“L’arte come consolazione per anime spezzate”. Incontro con il poeta palestinese Najwan Darwish

Nato a Gerusalemme nel 1978, Najwan Darwish è una delle voci più riconosciute a livello internazionale nel panorama poetico arabo contemporaneo. Giornalista, poeta e critico letterario, dirige la pagina culturale di Al Araby Al Jadeed. Orient XXI Italia l’ha incontrato a Roma in occasione della presentazione della sua raccolta poetica Più nulla da perdere, per la prima volta disponibile in lingua italiana.

Una scritta che ricorda la Nakba nel quartiere fantasma di Wadi Salib.
© Cecilia Dalla Negra, Haifa, maggio 2018.

“Posa il capo sul mio petto e ascolta
gli strati di macerie dietro la madrasa di Saladino _. ascolta le case sventrate lì a Lifta
ascolta il mulino distrutto e la lezione di lettura
nella moschea a piano terra
ascolta le luci sulle terrazze
che vengono spente per l’ultima volta
sulla cima di Wadi Salib […]”.1

Una scritta sul muro tra le case abbandonate, che sono rimaste lì a guardare il presente diventare futuro, perdendo il proprio posto nel passato: “1948: Wadi Salib è Palestina, Haifa è Palestina”. La indica con il dito Najwan Darwish, mentre racconta la storia di questo quartiere abbandonato in fretta durante la Nakba, rimasto fermo in un tempo sospeso, incastonato come una pietra preziosa tra il mare di Haifa e la sua ferrovia. Lì, dove la storia palestinese si è fermata nel 1948, Darwish si muove con la sapienza di chi conosce ogni pietra. E ostinatamente ricorda. Era il 2018, e mi aveva accompagnata a visitare ciò che resta del passato palestinese di Haifa, oggi città israeliana. “Per noi palestinesi la memoria non ha a che fare con il passato, è realtà viva e profondamente attuale”, racconta. Nell’aprile del 2022 Darwish è in Italia per un tour di presentazione di Più nulla da perdere, raccolta poetica uscita nel 2021 per la casa editrice Il Ponte del Sale, curata e tradotta da Simone Sibilio, con la prefazione della poetessa Franca Mancinelli.2

Per lui, nato a Gerusalemme, temporaneamente residente ad Haifa ma definitivamente “dislocato” - come usa definirsi - la relazione con lo spazio e le radici resta complessa. Come quella di chi, per dirla con Edward Said, si trovi sempre e comunque “nel posto sbagliato”.

“Da un punto di vista storico, culturale, familiare, quello palestinese è il mio spazio. Ma al tempo stesso non lo è, essendo colonizzato”, racconta Darwish. “In questo senso, allo spazio è collegato il significato più profondo della Nakba. Per me tutta la Palestina è occupata. Lo è Gerusalemme come Akka, Jaffa come Haifa. Siamo tutti sotto occupazione: a Ramallah come a Betlemme, ad Al Khalil come a Gaza”. Uno spossessamento, quello evocato da Darwish, che trova eco in alcuni dei suoi versi più struggenti.

“Gli alberi tendono a oscillare senza mai cadere
perché gli alberi caduti, qui, non li accoglie la terra
nulla o nessuno […]
Fai bene se anche tu hai immaginato alberi oscillare con te
ed aria accogliere la tua caduta
sei tu che hai vissuto come questi alberi
senza terra né radici”.3

Una poesia che è testimonianza, la sua. Un dire a gran voce, senza temere accuse di estremismo, che per Darwish non rappresenta solo un dovere morale, ma quasi un imperativo intellettuale. “Credo che il solo ruolo possibile per gli intellettuali oggi sia quello di dire la verità. È ciò che ci distingue dai tecnocrati e dalle élites culturali che hanno avuto voce in passato. Come intellettuali palestinesi stiamo dicendo ciò che dovremmo? Me lo domando spesso. Da parte mia, tento di riflettere onestamente su ciò che accade al mio popolo e al mio paese, quali che siano le conseguenze del mio parlare. E quando mi accusano di volere la distruzione di Israele rispondo che è ridicolo. Come potrei voler distruggere qualcosa che è parte di me? Israele è parte della Palestina. Quello che dobbiamo fare è decostruire il regime coloniale che ha instaurato. In fondo nessuno Stato è sacro, né intoccabile”, riflette il poeta.

