Lgbtqi+ nel mondo arabo

L’arabizzazione della parola “queer”: tra politicizzazione e discorso identitario

L’accusa di aver importato concetti occidentali viene spesso usata per screditare le voci queer arabe e per delegittimare le loro lotte. L’argomento addotto dai detrattori è che la queerness non sia originaria della regione, ma un prestito concettuale e linguistico che dimostra l’estraneità dell’universo queer alla cultura araba. In realtà, le persone e le forme di espressione queer sono sempre esistite, ma erano assenti sul piano discorsivo. La riflessione di un’attivista Lgbtqi+ tunisina.

Foto di murales in due diverse città arabe, che recitano “Queer della rivoluzione” e “I queer sono passati di qui”.
Rielaborazione grafica su gentile concessione di Jeem.

Mi piace queer […]. In arabo queer è tradotto con “bizzarro” o “frocio”. Mi piace la parola “frocio” […]
Sì, sono frocio.1

Da quando il termine “queer” è entrato nelle nostre lingue e penne arabe, si è sempre sentito il bisogno di arabizzarlo e di spiegarlo in vario modo. A volte lo si traduce con gharib (strano), shadh (frocio), munharif (deviato) o kharij (estraneo). In contesti meno sprezzanti, invece, “queer” può diventare sinonimo di “libertino”, “non soggetto alle norme”, “non stereotipato”, “non normato”. Nonostante le numerose scelte lessicali offerte dai dizionari arabi e dai dialetti locali, la forma originale del termine resta quella più in voga. Questo articolo esplora i significati della parola inglese “queer”, in uso ormai da oltre un decennio ma ancora in grado di sollevare quesiti e discussioni. Partendo dalla storia del termine e dalle circostanze della sua apparizione nel contesto americano, vedremo le rappresentazioni e gli usi che ha conosciuto entrando a contatto con il mondo arabo.

Il margine è un legittimo luogo di protesta

Nei dizionari inglesi la parola “queer” è imparentata con “stranezza”, e in passato era usata per esprimere disapprovazione. Nella sua etimologia germanica, invece, la parola sembra più neutrale poiché usata linguisticamente per designare ciò che è “obliquo”. È all’inizio del Novecento che assume una valenza sessuale e viene utilizzata per indicare ciò che allora si considerava “deviato” rispetto a quelle che erano considerate “legittime” pratiche erotiche. Il termine ha continuato a scivolare verso la stigmatizzazione e il disprezzo fino a diventare, a metà del secolo scorso, un sinonimo esclusivo per indicare le persone omosessuali, usato per denigrare gli “uomini effeminati”. Poi, all’inizio degli anni Novanta, ha conosciuto una seconda grande trasformazione quando gli attivisti e le attiviste dei gruppi Act Up e Queer Nation2 se ne sono riappropriat*, e lo hanno riabilitato facendolo diventare sinonimo di resistenza e orgoglio.

Il processo di risignificazione del termine “queer” ha rappresentato il secondo momento più rivoluzionario nella storia del movimento dopo i moti di Stonewall, considerati la sua nascita. Per comprendere la portata rivoluzionaria di questa strategia discorsiva occorre inserirla nella sua cornice storica e collegarla ai percorsi di lotta che l’hanno preceduta. Negli anni Novanta del secolo scorso, i membri della Queer Nation distribuirono un opuscolo intitolato: “Popolo queer! Leggete bene!”. Era questo una sorta di manifesto politico che includeva, tra le altre cose, una definizione della parola “queer” e una spiegazione del perché era stata scelta. Al settimo paragrafo, inoltre, si leggeva: “Beh, la parola ‘gay’ è buona e appropriata. Ma quando noi, mithliyyat e mithliyyin, donne e uomini omosessuali, ci svegliamo la mattina, proviamo rabbia e disgusto, e non c’è niente di ‘gaio’. Perciò scegliamo di chiamarci ‘queer’. ‘Queer’ ci ricorda il modo in cui ci vede la gente”3.

Il pensiero della nuova sinistra, insieme al movimento femminista, studentesco e afroamericano, ha fornito un modello militante caratterizzato da spirito critico e tendenza al confronto. Sotto l’effetto di queste influenze, i discorsi neo-queer si sono allontanati dall’attivismo gay, che ha finito per identificarsi con il sistema di valori dominante proprio della classe media americana. Pertanto, “queer” è un concetto che ha sfidato i discorsi e le strategie omosessuali che hanno istituito la categoria “gay”: una classificazione identitaria ed essenzialista che a sua volta ha finito per creare gerarchie, offuscando le differenze e le specificità di razza, classe e genere all’interno della comunità queer.

