
Nell’era dell’informazione globalizzata si tende a darlo per scontato, ma la totalità dei filmati e delle immagini del Libano e della Striscia di Gaza in questo anno di guerra è giunta sui nostri schermi grazie al coraggio di decine di cronisti locali: dipendenti di emittenti, quotidiani e radio regionali o nazionali, freelance, ma anche tantissimi giovani reporter in erba che, mentre la terra intorno a loro veniva ribaltata dalle bombe israeliane, si sono muniti di smartphone o di una telecamera per affrontare un battesimo di fuoco, una declinazione di citizen journalism durante l’assedio militare sui popoli di cui fanno parte.
Senza le centinaia di testimonianze audiovisive raccolte sul posto in questi mesi, oggi non avremmo chiare le proporzioni della tragedia palestinese, i Procuratori delle Corti internazionali non potrebbero circostanziare1 in modo così dettagliato l’accusa di genocidio nei confronti delle autorità politiche e militari di Tel aviv, e forse faticheremmo a credere a molte delle evidenze distopiche via via emerse sulla condotta bellica di Israele.
Ciò è ancor più vero se si considera che Israele stesso ha, sin dall’8 ottobre 2023, bandito l’ingresso di giornalisti nella Striscia di Gaza, concedendo solo ad alcune emittenti la possibilità di avere inviati embedded con le truppe israeliane, i cui contenuti sarebbero dovuti essere approvati2 dall’esercito. Non è quindi un caso che ad unirsi a Tshal siano stati giornalisti smaccatamente filo israeliani come Douglas Murray, immortalato in una foto mentre posa sulla poltrona su cui si era seduto Yahya Sinwar prima di essere ucciso, o Danny Kushmaro, presentatore di Channel 12, ripreso alla fine dello scorso ottobre mentre faceva personalmente saltare in aria3 una casa nel sud del Libano.
Già ad inizio novembre 2023, diversi politici israeliani avevano iniziato ad invocare l’uccisione di giornalisti palestinesi, dopo la pubblicazione di una foto che ritraeva un fotografo freelance4 in compagnia di un leader di Hamas, e la Knesset approvava5 un emendamento alla legge anti terrorismo, in cui si dispone fino ad un anno di carcere per chiunque “consumi sistematicamente online materiale di natura terroristica”, una definizione che poi verrà di fatto applicata all’emittente internazionale Al Jazeera, l’unica di questo rilievo presente a Gaza. Il 9 gennaio 2024, poi, la Corte Suprema israeliana ha rigettato la petizione6 dell’Associazione della Stampa estera, che chiedeva libero accesso7 della stampa a Gaza.
Non è possibile fare i giornalisti a Gaza, a meno di non esservi già intrappolati all’interno, come i reporters gazawi.
I numeri del “giornalisticidio”
Il prezzo dell’opera di testimonianza dell’ultimo anno è stato, quindi, estremamente alto: secondo i dati del Committee to Protect Journalists (Cpj), tra il 7 ottobre 2023 e la fine di ottobre 2024 sono stati uccisi nella Striscia di Gaza e nel sud del Libano ben 143 tra giornalisti ed operatori. E’ l’83% del totale dei giornalisti e degli operatori uccisi tra Gaza e Libano dal 1992 ad oggi, l’8% di quelli uccisi nello stesso trentennio in tutto il mondo, l’85% di quelli uccisi quest’anno a tutte le latitudini.
Questi numeri considerano soltanto i decessi la cui dinamica sia stata definitivamente chiarita, e scorrendo la lista dei 143 è già possibile farsi un’idea delle condizioni in cui l’esercito israeliano li ha costretti ad operare: nessuno è morto nel corso di scambi a fuoco tra contendenti, in situazioni cioè di crossfire, e quasi tutti sono stati uccisi nel corso di un dangerous assignment, uccisi nel corso di un bombardamento di un’area, un campo profughi o un edificio in cui si trovavano.
Sono poi almeno 5 i reporter deliberatamente assassinati dall’esercito, la cui morte è stata classificata come murder, omicidio, cioè giornalisti riconoscibili e riconosciuti dai militari come tali ma presi ugualmente di mira. Si tratta, ovviamente, di crimini di guerra.
Il primo - il 13 ottobre 2023 - è stato il libanese Essam Abdallah dell’agenzia Reuters, ucciso dall’artiglieria israeliana mentre si trovava in un punto d’osservazione su una piana nei pressi di Alma Al Shaab, nel sud del Libano, non lontano dalla Linea Blu. Abdallah era con altri sei colleghi di diverse agenzie, lontano da qualunque raggruppamento di Hezbollah, nonché a meno di 100 metri dalla postazione dei merkava dell’esercito israeliano sul promontorio antistante, che li aveva potuti riconoscere grazie ai banner identificativi della stampa localizzati anche sulla loro jeep.