Pungente, sarcastica, diretta: così è la voce di Darwish, anche quando si riflette nella parola scritta. Un filo rosso che l’attraversa è proprio l’intento testimoniale, la sovrapposizione tra la funzione del poeta e quella dello storico. “Considero la poesia una dichiarazione dinanzi alla Storia”, spiega. “Se in futuro qualcuno leggerà quanto ho scritto, spero la considererà una testimonianza onesta su un’esperienza umana, su un paese, su una lotta. Scritta da un uomo coerente, nel modo migliore che ha potuto”.

“Se il tempo passa e io non l’ho scritto
allora i sionisti saranno riusciti a farmi fuori”.4

Più nulla da perdere

“[…] Posa il capo sul mio petto
ascolto la terra
ascolto l’erba che la fende.
Per amore abbiamo perso la testa
e non abbiamo più nulla da perdere”.5

È così che le parole per Darwish si fanno pietre, lastre su cui incidere imperiture memorie attraverso il potere di un linguaggio sempre onesto, scomodo, che sappia riscrivere un presente obliterato. Più nulla da perdere, la poesia che dà il titolo alla raccolta italiana, è allora una dichiarazione d’amore per una terra e una causa, e insieme una constatazione che indaga il politico e richiama alla mente lo slogan spesso utilizzato da una nuova generazione di palestinesi disposta a rischiare tutto, proprio laddove non è rimasto “più nulla da perdere”. Una generazione che sta dando un contributo intellettuale determinante nella riappropriazione e risignificazione del linguaggio che sceglie per nominare l’oppressione, rifiutando le categorie astratte ed edulcorate imposte dalla diplomazia, dal sistema mediatico internazionale, dalla stessa Autorità Palestinese.

“Quello a cui abbiamo assistito nel maggio 2021 con l’Intifada dell’Unità è stato un movimento spontaneo prima ancora che intellettuale”, riflette Darwish. “Le nuove generazioni sono migliori di chi le ha precedute, e sono molto più coraggiose. Non hanno paura di ridefinire i confini della loro lotta. Dopo la Nakba abbiamo avuto una generazione prostrata dal trauma: credo che oggi sia diverso, e che i giovani stiano infondendo alla nostra causa nuova speranza. In questo senso l’affermazione che non vi sia “più nulla da perdere” assume un tono tutt’altro che vittimistico: è solo quando si è perso il massimo che si può rischiare tutto”.

E allora, il ruolo delle diaspore intellettuali diventa proprio questo: “riconnettersi con le nostre patrie perdute”, sostiene Darwish. “E riunire quelli che io chiamo i diversi ‘cerchi concentrici’ della liberazione palestinese. Quello della cosiddetta Cisgiordania e di Gaza; quello della Palestina occupata nel 1948, e quello della Palestina del rifugio. Credo che solo tornando ad unirli sia possibile costruire un movimento di liberazione efficace. Tra gli scopi degli Accordi di Oslo ci fu l’intento di spezzare questa connessione. È stato spiegato ai palestinesi del ’48 che non erano più palestinesi; ai rifugiati che non ci sarebbe più stata una patria per loro, e agli occupati che il loro unico ruolo era contribuire ad arricchire il loro stesso occupante. Il Sionismo ha commesso crimini per un secolo, credo sia arrivato il tempo che ne paghi il prezzo”, sostiene.