La queerness, come posizionamento politico, mette in discussione il lavoro svolto da attivist* gay e lesbiche per integrarsi nel pensiero dominante e dissolversi nel tessuto sociale con l’obiettivo dell’accettazione e dell’integrazione. Riconoscendo invece la marginalità come luogo legittimo di protesta e messa in discussione del potere centrale, la queerness critica fortemente l’esportazione, da parte delle organizzazioni omosessuali, dell’immagine dell’uomo gay bianco affabile e “di successo” (da una prospettiva neoliberista), di solito appartenente alla classe media, come modello rispettabile per il buon cittadino americano, a scapito delle restanti categorie queer più fragili ed emarginate.

La lingua araba e il termine itinerante «queer»

Il termine “queer” ha viaggiato dal Regno Unito agli Stati Uniti per approdare nelle nostre lingue locali insieme ad una serie di concettualizzazioni altrettanto itineranti come “genere”, “fobia”, “misoginia”, “trans”. Si tratta di concetti che vanno compresi nei contesti in cui sono approdati. Ecco perché abbiamo chiesto a un gruppo di attivist* della regione arabofona, e ad alcun* alleat* e sostenitor* della causa, che cosa significhi per loro il termine “queer”.

Insaf Bouhafs, attivista algerina della sezione tunisina di Avvocati Senza Frontiere, ritiene che “la cosa più incredibile della parola ‘queer’ sia la sua musicalità e le sue piacevoli caratteristiche sonore”. Elogia inoltre la capacità di questo termine straniero di aprire dibattiti su argomenti proibiti in modo meno irritante per la gente, il che può limitare il rischio di scontro quando si affrontano questioni queer, soprattutto all’interno di ambienti misti, ovvero fuori dai circoli e dagli ambienti simpatizzanti Lgbtqi+.

Il termine è stato apprezzato dalle persone e dai gruppi queer sin dall’inizio della sua riappropriazione e trasformazione da aggettivo dispregiativo a strumento di orgoglio. Questo emerge in una vecchia dichiarazione di Gay Community News, il più prestigioso quotidiano gay americano, che nell’aprile del 1991 annunciò di aver cambiato il suo nome in Queer Community News, motivando questa scelta con il fatto che “queer è un termine alla moda, è corto, carino e anni Novanta”.

Nonostante la sua crescente popolarità sia a livello mondiale che locale, il termine non gode di un consenso totale, essendo ancora oggi oggetto di dibattito: i suoi significati sono infatti costantemente negoziati e i suoi usi locali suscitano l’entusiasmo di alcun* e le reticenze di altr*.

Omar Al-Khatib, coordinatore dei media dell’organizzazione palestinese queer Al-Qaws (Arcobaleno)4, ricorda i primi usi della parola e le tensioni che hanno caratterizzato quel periodo: “Il termine ha cominciato a diffondersi più di 10 anni fa nei circoli femministi e queer della regione in generale e in Palestina in particolare. All’epoca creava dibattito tra chi lo accoglieva e chi lo rifiutava. A spronare i sostenitori era soprattutto la dimensione politica del termine, ma c’era anche chi esprimeva delle riserve al riguardo perché non è una parola araba e non illustra abbastanza le diverse identità sessuali e di genere”.

Il passaggio da gay come classificazione identitaria a queer come posizione politica ha rappresentato per le soggettività marginalizzate il passaggio da una posizione essenzialista e giustificatoria ad una critica che si muove in una dimensione di decostruzione e messa in discussione dei regimi di oppressione. In un articolo intitolato “Il movimento di genere palestinese, dalla politica identitaria alla queerness” pubblicato nel 2011, Haneen Maikey e Taj Al-Aris, rispettivamente ex direttrice e attivista di Al-Qaws, hanno descritto così questa trasformazione: “In pratica, è queer tutto ciò che differisce dall’ordinario, dal legittimo e dal dominante. Queerness è un’identità fluida, che non riconosce una singola essenza, né un ruolo sociale o un’identità sessuale stereotipata pronta per il consumo collettivo. […] La lotta queer […] si allargherà […] e vi aderirà chiunque capisca il funzionamento del sistema e delle sue istituzioni, e come queste esercitino la loro influenza sul piano giuridico, sociale e sanitario al fine di controllare e normare la sessualità e il genere delle persone. Ma questo potrà accadere solo a patto che l’attivismo non si limiti alle questioni omosessuali”.