Dopo meno di un’ora dal loro arrivo, un carro armato israeliano, senza nemmeno un colpo d’avvertimento, gli ha sparato addosso ben due volte, con proiettili da 120mm: la prima uccidendo Abdallah e ferendo sei colleghi; la seconda, 37 secondi dopo, distruggendo la jeep di Al Jazeera con su scritto “TV”. Oltre ad Abdallah, morto sul colpo, a farne le spese peggiori è stata Christina Assi, fotoreporter libanese dell’agenzia di stampa AFP, gravemente ferita in un attacco il 13 ottobre 2023 e in seguito al quale le è stata amputata la gamba destra nei giorni successivi. Secondo un report delle truppe Unifil che pattugliavano non lontano, fino a quel duplice strike sui giornalisti non si era udito alcuno scambio a fuoco transfrontaliero per i precedenti 40 minuti.
Il 7 gennaio 2024, non lontano da Rafah, nel sud della Striscia di Gaza, è toccato ad Hamzah al Dahdouh e Mustafa Thuraya. Il figlio di Wael Al Dahdouh (capo del bureau di Al Jazeera a Gaza) e l’amico freelance in servizio per Afp, attorno alle 10.30 del mattino secondo i testimoni - in particolare i colleghi Amer Abu Amr e Ahmed Al Bursh, rimasti poi feriti - si erano recati nei pressi di un edificio bombardato dall’esercito israeliano. Lo avevano fatto usando tutte le cautele del caso, aspettando quasi 24 ore prima di accedere al sito, temendo un secondo bombardamento. Mentre alcuni soccorritori estraevano feriti dalle macerie per caricarli sull’ambulanza, Thuraya avrebbe fatto volare a fini giornalistici, per circa quattro minuti, un piccolo drone commerciale.
Meno di mezz’ora dopo un altro drone, questa volta armato e manovrato dai militari israeliani, colpisce l’area, ferendo i sopracitati Abu Amr e Al Bursh. I due si rifugiano in un’ambulanza, che parte immediatamente in direzione dell’ospedale. A tallonarli, l’auto di Thuraya e Al Dahdouh, con all’interno anche un terzo giornalista, Hazem Rajab, e l’autista Qusai Salem, che sette minuti più tardi viene colpita da un secondo strike del drone. Muoiono i due reporter e l’autista Salem, mentre Rajab rimarrà gravemente ferito.
Una ventina di giorni prima, Al Dahdouh era già stato ferito nei pressi di una scuola di Khan Younis, appena bombardata. Con lui c’era un altro esperto cameraman di Al Jazeera, il 45enne Samer Abu Daqqa, ferito molto gravemente e spirato quasi cinque ore d’agonia8 più tardi, dopo che gli stessi soccorritori che avevano provato a raggiungerlo erano stati presi di mira dall’esercito.
Obiettivi militari
Siamo abituati a pensare che le guerre di informazione vengano combattute sul terreno dialettico, all’interno di una grande arena mediatica, tra fake news e debunking, accuse e smentite, fact checking e propaganda. Israele sembra aver imparato a maneggiare molto bene questa dimensione, adottando su un piano - ad esempio quello degli omicidi mirati in paesi terzi - la linea del non confermare né smentire, e su un altro quello delle accuse infondate - protette però dall’autorità che lo Stato israeliano in quanto tale pretende di conferirgli - verso alcune delle vittime dei possibili crimini di guerra perpetrati, tra cui appunto diversi giornalisti.
C’è però un’altra dimensione, latente, nella quale Israele sembra voler combattere la guerra di propaganda con l’“Asse della Resistenza”: è una dimensione fisica, militare. Si inscrive in un più ampio tentativo di terrorizzare - ad esempio con gli attentati tramite pagers a Beirut, o i bombardamenti di banche legate ad Hezbollah - indebolire, scoraggiare le basi di consenso, gli ambienti sociali in cui sono radicate ed interconnesse da un lato Hamas e dall’altro Hezbollah, prendendo quindi di mira anche le istituzioni civili che gestiscono, finanziano, o con cui si interfacciano.
E’ chiaramente il caso di Farah Omar e Rabih Al Maamari9 di Al Mayadeen, uccisi in un bombardamento a fine novembre 2023 nei pressi di Yaroun (sud del Libano), e degli ultimi giornalisti assassinati10 in Libano lo scorso 24 ottobre. Wissam Qassam, Mohammad Rida e Ghassan Najar sono stati uccisi di notte, mentre dormivano in una residenza temporanea per giornalisti nel sud del Libano, precisamente ad Hasbaya. I tre lavoravano per due emittenti che sostengono apertamente la narrativa di Hezbollah, cioè la Al Manar e la citata Al Mayadeen, emittente di respiro regionale, sempre in prima linea nella copertura dei conflitti.