Razzismo occidentale, subalternità globale

Da questo punto di osservazione così particolare, da questa dislocazione irrequieta e costante, prende avvio la riflessione più amara di Darwish rispetto all’attualità, e al doppio standard che l’Occidente ha mostrato nei riguardi della questione ucraina. Qualcosa che, per il poeta, ha a che fare con la natura stessa delle società europee. “Quella del razzismo è un’industria”, sostiene. “È più facile controllare persone razziste che esseri umani liberi. Il razzismo – presupposto essenziale per ogni colonialismo - è parte integrante della struttura sociale europea e ben radicato nella sua cultura. L’atteggiamento mostrato nei riguardi dei rifugiati ucraini bianchi mostra una realtà difficile da ammettere per voi, ma per noi molto chiara. Non sto dicendo che esista una parte di mondo completamente priva di etica, ma solo che abbia accettato – e ancora accetti – una differenza strutturale tra persone bianche titolari di pieni diritti, e persone non-bianche che da quei pieni diritti sono escluse. È una forma di violenza che l’Europa ha sempre praticato”, riflette amaramente.

“Che orrore fu la Nakba?
Quanto è stato duro essere profughi?
Ma queste sono minime tribolazioni per neri come noi”.6

Una constatazione che, tuttavia, non lo priva di quell’empatia così cristallina nei suoi versi, appresa attraverso un dolore vissuto sulla propria pelle, capace di renderla più sensibile alla sofferenza degli altri. È in questo senso che Darwish con la sua opera poetica colloca chiaramente se stesso all’interno di un’identità subalterna collettiva che travalica i confini della Palestina e della sua causa; una “blackness globale” a cui il poeta dichiara apertamente di appartenere in alcuni dei suoi versi più intensi, nella poesia Carta di identità:

“Non c’è un altro luogo capace di resistere ai suoi invasori
come quello del popolo a cui appartengo
e non c’è un uomo libero che non sia mio parente
non c’è un solo albero o una sola nube a cui non debba qualcosa”.

Partire dal proprio dolore per sentire quello degli altri, dunque; mettere l’io da parte e rendere la penna strumento testimoniale di resistenza universale. “A volte sono io a parlare, altre è la Storia a farlo attraverso la mia voce”, spiega Darwish. “Può essere l’esperienza della mia terra e del mio popolo ad essere narrata nei miei versi, o quella di altri popoli e altre cause. In fondo, come scrittori siamo solo strumenti di quanto scriviamo”.

Non ci si inganni, dunque: nella poesia di Darwish non c’è spazio per facili ottimismi o afflati di speranza. Eppure, il suo scrivere è sottilmente attraversato da una tensione, da uno sguardo costantemente rivolto ad un passato che è centrale nominare proprio perché il futuro possa trovare dimora. Uno slancio che trae la sua energia non da vacui intendimenti retorici o ideologici – e anzi, tanto la sua poesia quanto la sua riflessione politica restano saldamente ancorate ad una critica senza sconti verso l’élite palestinese e i ‘fratelli arabi’ -; ma piuttosto dal suo stare nel quotidiano con cristallina coerenza.

“Ho provato una volta a sedermi
in uno di quei posti della speranza rimasti liberi
ma la parola ‘reserved’
era lì accucciata come una iena
(non mi sono più seduto, e come me nessun altro).
I posti della speranza sono sempre prenotati”.7

“Non posso affermare di scrivere per nessun altro che non sia io stesso quando lo faccio”, ammette Najwan Darwish. “La poesia è prima di tutto per la poesia, e solo dopo arriverà a chi la legge. Non sarà il suo scopo, ma la sua conseguenza. Mi piace pensare che l’arte, in fondo, sia fatta per consolare anime spezzate”.

1Un passo della poesia “Più nulla da perdere”. Tutte le poesie citate nell’articolo si trovano nel volume menzionato.

2Najwan Darwish, Più nulla da perdere, a cura di Simone Sibilio, prefazione di Franca Mancinelli. Il Ponte del Sale, 2021.

3Versi tratti dalla poesia “Come questi alberi”.

4Versi tratti dalla poesia “Sion”.

5Versi tratti dalla poesia “Più nulla da perdere”.

6Versi tratti dalla poesia “Le mie nonne”.

7Versi tratti dalla poesia “Reserved”.