Naturalmente, la definizione di “queer” non è sfuggita agli stereotipi, in quanto associata nell’immaginario di alcun* ad espressioni e classificazioni ristrette, ignorando così alcune categorie ulteriormente marginalizzate ed escluse. In un opuscolo pubblicato dal Muslim Youth Leadership Council, intitolato “Una risorsa per la gioventù LGBTQ+ musulmana"5, che presenta il vissuto di musulmane e musulmani queer, Menna (22 anni) parla della sua lotta per conciliare l’identità arabo-musulmana e quella queer: “Per un po’ ho sofferto per trovare le parole giuste, perché volevo qualcosa che fosse radicato nella cultura araba, ma ormai uso i termini ‘lesbica’ o ‘queer’. A volte mi sento come se non fossi abbastanza queer per la società queer; mi chiedo se mi accetterebbero di più come queer velata se sapessero che ho i capelli corti o se rinunciassi a qualsiasi identità che rimanda al mio essere araba e musulmana. Ma ho imparato a non vergognarmi di essere musulmana negli ambienti queer e cerco di far capire alla gente che i/le/* musulman* queer esistono”.

E tutto ciò nonostante la queerness sia stata essenzialmente basata sin dall’inizio sulla lotta contro il centro e la resistenza dei margini. Il che emerge chiaramente in un comunicato della Queer Nation in cui la queerness è definita in termini di opposizione alle strutture dominanti e di vicinanza a tutto ciò che sta ai margini: “Nel sistema patriarcale, queer è tutto ciò che è altro, ovvero ciò che non è bianco, cristiano ed eterosessuale, virile. E siccome siamo queer e loro ci temono, ci è stato tolto il diritto di essere ciò che siamo veramente”6.

Altre voci si sono levate per denunciare, in vario modo, l’influenza della cultura americana sulla nostra consapevolezza di essere queer e sul nostro modo di comprendere il concetto di queerness. Tra gli esempi che alcun* danno di questo aspetto c’è il predominio dei prodotti queer americani in tutto il mondo: basti pensare al reality show RuPaul’s Drag Race o alla serie Netflix Pose. A tal proposito, Hamza Nasri, attivista politico e per i diritti umani, ci riporta agli esordi del termine “queer” e alla sua origine americana, sottolineando come la sua diffusione si sia accompagnata all’instaurazione dei rapporti di dominazione e marginalizzazione che pesano sulle nostre culture meridionali. Perciò, riprendendo le parole di Nasri, questi termini recano con sé la loro “dimensione globalizzata”.

La formazione del discorso queer nella regione

Al di là delle legittime reticenze espresse dal mondo queer locale, l’accusa di importare concetti occidentali viene spesso usata per screditare le voci queer arabe e per delegittimare le loro lotte. L’argomento addotto dai detrattori è che la queerness non sia originaria della nostra regione, invocando l’ibridismo dei termini queer adottati negli ultimi tempi. In tal senso, la parola “queer” viene categorizzata come un prestito linguistico per dimostrare l’estraneità dell’universo queer alla cultura araba.

In realtà, le persone e le forme di espressione queer sono sempre esistite, ma erano assenti sul piano discorsivo. A tal proposito, il giornalista Brian Whitaker afferma che “i vuoti linguistici sono spesso evocati per affermare che i concetti a cui si riferiscono non esistono nella società araba. Potremmo invece considerare che questi concetti esistano davvero, ma che la lingua araba abbia sentito solo recentemente il bisogno di termini per designarli”7.

Il ricorso a concetti e termini stranieri legati alla queerness non nasce dal nulla. Esso deriva dall’urgente bisogno per le persone queer di parlare delle proprie esperienze, un bisogno che la lingua araba non riusciva a verbalizzare. Il ricercatore francese Frédéric Lagrange, riguardo a questo fenomeno di invisibilizzazione e occidentalizzazione8, sostiene che “le fonti arabe hanno continuato a ignorare le relazioni omosessuali durante tutto il XX secolo, tacendole, alludendovi con pudore, disapprovandole oppure ripudiandole in quanto frutto dell’influenza straniera o di tendenze del passato”. Queste rappresentazioni oppressive vogliono far apparire la queerness nella regione araba non soltanto come elemento estraneo, ma anche come un insieme di contenuti intellettualmente limitati che accoglie e approva i discorsi e concetti queer occidentali nel peggiore dei modi.

Secondo la ricercatrice e docente di lingua e cultura araba all’università di Sidney Sahar Amer, “se le persone queer nel mondo arabo si riconciliassero con la propria cultura multisfaccettata, potrebbero assumere un ruolo attivo nella formazione di un nuovo discorso queer internazionale che riconosca le loro esperienze in quanto arab*, cittadin* all’interno di una società queer interconnessa”9. Amer sottolinea l’importanza di instaurare un dialogo queer tra il mondo arabo e i paesi del nord globale, poiché potrebbe rivelarsi promettente in termini di sviluppo e rivoluzione per la teoria queer, di sfida contro la logica culturale binaria e di inclusione delle specificità locali.