Il triplice assassinio avviene senza nessun avvertimento prima del bombardamento, e dopo che secondo la stessa BBC i tre avevano nel pomeriggio precedente fornito tutte le informazioni necessarie - sulla loro collocazione, sui movimenti e sui tempi - alle truppe UNIFIL, che le avrebbero passate poi allo stesso esercito israeliano.
Tel aviv, in modo sempre meno velato, ha preso a considerare i giornalisti “solidali alla causa palestinese” - o anche, in qualche modo, al ruolo di Hamas o Hezbollah - come degli obiettivi militari, costruendo delle pericolosissime equivalenze - spesso assorbite dai media occidentali, che nel raccontare l’assassinio dei tre citati sopra hanno sentito l’urgenza di segnalarne l’orientamento politico, l’appartenenza a canali “legati ad Hezbollah”, come se ciò li rendesse un po’ meno giornalisti di tutti gli altri.
Ciò è ovviamente vietato dal diritto bellico e internazionale, secondo il quale nel corso di una guerra è possibile considerare obiettivi legittimi soltanto coloro che prendono parte alle ostilità. Non è quindi possibile considerare obiettivo legittimo un individuo che si ritiene affiliato - a torto o a ragione - ad un’istituzione civile legata al movimento contro cui si combatte.
Israele conosce anche questo genere di formalismi, e li ha evasi ad esempio nel caso di Al Dahdouh e Thuraya: dapprima accusati di “trasportare un terrorista che operava un drone in grado di mettere a rischio l’esercito” - cioè Thuraya -, poi definitivamente classificati rispettivamente come “operativo nell’unità di ingegneria elettronica del Jihad islamico palestines (IPJ)e ed ex comandante del battaglione Zeitun”, e “vice comandante di un battaglione di Hamas”.
A supporto, le forze armate israeliane hanno mostrato sul loro profilo X uno strano foglio, a loro dire trovato a Gaza ed attribuito al Jihad islamico, in cui erano scritte queste informazioni, in un assai inusuale - per i media legati all’IPJ - miscuglio tra arabo ed inglese. Inoltre, un familiare di Al Dahdouh ha fornito al CPJ una copia del suo attestato di laurea in Giornalismo e tecnologie dei media, dimostrando come non avesse alcun background in Ingegneria.
Il caso di Ismai Al Ghoul
Anche Ismail Sl Ghoul - 27enne di Al Jazeera estremamente popolare in tv e su Instagram, con più di 600mila follower - e Rami al Rifi sono stati uccisi lo scorso 27 luglio da un drone, mentre erano all’interno della loro macchina. Si trovavano a trasmettere nei pressi del campo profughi di Al Shati, non lontano dalla casa del leader di Hamas, Ismail Haniyeh, che era stato appena ucciso in Iran. Secondo i testimoni, anche nel loro caso un drone israeliano ha colpito una prima volta, spingendoli a mettersi immediatamente in macchina per evacuare l’area, per essere colpiti dopo appena 500 metri di tragitto.
Ancor più paradossale della precedente è la versione che le forze armate israeliane forniscono il 1 agosto, confermando di aver ucciso Ismail Al Ghoul: “nell’ambito del suo ruolo nell’ala militare di Hamas, Al Ghoul insegnava ad altri operativi come registrare le operazioni militari ed era attivamente coinvolto nella registrazione e nella promozione di attacchi contro le Idf (Israeli Defence Forces). Le sue attività sul campo erano una parte vitale della dimensione militare di Hamas”, dichiarava11 Avichai Adraee, portavoce delle Idf in lingua araba, su X. Il 3 agosto il portavoce pubblicava poi un altro documento, trovato a suo dire sui computer di Hamas a Gaza, nel quale si certificava che Al Ghoul sarebbe entrato a far parte di Hamas nel 2007, all’età di dieci anni - con tanto di assegnazione di un numero di matricola - e nella sua ala militare nel 2014. Al Jazeera ha smentito in modo deciso tutte queste accuse, esprimendo dubbi anche sull’autenticità dei documenti e difendendo la professionalità di Al Ghoul. Ma forse non ce ne sarebbe stato nemmeno il bisogno: Ismail Al Ghoul, come tutti i suoi colleghi a Gaza, era un problema perché stava con la sua presenza fornendo le prove dei crimini israeliani. E lo scorso marzo era stato già arrestato e detenuto per oltre 12 ore, mentre copriva i raid sull’ospedale Al Shifa: era stato quindi lo stesso esercito israeliano, nel rilasciarlo definitivamente, a riconoscere che fosse un giornalista, e non un membro di Hamas, dotato per giunta di numero di matricola.
