruzione della città. Ma il fiasco fu totale: fu raccolto meno di un terzo della somma.
VISITA GUIDATA TRA LE ROVINE
Più lontano, veniamo fermati da due uomini in motorino. Dopo qualche domanda, uno dei due si presenta: Abu Fahd, il mukhtar. Un mukhtar è un rappresentante del quartiere incaricato di assicurare la coordinazione tra gli abitanti e il governo locale. Trasmette le lamentele alle autorità e fa da intermediario con le forze di sicurezza che controllano il quartiere. Con i suoi pantaloni da jogging e la sua giacca in cuoio, il suo aspetto di piccolo caid [funzionario nei paesi musulmani, N.d.R], Abu Fahd ha solo gentilezza da offrire. Innamorato della sua città, ci descrive i diversi accenti che si sentono e che cambiano, talvolta da una strada all’altra. Poi ci invita a seguirlo per una visita improvvisata.
Sotto le arcate del quartiere Kalakshi, Abu Fahd fa rivivere le ore di gloria di Mosul: “Qui, vi era principalmente un quartiere ebraico. Vedete lì, c’erano dei negozi appartenenti a famiglie di ebrei; soprattutto artigiani e orafi. È in questa casa che viveva una parte della famiglia Rothschild. La città era molto meticcia”. Poi riprende il cammino, salutando ogni passante con il suo nome. All’incrocio di una strada, tira fuori una chiave e apre un largo cancello. “Era la moschea Al-Ruba’iya”, spiega. Nel recinto, il caos è sorprendente. Una parte dell’edificio e delle case adiacenti cade in rovina. Il candelabro della sala della preghiera riposa su pietre ammassate nella corte quadrata della moschea. La grande cupola sulla sala della preghiera è stata miracolosamente risparmiata. “Al-Ruba’iya è la moschea più antica della città, racconta Abu Fahd, ma è stata ricostruita nel 1776. Guardate le pietre verdi della cupola. È la pietra di Kerbala,1 ancora un simbolo di tolleranza di Mosul”.
LE LUCI DELLA SPONDA SINISTRA
Per cambiare aria, Mohammed Salama ci porta a visitare Mosul-Est. “È un altro mondo, vedrete”. Percorriamo il “vecchio ponte” metallico che unisce le due sponde del Tigre. Sulle grandi arterie della sponda sinistra, un gruppo di motociclisti fa un giro con fanfara. Gli “Hell’s Angels” di Mosul parcheggiano a spina di pesce. “Ci riuniamo ogni venerdì per un’uscita. Siamo innamorati delle moto e delle passeggiate”, ci spiega Abdel Salam, uno dei bikers che si è fermato per bere un tè. Mosul-Est sembra lontana anni luce dalla sponda opposta. Durante la guerra, lo Stato Islamico si è rapidamente ripiegato a Ovest, limitando i combattimenti nel lato Est. Le infrastrutture hanno potuto ricominciare a funzionare più rapidamente. La sensazione di sicurezza è più forte e l’arrivo di decine di migliaia di profughi ha stimolato l’economia. La sponda sinistra ha anche la reputazione di essere meno conservatrice. Vi si trova l’università, così come numerosi caffè culturali.
Sulla strada dell’Università, Mohamed fa una deviazione tra i venditori di libri. Recupera un ordine. “Gli amori, una raccolta di poemi di Ovidio, conosci?” Innamorato della letteratura classica, divora gli autori greci e latini dalla sua infanzia. Il suo sogno è di poter riprendere gli studi in Italia. “La mia opera preferita è La Divina Commedia, di Dante, soprattutto il primo libro, L’Inferno”, afferma entusiasta. Mohamed, così come migliaia di giovani intellettuali di Mosul, ha dovuto mettere i suoi sogni tra parentesi per più di cinque anni.
Un assembramento si forma davanti alle vetrine di libri sul macadam [un tipo di pavimentazione, N.d.R]. Un capo milizia di Hashd al-shaabi, le unità di mobilitazione popolare, in maggioranza sciite, formatesi nel 2014 per combattere lo Stato Islamico, fa un giro con un giornalista, sotto l’occhio minaccioso delle sue guardie del corpo. Prova a mostrarsi vicino agli abitanti quando in realtà la reputazione della milizia nella città lascia a desiderare, dopo gli abusi contro la popolazione, in maggioranza sunnita, di cui è stata accusata al momento della guerra di liberazione. La presenza della sua guardia ravvicinata tradisce questa impopolarità. Mohamed ci porta in seguito in un luogo tipico di Mosul Est, il caffè Al-Qantara. Situato al secondo piano dell’immobile, questo rifugio culturale è una ventata di ossigeno nella città ingrigita. Le opere d’arte sono distribuite sui muri. Come sfida, gli artisti hanno anche esposto delle riviste di Daesh tra due ritratti di cantanti. Quella sera, il caffè è pieno. Un liutista presenta un oud creato a partire da materiali di recupero: alluminio e plastica. Con i suoi colori dominanti bianco e blu marino, ornato da calligrafie, il risultato è riuscito. Due giovani artisti prendono posto per suonare un repertorio classico iracheno con chitarra e clarinetto. Gli applausi esplodono. Gli spettatori non nascondono il loro stupore davanti a questa prestazione. Poco a poco la cultura riprende forza nella città martire.
Difficile dire se Mosul si rialzerà dalla terribile violenza che l’ha scossa in questi ultimi anni. Seconda città del paese, la capitale sunnita della Mesopotamia non ha che un ricordo del suo passato glorioso per consolarsi. Come molte altre grandi città del paese, non ha saputo assorbire l’afflusso massivo di nuovi abitanti durante l’esodo rurale di questi ultimi decenni. Ben più conservatori dei cittadini, questi nuovi arrivati hanno sofferto la ghettizzazione e non hanno saputo integrarsi al tessuto socio-economico della città. Queste sacche di miseria erano diventate dei vivai per il reclutamento di jihadisti avidi di conquista e potere.
“IL FARDELLO DELLA RICOSTRUZIONE”
A Bagdad non sembrano esser pronti a investire per cambiare le cose. Un analista iracheno commenta, a proposito della ricostruzione di Mosul: “Il governo centrale pensa di aver già offerto un servizio alla provincia di Ninive, liberandola dallo Stato Islamico, è sufficiente così. Il fardello della ricostruzione non è un problema nostro”.2 Tuttavia, la questione pressante sulla ricostruzione di Mosul ha numerosi aspetti. Un rapporto recente punta il dito sul fatto che i problemi strutturali che ostacolano la ricostruzione di Mosul siano anche locali. Se decine di edifici amministrativi e più di duemila case sono state ricostruite in tre anni, secondo il personale dell’ONU,3 la corruzione e la competizione tra attori regionali non ha smesso di ostacolare le operazioni di riabilitazione della città.
La presenza di attori alloctoni alla provincia di Ninive, come il blocco politico delle unità di mobilitazione popolare, continua ad alienare una parte della popolazione e a complicare il lavoro dell’amministrazione locale. Nel 2014, la corruzione e la vessazione esercitate da queste stesse fazioni identitarie sciite avevano facilitato la conquista della città da parte dei jihadisti. Sarebbe forse tempo di rompere il ciclo della violenza e della miseria per porre fine ai tormenti di Mosul.