In una pubblicazione accademica sulle forme organizzative queer in Libano, Ghassan Moussawi parla della natura composita dei discorsi e delle posizioni strategiche queer nella regione. Il ricercatore espone le posizioni divergenti sull’argomento attestate in letteratura e tenta di delineare un quadro più completo, superando i limiti di certi approcci che a suo avviso trattano le forme organizzative queer in modo parziale o riduttivo. Da un lato, c’è chi ammette l’egemonia del modello euro-americano sulle lotte queer della regione; dall’altro, invece, chi loda gli sforzi dell’universo queer a immergersi nei rispettivi contesti culturali locali. Moussawi, dal canto suo, considera che “i gruppi queer del sud, inteso come geografico e politico, si scontrano con il dilemma di agire all’interno di un quadro organizzativo e discorsivo riconosciuto sul piano internazionale, e di dover restare nello stesso tempo radicati nel loro contesto locale”10. Il ricercatore conclude affermando l’esistenza di una molteplicità di livelli nel discorso queer libanese, a metà strada tra il locale e il globale. E nel momento in cui il movimento queer locale si unisce a quello internazionale nella lotta contro l’eteronormatività che domina nel mondo, contestualmente esso non manca di criticare e mettere in discussione i discorsi queer euro-americani egemonici.

Firas Bejawi, attivista per i diritti umani e studente tunisino, preferisce mantenere il termine nella sua forma originaria per conservarne l’impronta internazionale. Secondo lui, per la sua versatilità e capacità di diffusione, la parola può e anzi deve inglobare le nostre narrazioni e culture locali: “Il termine ‘queer’ ‒ afferma ‒ si è sempre mostrato capace di accogliere nuovi significati e rappresentazioni”. Ed è quello che tentano di fare recentemente certe iniziative arabe. Così, mentre alcun* associano la queerness a elementi culturali occidentali, altr* cercano di conferirle un carattere locale radicandola nella lingua, nel parlato e nella cultura araba.

Nell’introduzione di “Bareed mista3Jil”, raccolta pubblicata nel 2009 in Libano dal gruppo Meem11, le autrici parlano di un’ossessione lessicale: “La lingua araba è anche la nostra lingua, e le lingue sono vive. Sono le persone che danno alle parole dei significati: possono cambiarli, inventare nuove espressioni o rifiutare l’uso di termini offensivi. Abbiamo bisogno di contrastare le terminologie che stanno nella nostra testa”12.

Queer e il contesto locale

La prospettiva queer ci permette di guardare con occhi nuovi la nostra eredità locale e scoprire le molteplici forme di genere e sessualità radicate nella letteratura, cultura e arte arabe, che le pratiche di cancellazione, esclusione e denigrazione contro le forme di espressione e le persone queer avevano fatto sembrare estranee alla nostra realtà. Negli ultimi tempi c’è stata un’evoluzione nel nostro posizionamento queer, avvenuta insieme alla diffusione del termine stesso. Abbiamo assistito a una trasformazione dell’essere queer, da oggetto di studio o corpo estraneo da vivisezionare, a entità attiva che produce un discorso critico e contribuisce a leggere la realtà e a decostruirla attraverso il suo sguardo e posizionamento. A titolo d’esempio, possiamo qui citare alcune letture queer a nostro avviso interessanti: “Scene queer nel cinema arabo”13, “Una lettura queer della rivoluzione siriana”14 e una rivisitazione queer della letteratura araba classica e contemporanea15.

Rania Arfaoui, attivista intersezionale tunisina, ritiene che il carattere ambiguo e strano della parola “queer” aiuti ad alimentare la curiosità di coloro che la sentono pronunciare, spingendol* a interrogarsi sul suo significato. Arfaoui ha notato questa curiosità durante i movimenti di protesta e le manifestazioni artistiche a Tunisi in cui venivano utilizzati titoli e slogan queer, per esempio “Rivoluzione queer”, “Insurrezione queer”16, “Mawjoudin Queer Film Festival”17. La parola “queer”, così poco familiare ai più, rappresenta, secondo Arfaoui e altre militanti per i diritti Lgbtqi+, una porta d’accesso per parlare e riconoscere queste cause, per studiare la storia militante del movimento. Il che potrebbe rendere la comunicazione più efficace con un pubblico di solito a disagio con i termini queer più abituali, come mithli, gay o lesbian, che potrebbero suscitare pregiudizi in chi li ascolta o generare un rifiuto automatico in coloro a cui vengono rivolti. Perciò, secondo Rania Arfaoui e altre attiviste, il termine “queer” ha preparato il terreno per il dibattito e facilita l’approccio agli argomenti queer, anche da un punto di vista cognitivo.