Nessuna distinzione tra civili e combattenti
E’ degno di nota il fatto che Tel aviv si preoccupi sempre meno di affermarsi come un attore attento a distinguere tra militari e civili. Lo scorso giugno, intervistato da un giornalista del Guardian sui 23 reporter dell’emittente Al Aqsa - canale legato ad Hamas - uccisi sin dal 7 ottobre 2023, un portavoce dell’esercito12 aveva ribadito come non ci fosse “alcuna differenza tra lavorare per i media di Hamas ed essere membri della sua ala militare”, come non ci sarebbe nessuna differenza tra ala militare ed ala politica, nella quale sono appunto impiegati giornalisti, burocrati, infermieri, medici, educatori, consulenti, avvocati, agenti immobiliari, eccetera.
Una plateale ed esplicita indifferenza per un fondamentale principio del diritto umanitario, cioè il dovere di distinguere tra civili e combattenti. Per Israele, descritto sovente come un paese dalla solida libertà di stampa - in realtà già al 6 ottobre 2023 inserito al 101esimo posto su 18013 nell’indice elaborato da Reporter Senza Frontiere -, un giornalista che adotta una narrazione di parte, magari a sostegno di Hamas, ne è automaticamente un membro, ed al minimo un complice: è evidente come tutto ciò miri ad impedire il lavoro di testimonianza dei reporter palestinesi e libanesi.
Eppure, tutto ciò avrebbe dovuto risultare già ampiamente chiaro alla vigilia del 7 ottobre 2023. Secondo il Cpj, Israele non ha mai messo sotto indagine, né tantomeno condannato, nessun militare israeliano che abbia ucciso uno dei circa 20 giornalisti palestinesi assassinati tra il 2001 ed il 7 ottobre 2023. Durante le proteste della Grande Marcia del Ritorno, nel 2018, era stato ucciso con proiettili all’addome14 Yasser Murtaja, che indossava il giubbetto della stampa. Anche in quel caso, le autorità israeliane avevano rivendicato il fatto di aver preso di mira i reporter dell’emittente Al Aqsa.
Giornalisti colpevoli fino a prova contraria (e oltre)
Uno degli ultimi casi, risalente al 2022, aveva in un certo senso anticipato quel che sarebbe venuto dopo: Shireen Abu Aqle, giornalista palestinese con cittadinanza americana, veterana di Al Jazeera, è stata uccisa con un colpo alla testa a Jenin, mentre seguiva degli scontri tra esercito israeliano e milizie palestinesi. Nelle settimane successive all’omicidio, le Idf hanno cambiato versione varie volte: dapprima hanno negato ogni attribuzione, parlando di proiettili partiti da membri di Hamas; poi, in seguito dalla testimonianza della collega Shatha Hanaysha, che era con lei, hanno accusato le reporter di trovarsi al seguito di alcuni miliziani, esposte al fuoco israeliano; infine, smentiti dalle immagini, che ritraevano le due in solitaria, ha liquidato il caso riconoscendo “l’errore”, ed escludendo “l’uccisione intenzionale di Abu Aqle da parte di qualunque nostro soldato”.
L’indagine15 del Forensic Architecture dimostrerà esattamente il contrario: si è trattato di un omicidio extragiudiziale di una reporter, che lavorava per un canale rinomato nel mondo ma che tuttavia Israele considera - da quest’anno in modo ufficiale - di natura terroristica. Nessun soldato, come detto, è stato indagato per questo omicidio, e per tutti gli altri ai danni di reporter palestinesi, colpevoli fino (e oltre) a prova contraria.
E nessuno fu indagato nemmeno nel lontano 2002, quando a Ramallah il fotografo italiano Raffaele Ciriello fu colpito dal fuoco di un carro armato israeliano mentre gli puntava addosso una macchina fotografica, a meno di 300 metri di distanza. Nonostante ci fosse un trattato di cooperazione giudiziaria tra Italia e Israele, il caso non è stato mai nemmeno aperto, derubricato come incidente in una zona di guerra. Anche se le ostilità tra esercito israeliano e miliziani palestinesi erano a quasi 1 chilometro di distanza.
3https://today.lorientlejour.com/article/1433354/israeli-journalist-sparks-controversy-after-blowing-up-houses-in-southern-lebanon.html
4https://www.reuters.com/world/middle-east/israeli-advocacy-group-accepts-news-outlets-had-no-prior-warning-hamas-attack-2023-11-10/
6https://www.timesofisrael.com/liveblog_entry/supreme-court-rejects-fpa-petition-demanding-foreign-press-be-allowed-freely-into-gaza/
7https://www.aljazeera.com/news/2024/2/28/international-journalists-call-on-israel-and-egypt-for-access-to-gaza
8https://www.aljazeera.com/news/2024/1/14/al-jazeeras-samer-abudaqa-was-targeted-left-to-bleed-by-israel-report
10https://www.aljazeera.com/news/2024/10/25/three-journalists-killed-in-israeli-attack-in-southern-lebanon