Negli ultimi anni nelle piazze arabe non sono mancati slogan contenenti questa parola, a volte scritti sui muri ‒ come “Kwirs marru min huna” (I queer sono passati di qua)18, “Kwirs lil-thawra” (Queer pro-rivoluzione)19 o “Thawra kwiriiya” (Rivoluzione Queer)20 –, altre volte urlati durante le manifestazioni o scritti sugli striscioni.

Omar al-Khatib di Al-Qaws ci parla dell’ultimo movimento palestinese ad aver utilizzato slogan queer e delle reazioni della gente: “Come è successo per ‘al-qaws’, il termine ha conosciuto una svolta lo scorso anno, da quando è stato usato nel titolo di uno degli eventi più importanti degli ultimi tempi, il sit-in “Sarkha kwiriyya lil-hurriyya” (Un grido queer per la libertà)21. Durante i preparativi abbiamo capito che dovevamo concedere alla parola più spazio a livello popolare, spiegarne il significato e gli obiettivi del suo utilizzo a gruppi e cerchie diverse. Così, ci siamo mess* a produrre del materiale esplicativo molto semplice dal titolo “Cosa significa queer”22. Abbiamo avuto un riscontro importante e ora questo materiale rappresenta per molt* attivist* uno strumento per la diffusione del termine”.

La categoria queerness, anche se di origine occidentale, ha permesso di fornire un quadro teorico per leggere la nostra realtà locale e per comprendere le strutture egemoniche presenti nella nostra regione e in altre parti del mondo. Hanno conosciuto un destino simile il femminismo, il marxismo e altri percorsi intellettuali e di liberazione che venivano tenuti a distanza perché legati a una geografia e a contesti culturali specifici. Resta tuttavia il fatto più importante: la capacità della parola di generare significati e di suscitare dibattiti. E, come afferma la docente di analisi sociale e culturale Lisa Duggan: “Il termine ‘queer’ promette significati e stili innovativi per la riflessione intellettuale e l’azione politica. Una promessa che a volte può avverarsi e altre volte no”23.

Per concludere, la parola “queer” ha lasciato un segno nelle nostre pratiche discorsive, dal momento che ha fatto da apripista e ha permesso il capovolgimento di alcuni insulti impiegati localmente per stigmatizzare la comunità Lgbtqi+. Difatti, ultimamente abbiamo visto nomignoli offensivi come lubia (finocchio), tisha (checca), shadh (frocio), luti (ricchione) apparire nei discorsi militanti con l’obiettivo della loro riappropriazione. Proprio come era successo in passato con la stessa parola “queer”.

1Meem, “Bareed Mista3Jil: True Stories”, Beirut, 2009, p. 115.

2“Queer Nation” è un’organizzazione politica creata nel marzo del 1990 a New York per contrastare la violenza omofobica, su iniziativa di alcun* attivist* della comunità Lgbtqi+ già impegnat* in “Act Up”, una realtà politica di base nata per tentare di arginare la pandemia di Hiv/Aids. NdT

3Esther Kaplan, “A Queer Manifesto”, Village Voice, 14 agosto 1992, p. 36.

6Jacek Korkak, “Queer as a Political Concept”, Unigrafia, 2015, p. 67.

7Brian Whitaker, “Unspeakable Love: Gay and Lesbian Life in the Middle East”, University of California Press, 2006, p. 204.

9Sahar Amer, “Naming to Empower. Lesbianism in the Arab Islamicate World Today”, Journal of Lesbian Studies, 16:4, 2012, p. 391.

10Ghassan Moussawi, “(Un)critically queer organizing: Towards a more complex analysis of LGBTQ organizing in Lebanon”, Sexualities, 18, 10.1177/1363460714550914, 2015.

11Organizzazione femminile Lgbtqi+ libanese creata nel 2007. NdT

12Meem, “Bareed Mista3Jil: True Stories”, Beirut, 2009, p. 36.

15Ismail Faid, “Fi khazanet Nagib Mahfouz”, al-Jumhuriyya, 2018. https://aljumhuriya.net/ar/2018/12/19/

23Lisa Duggan and Nan D. Hunter, “Sex Wars”, New York and London, Routledge, 2006, p. 149.